Intervista a Ras Kass (12/10/2020)
E’ lunedì, quasi mezzanotte, la giornata è stata piena e impegnativa ma restano ancora molte energie per portare a termine l’ultimo appuntamento. In California sono le tre del pomeriggio, farà sicuramente caldo rispetto a qui e dall’altra parte dello schermo ci attende una vera leggenda dell’underground della west coast, Ras Kass in persona, motivo per il quale la stanchezza accumulata non riesce a battere l’adrenalina per quanto sta per accadere. Troviamo così una persona molto disponibile, assai spassosa da intervistare per il gran numero di risate che ci si riesce a strappare vicendevolmente, determinata nell’avere chiara in testa la propria direzione artistica, come imparato nel corso di una carriera spesso travagliata. L’occasione della chiacchierata ci è fornita dall’uscita di “I’m Not Clearing Shxt“, né un disco ufficiale né un mixtape, come lo stesso mc sottolinea ripetendo le informazioni forniteci dall’ufficio stampa; si tratta dell’ultimo progetto di un’ispirazione in moto perpetuo e il primo di una serie di cosiddette vinyl playlist della quale ci mostra il prodotto finito, un 33 giri che arriverà anche in Europa non appena sarà concluso un accordo per la distribuzione. Giusto il tempo di espletare i convenevoli ricordando tra le altre cose il concerto di Schio facente parte del suo tour con Apollo Brown di cinque anni fa (what a great time, ricorda…), di fare un inevitabile preambolo sul tema Covid, e le nostre domande partono proprio da questo nuovo lavoro che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare in anteprima.
Mistadave: prima di parlare del nuovo disco, com’è la situazione Covid in California attualmente?
Ras Kass: è una situazione pazzesca, come dappertutto. Dobbiamo ricordarci di indossare una mascherina che non ci piace avere addosso, ma lo facciamo ugualmente. Qui a maggior ragione, perché abbiamo anche il problema degli incendi, quindi non c’è scelta. Ci sono tutte queste nuvole che ci bloccano, un sacco di inquinamento, è caldissimo: una situazione frustrante. Stiamo vivendo una sorta di “Cabin Fever”, vorresti uscire ma non ne hai molta voglia perché là fuori non c’è molto da fare a causa delle restrizioni. Per esempio, ieri abbiamo festeggiato il titolo dei Lakers e ci siamo trovati tra amici allo Staples Center a downtown, cammini per strada e l’unica cosa che trovi sono decine di macchine della Polizia, nessun bar aperto, niente musica in giro, una sorta di apocalisse zombie.
M: felice per questo titolo dei Lakers?
RK: certamente sì, anche se porta un gusto dolceamaro, perché va detto che è soprattutto un tributo alla tragedia di Kobe Bryant, alla sua famiglia e alle famiglie di tutte le persone che c’erano in quell’elicottero. E’ una situazione singolare, le partite non vedono pubblico sugli spalti, ci adattiamo a quello che possiamo fare. Io comunque rappresento sempre la mia squadra (nel dirlo indica il cappellino viola che indossa oggi, con la scritta Los Angeles riportata in giallo, come da colori sociali – ndMista).
M: parliamo di questo nuovo album che sta per uscire, anche se tu non lo definisci così e il motivo mi incuriosisce.
RK: oggi un album è un prodotto digitale acquistabile su iTunes o Amazon, il mio è invece un white label, una di quelle uscite per la quale realizzi una stampa limitata in vinile e non ti preoccupi di pagare per i campioni utilizzati. E’ un’operazione molto rétro per come la interpreto io; e non è nemmeno un mixtape, perché nella maggior parte dei casi per realizzarlo si usa musica già fatta da altri. Con questo disco ho invece voluto dar vita a una mia idea particolare che chiamo vinyl playlist, qualcosa che contiene la mia visione di dove volevo andare e che offre musica originale. Date queste premesse, si tratta di pezzi che iTunes, ad esempio, non mi permetterebbe mai di pubblicare per via delle politiche sui sample e quindi non posso tecnicamente definirlo un album. Da qui il significato del titolo che ho scelto.
M: possiamo considerarlo il primo volume di una serie di pubblicazioni nate da questo concetto?
RK: non lo so ancora. E’ un disco che ho concepito come tanti altri che ho fatto, con la differenza che non lo pubblicherò attraverso le vie tradizionali e racchiude il tipo di idea e di esecuzione che ho in questo preciso momento. L’ho fatto in modo del tutto Hip-Hop, l’ho concepito, costruito, messo a disposizione di chi vorrà supportarlo, sperando che siano in tanti, promuovendo il formato in vinile.
M: presumo sia una scelta nata anche dai ben noti problemi che hai patito a causa dell’industria musicale.
RK: esatto (e mentre lo dice abbozza un’espressione particolare, che evidenzia un misto tra tristezza e sollievo – ndM). Amo l’indipedenza e ci sono realtà che io chiamo major indies che te la possono garantire. Penso a Mass Appeal, Stones Throw, Mello Music, ti permettono di creare le tue cose partendo dalle fondamenta fornendoti il sostentamento economico necessario per dare corpo alle tue idee, perché alla fine si basa tutto sui soldi, che ti garantiscono sempre l’accesso a mezzi più ampi. E’ quello che io chiamo ends game. E’ una questione di affari che a mio parere nasce dai tempi della rivoluzione industriale, dato che la musica è diventata una sorta di catena di montaggio che permette di manifatturare l’arte. E nove volte su dieci la battaglia tra arte e affari è vinta da questi ultimi.
M: di recente hai rilasciato il singolo “5 Mikes“, che evidenzia la tua ennesima uscita basata sulla creatività lirica. Non sembri invecchiare mai da questo punto di vista…
RK: e invece sono parecchio stressato (nel dirlo se la ride di gusto – ndM). Scherzi a parte, la longevità mi è stata possibile solo per il fatto che amo fare Rap nonostante tutte le difficoltà che ho dovuto passare, gli alti e i bassi non sono mancati ma nemmeno la passione, d’altronde sono sempre rimasto un fan della Cultura anche dopo che ho cominciato a fare dischi. Mi piace sentire altra musica fatta da artisti capaci, mi motiva e mi stimola a competere, a essere ancora migliore. Mi piace farmi ispirare da qualcuno di veramente bravo e avanti così.
M: il disco ha un suono che ricorda molto l’Hip-Hop più tradizionale. Da cosa deriva questa scelta?
RK: ho pensato molto al modo in cui si usava fare Hip-Hop quando ho cominciato io, quando realizzai il mio primo demo, “Remain Anonymous”. Era il canonico boom bap a novanta bpm del quale volevo fare oggi un utilizzo più approfondito, dato che “Soul On Ice” fu un album per il quale ci orientammo maggiormente nel ricercare piccoli campioni estratti dal Jazz, roba scura, di quella che ho sempre adorato, trovando di conseguenza delle battute più lente. Che è un po’ lo stesso concetto che abbiamo applicato con Apollo Brown per “Blasphemy“, con la differenza che oltre al Jazz abbiamo campionato anche il Soul e i ritmi scelti mi hanno permesso di fare cose davvero interessanti a livello lirico. Per questo nuovo disco volevo quindi produrre del materiale più tradizionale, sullo stile di “Chief Rocka” dei Lords Of The Underground o “Ante Up” degli M.O.P., roba che ti fa muovere la testa su e giù. Al di là di ciò, cerco sempre di essere un passo avanti e sono fortunato di aver potuto lavorare con tanti produttori di talento, con i quali c’è la giusta coesione per trovare la reciproca comfort zone. Alcune delle idee facevano parte di qualcosa che avevo già dentro da tempo, ma che non riuscivo a realizzare: avevo già in mente da parecchio di campionare Elvis Presley e avevo già provato a farlo con qualche produttore, ma non mi piaceva ciò che ne era uscito. Le persone con cui ho lavorato per “I’m Not Clearing Shxt” sono invece riuscite a portare a compimento le idee che avevo, a dare forma alla mia arte. Un pezzo di cui sono particolarmente orgoglioso è “Chuck Berry”, perché racchiude ciò che volevo realizzare, un pezzo basato su un campione che tutti conoscono, proprio come si faceva una volta: ne abbiamo ottenuto una bomba! Un altro brano interessante è “Animal Crackers”, per la quale abbiamo campionato Shirley Temple, ma non necessariamente tutti i sample che abbiamo scelto sono noti a tutti. Ci sono delle belle trovate che spero vengano apprezzate anche se non ho una particolare promozione. Abbiamo ottenuto il risultato che volevamo con questo sound, roba classica e stop, ma abbiamo anche cercato di inserire dei piccoli dettagli sonori che nell’Hip-Hop attuale non si usano più, cercando di essere originali pur utilizzando tecniche del passato. Amo la roba che Griselda Records mette fuori, il tempo dei pezzi, l’assenza di batterie e il sound dei sample mi ricorda tantissimo Rae e Ghost, ma non per questo è qualcosa che farei, perché sarebbe riproporre il loro stesso concetto, che a mio avviso proviene dal Wu-Tang Clan. Per esempio, abbiamo cercato di inserire delle batterie secondarie in alcuni pezzi, quando oggi la tendenza è invece di far sparire la sezione ritmica, creando qualcosa che nella mia definizione è futuristic classic shit.
M: il disco presenta molti featuring, alcuni dei quali da parte di leggende provenienti da ambedue le coste come Masta Ace e Ice-T.
RK: sai, a volte per me si tratta di riuscire a sentire determinati artisti su un certo beat, nella stessa maniera in cui riesco a sentire me stesso quando decido quali utilizzare. A volte si tratta solo di un ritornello, come capitava ad esempio nei più vecchi lavori degli N.W.A. quando inserivano Michel’le o cose del genere, in altri casi si tratta semplicemente di un’intro fatta da qualcuno che sento stia bene in quel pezzo, giusto perché non sia io l’unica voce del brano. Ho fatto una cosa simile su “Parkour“, dove puoi trovare Hus Kingpin che si atteggia con qualche frase delle sue giusto per fare l’intro e catturare l’orecchio con qualcosa di inaspettato, una roba che mi è stata ispirata da attori come Adam Sandler quando fanno delle apparizioni su film di altri senza venire menzionati nei crediti e te li ritrovi lì, senza preavviso.
M: “Soul On Ice” è il tuo capolavoro indiscusso. C’è un pezzo di cui oggi ti senti particolarmente orgoglioso?
RK: bella domanda. In realtà, penso di non poter isolare un singolo brano, l’album nel suo complesso è riuscito veramente bene e abbiamo fatto il meglio che potevamo, a livello lirico ho cercato di coprire un gran numero di argomenti. C’erano barre di tutti i tipi, battle Rap, storytelling, roba di strada, ho cercato di parlare di tutti gli aspetti di me stesso che potevo esprimere. Sono orgoglioso di tutto il lavoro lirico e di come sono riuscito a esprimermi.
M: nonostante gli anni, il disco è invecchiato benissimo, è rilevante ancora oggi.
RK: probabilmente la ragione sta nel fatto che ho sempre cercato di pensare vent’anni avanti e che ciò che dicevo sarebbe stato recepito solo in futuro. Oggi la speranza è che il mio lavoro possa non essere trascurato, che la gente possa andare indietro a rivedere ciò che ho fatto con Apollo Brown, che apprezzi “Soul On Ice II” e “Intellectual Property” o il progetto Semi Hendrix, che tutti questi lavori possano resistere al test del trascorrere del tempo. Non posso preoccuparmi di essere banale, voglio che chi mi ascolta apprezzi chi sono realmente. A volte sono preso da piccoli progetti che mi vengono in mente, che non sono veri album e non richiedono di essere strutturati e pensati in quel modo, come se ad esempio Dave Chappelle entrasse in un luogo a caso a fare la sua stand-up comedy per cinque persone, un’idea che mi piace tantissimo e che rappresenta parte di quel che sono.
M: pensi che l’industria discografica ti abbia tagliato fuori per pezzi come “Nature Of The Threat” e per tutti gli altri dove ti esprimi in maniera così schietta?
RK: penso di essere stato Colin Kaepernick prima che lo fosse lui stesso! Ho offeso qualcuno ai poteri alti, esposto delle verità scomode, forse ho dato fastidio a qualcuno dei miei stessi colleghi, ma alla fine dei conti l’Hip-Hop è basato sulla competizione e ho sempre cercato di chiamare fuori nomi di rilievo, perché volevo confrontarmi con i migliori e dimostrare di esserlo io senza alcuna animosità, odio o negatività. Volevo solo gettare il guanto di sfida e provare di cos’ero capace, barra dopo barra. Non ho mai visto un boxer salire sul ring per arrivare secondo. Si tratta solo di essere il campione, come desiderano anche gli altri, possiamo essere amici finché vuoi ma se iniziamo una competizione devo farti smettere di pensare di essere migliore di me (ride di gusto – ndM).
M: ho sempre apprezzato la tua integrità e il tuo modo di dire le cose come stanno. Credo ci siano inoltre delle congiunzioni tra tuoi pezzi registrati in epoche diverse ma con uguali intenti: “Nature Of The Threat” si collega ad esempio a “Jesus Pressed Mute” (dei Semi Hendrix) nonché a “Deliver Us From Evil” (in scaletta su “Blasphemy”).
RK: assolutamente sì. Alcuni di questi punti di vista forti possono essere ricorrenti nel tempo perché fanno parte del mio modo di pensare, delle mie percezioni, di chi sono io. E ogni volta cerco di proporle in modo differente. Qualcuno mi dice sempre che potrei scrivere una “Nature Of The Threat Part II”, ma non è ciò che m’interessa fare. Il messaggio che invece cerco di dare è che il trascorrere del tempo non ha cambiato il mondo: il razzismo è ancora molto attuale, abbiamo Donald Trump come Presidente e alla fine dei conti il potere bianco esistente negli Stati Uniti è di fatto un’estensione delle considerazioni fatte su “Nature Of The Threat” e “Deliver Us From Evil”. Vale anche per tutti quei pezzi che dedico alla critica dell’industria musicale, con la quale ho avuto parecchie esperienze negative che hanno generato alcuni comportamenti da parte mia poco consoni nei confronti di chi magari aveva apprezzato la mia musica – e per questo mi scuso. Ma nessuno può essere al 100% per tutto il tempo: cerco sempre di essere cool con tutti, per quanto mi è possibile.
M: nella prima parte della tua carriera hai avuto parecchie grane (problemi con le etichette, tra cui la fusione tra Capitol Records e Priority, e periodi di detenzione in prigione), mentre nella seconda parte sei stato particolarmente prolifico.
RK: vero. Mi sono trovato in mezzo a etichette miliardarie e quando sei Davide e cerchi di lottare contro Golia non ne esci certo vincente. Quando succedono casini come quelli attraverso i quali sono dovuto passare io, con i miei dischi cui veniva negata la pubblicazione e dovevi avventurarti in cause legali che a volte duravano nove o dieci anni, tendi a perdere le speranze. Avrei desiderato fare una carriera più lineare come quella di Eminem, Xzibit, Talib Kweli, Mos Def, Common, Pharoahe Monch o 50 Cent, ma il mio viaggio è appunto il mio e ho deciso di dare il 110% in qualsiasi situazione mi ritrovassi. Ho accettato di passare più volte sotto il radar e di non avere quei dieci anni di consistenza che i colleghi che ho citato hanno avuto. Loro hanno avuto l’opportunità di andare in tour e farsi conoscere a New York piuttosto che a Miami, in Italia piuttosto che in Germania, io non ho goduto di questa opportunità, ho dovuto continuare a lavorare pensando a una mia idea che indica le diecimila ore quale tempo utile per diventare un esperto – e ho applicato il tutto al mio metodo personale. Quando ho finito ho ricominciato da capo, anche di recente, per farne altre diecimila. L’obiettivo è quello di arrivare allo status di Nas o KRS-One, che possono permettersi di pubblicare un album ogni cinque anni, e nel frattempo continuare i miei progetti paralleli con altri artisti nel massimo dell’indipendenza.
M: il 2020 è stato un anno particolarmente prolifico per te.
RK: sì, anche se sarei dovuto partire per un tour che mi avrebbe portato in Europa, Nord Africa e Australia. Sarei anche dovuto tornare in Italia. Da quel punto di vista, a causa del Covid, non è stato certo un bell’anno. Dal mio punto di vista la situazione ha mosso per prime le persone più creative, non quelle più famose, ed è proprio da quelle meno conosciute che sono emersi i contenuti interessanti. Poi è arrivata la gente coi soldoni che ha cominciato ad appropriarsi indebitamente di queste idee, giusto per avere più fama e maggiori follower, tanto oggi delle scopiazzature non importa più a nessuno nemmeno nell’Hip-Hop.
M: molto prolifica è stata anche la tua firma per la Mello Music Group.
RK: certo! E lo è ancora, anche se tecnicamente non ho firmato contratti e non faccio ufficialmente parte del loro gruppo di artisti. Non ci ho pensato nemmeno un attimo nel collaborare con Michael Tolle, un proprietario davvero affezionato alla Cultura: la Mello non è una major eppure è una potenza del mercato Hip-Hop e può offrirti risorse economiche che altri non si possono permettere, investono denaro per tuo conto per la promozione del disco.
M: ti hanno offerto cose di cui non hai mai potuto usufruire.
RK: esatto, perché nella mia esperienza con le major dovevo subire tutte le decisioni che prendevano per me, sotto tutti gli aspetti. Ogni cosa che facevo era di loro proprietà. Il sistema di supporto e indipendenza della Mello Music Group non è nemmeno da paragonare a quelle stronzate.
M: attraverso la MMG hai lavorato sia con Apollo Brown che con Jack Splash, l’uno molto tradizionale, l’altro decisamente più eccentrico. Che differenze hai trovato nel loro approccio alla produzione?
RK: Apollo Brown ha una sua chiara visione di dove vuol andare e di conseguenza studia a fondo il rapper con cui lavora. La sua abilità migliore è quella di conoscere esattamente su quale tipo di beat vuol sentire un determinato artista, ma allo stesso tempo quel beat rispecchia pure i gusti dell’artista medesimo. Normalmente, i produttori mi mandano manciate di beat, magari me ne piace uno solo o addirittura nessuno, e il processo deve di conseguenza andare avanti finché non trovo un congruo numero di cose che mi stimolano a scrivere; Apollo sapeva invece esattamente cosa mi sarebbe piaciuto e infatti il processo di selezione è stato molto più snello. Jack Splash è un visionario che ama il Funk prima di ogni altra cosa, al contrario di Apollo che è del tutto votato al Soul. Jack usa un metodo produttivo completamente diverso, perché molte cose le suona lui dal vivo, non fa nulla di scontato in quanto vuole sempre essere un passo avanti agli altri. Ha inoltre un curriculum di tutto rispetto, ha vinto dei Grammy con Cee Lo e altri artisti, ha venduto milioni di dischi, non ha limiti nel mettere a punto le sue idee. Per lui il progetto Semi Hendrix è stato qualcosa di legato esclusivamente al liberare completamente la propria passione. Ne è venuto fuori un Hip-Hop completamente differente, sull’esempio di ciò che fanno i Run The Jewels (anche se loro sono completamente diversi): non a caso abbiamo attirato l’attenzione di molte riviste autorevoli che ci hanno dedicato articoli e recensioni.
M: e invece cosa ci racconti dei Jamo Gang?
RK: oooohhhhh, quelli sono i miei fratelli! La nostra chimica è immediata, abbiamo fatto un gran disco (“Walking With Lions” – ndM)! Ci conosciamo benissimo, J57 è un grande produttore, propone sempre questo boom bap tradizionale ma dal suono freschissimo, il nostro modo di lavorare è sempre stato spontaneo, tanto che quando ci faceva sentire i suoi beat in studio cominciavo immediatamente a buttare giù qualche strofa. Abbiamo una naturalezza che non posso spiegare a parole, con loro espongo lati della mia personalità molto diversi rispetto a quanto faccio nei miei dischi solisti, l’approccio è basato sul divertimento anche quando parliamo di argomenti seri. E’ come essere nella propria stanza al college, quando ti trovi a bere e sparare cazzate. In quest’ultimo disco Dj Premier è stato poi un vero e proprio angelo custode per noi, approvava o meno ciò che facevamo (nel dirlo fa un’imitazione assai divertente di Preemo – ndM). El Gant è davvero un fratello per me, ci siamo piaciuti sin dal nostro primo incontro.
M: è stato difficoltoso promuovere “Walking With Lions” nell’era del Covid?
RK: in realtà no, non ci ha messo assolutamente in difficoltà, perché ad esempio non ci ha impedito di fare interviste. Chiaro, non è stato semplice attraversare un periodo nel quale non ci si poteva esibire nei club, ci siamo dovuti inventare altri modi per catturare l’attenzione delle persone che da un momento all’altro non sono più potute venire a un concerto. Facendo un paragone, non avevamo lo stesso potere di marketing del McDonald’s di turno, eravamo quelli che vendevano i sandwich nel chiosco e dovevamo confrontarci coi pezzi grossi, ma ce l’abbiamo fatta ugualmente.
M: ci saranno altri album a nome Jamo Gang?
RK: assolutamente sì, quando i tempi saranno maturi registreremo sicuramente altro materiale. Ora El Gant e J57 sono impegnati a finire i loro dischi solisti e io sono occupato con la promozione del mio ultimo lavoro.
M: hai realizzato dei featuring per i loro dischi?
RK: sì, lo facciamo sempre. Sul disco di El Gant partecipo a un paio di pezzi, in uno dei quali c’è anche Planet Asia. Non sono invece riuscito a trovare un pezzo del mio ultimo lavoro dove Gant potesse figurare e ora che ci penso lo trovo un po’ strano. E avrei avuto bisogno di un beat di J57!
M: come hai conosciuto Sid Wilson (aka Dj Starscream, membro degli Slipknot e featuring in “Walking With Lions” – ndM)?
RK: avevo uno show a Venice Beach in un negozio chiamato The Ave, una specie di party privato, nello stesso momento stava avendo luogo un altro evento nel magazzino sul retro di questo negozio, dove casualmente Sid aveva proprio il suo studio di registrazione. Poi in un’altra occasione l’ha conosciuto anche El Gant attraverso un agente che si occupa di tour, che li ha presentati. In seguito ho anche scoperto che Sid vive in una casa che confina sul retro con l’abitazione di un mio caro amico, quindi ho iniziato a vederlo più spesso. Una volta siamo anche andati a vedere un concerto degli Slipknot e Gant ha avuto l’opportunità di aprire qualche loro data.
M: ho visto gli Slipknot due volte qui in Italia, decisamente un’esperienza…
RK: esatto! Poi Sid ha tutta questa energia e non so da dove la prenda, è sempre in movimento, balla, salta, si tuffa sul pubblico…
M: nella tua carriera sei stato in molti super-gruppi e hai collaborato con tantissimi artisti. C’è qualcuno con cui non hai mai collaborato ma avresti voluto farlo?
RK: su tutti avrei sempre voluto registrare un pezzo con Big L. Lui e 2Pac di sicuro. Pensa che ne avevo parlato con entrambi, poi è successo quello che è successo e l’opportunità se n’è andata per sempre.
M: avrei un suggerimento per un eventuale disco collaborativo. Chino XL.
RK: oooohhhh, grande!
M: siete entrambi molto lirici e grintosi.
RK: sentirò qualche produttore e faremo accadere questa cosa (ride – ndM)!
M: eri su “Riiiot!”, un pezzo di “Here To Save You All”, peraltro uscito nello stesso periodo di “Soul On Ice”.
RK: esatto. Tra l’altro il ’96 è stato un grande anno per l’Hip-Hop, uscivano delle cose davvero grandiose.
M: ultima domanda. Ci sono progetti futuri che ti riguardano?
RK: nell’immediato sono coinvolto nella promozione di “I’m Not Clearing Shxt”, per la quale abbiamo già pubblicato due video, e mi occuperò della distribuzione dei vari formati in edizione limitata. Poi c’è molto altro in programma per il 2021…
Alla domanda se possa svelarci qualcosa in merito, si mette a ridere con un’espressione furba, divertita; quindi accettiamo di dover attendere l’anno prossimo prima che Ras Kass scopra davvero le carte sui suoi prossimi lavori. Nel frattempo, lo ringraziamo per la grande disponibilità e l’ora quasi piena trascorsa a chiacchierare, sono oramai le due del mattino ma la stanchezza è assai relativa: parlare con un peso massimo della miglior epoca che l’Hip-Hop abbia mai vissuto non capita esattamente tutti i giorni!
Mistadave
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