In ricordo di Shock G

L’abitudine è radicata, si sa, e la tendenza spinge sempre a ricordare il lascito terreno di un musicista nel momento in cui questi scompare prematuramente. Non sarà diverso per Gregory Jacobs, meglio ricordato come Shock G, che i panni dell’artista li ha vestiti in modo certamente bizzarro, ma inequivocabilmente geniale. L’Industria prende, ricava e risputa fuori con indifferenza, le generazioni hanno il loro naturale ricambio e i gusti musicali delle persone variano, di conseguenza personaggi come Shock G tendono a essere dimenticati molto prima di quanto meriterebbero, pagando più del dovuto la continua mutazione di un genere musicale che ha sempre manifestato l’impellente necessità di evolvere costantemente, lasciandosi alle spalle tante figure chiave della scena compresa tra i venticinque e i trent’anni fa.

Greg era un uomo baciato dal talento, ne aveva tanti. Aveva già dimostrato a se stesso di poter fare squadra da solo, ma aveva al contempo compreso che non sarebbe mai riuscito a realizzare tutto ciò che la sua mente generava di continuo senza il supporto di un valido gruppo di collaboratori. I suoi Digital Underground erano nati così, figli della sua intraprendenza, delle sue intuizioni, del suo essere uno stravagante spirito libero cucito su misura per appartenere al mondo dello spettacolo tout court. Lui, polistrumentista completamente devoto alla figura di George Clinton, aveva messo in piedi una macchina inedita, una porta girevole immersa nelle tinte più psichedeliche mai affrontate dall’Hip-Hop, all’interno della quale chi si volesse aggregare era sempre il benvenuto.

Sapeva bene ciò che desiderava dalla vita e il progetto era già interamente scritto: gli servivano solo i mezzi per realizzarlo. Shock era affabile, sapeva come raggiungere i sui scopi ma senza mai dimenticarsi di essere riconoscente. I primi vagiti dei Digital Underground avevano avuto origine nel negozio di strumenti musicali dove lavorava da ragazzo, quando aveva venduto il suo equipaggiamento dei sogni a un batterista Jazz di Oakland – poi conosciuto come Chopmaster J – offrendosi personalmente di mettere a punto l’impianto pur di potervi terminare i demo che aveva già iniziato. Tanti dei brani poi finiti su “Sex Packets“, il debutto ufficiale dei Digital Underground, esistevano già da tempo ed erano semplicemente stati rifiniti meglio, arricchiti dalla presenza di un gruppo inglobato all’interno di un altro gruppo, i Raw Fusion (Money-B e Dj Fuze), determinanti per aggregare al resto il marchio dell’Hip-Hop più tradizionale al progetto, nonché dagli elementi melodici forniti da Schmoovy Schmoov, altro elemento chiave nello sviluppo del variegato sound of the Underground.

Shock G era un trasformista. Lo era fin da principio, quando la prima versione del suo gruppo prevedeva un’espressione molto militante, presto soppiantata a causa dell’esplosione dei Public Enemy. Aveva scelto allora di assecondare il suo modo di essere, privilegiando la parte di sé più vicina ai figli dei fiori, salvo vedersi nuovamente precedere dal rivoluzionario “3 Feet High & Rising”, capolavoro assoluto dei De La Soul. Aveva dunque cambiato ancora d’abito, prendendo come unico riferimento il P-Funk cominciando a lavorare sull’ideale trasposizione Hip-Hop di dischi quali “Mothership Connection”, sviluppando un’immagine divertente, strampalata, mattacchiona, versatile. Era persino stato capace di mettere in scena qualcosa che una Cultura basata sulla genuinità non aveva mai visto: si era creato un alter-ego costruendogli attorno una credibile biografia, spargendo confusione ovunque.

Humpty Hump rappresentava la raffigurazione ideale per riassumere i molteplici aspetti della sua eccentrica personalità. Aveva occhiali da nerd, un naso che si diceva fosse stato ustionato dopo un grave incidente domestico, vestiti appariscenti, un flow che sembrava la parodia di Slick Rick; e per anni è persistita la convinzione che Shock e Humpty fossero realmente due persone distinte, pensiero furbamente alimentato dall’utilizzo di un’opportuna controfigura durante i concerti. Eppure, quella burlesca architettura gli aveva donato quella che indiscutibilmente rimane la più grande hit di tutta la sua carriera.

Congiuntamente a “The Humpty Dance”, emergono i ricordi di tanti altri passaggi salienti dell’esperienza Digital Underground. “Doowutchyalike” racchiudeva al suo interno tutto il bisogno di esprimere quello spirito libero, ma senza il disprezzo sessista allora apportato da altre realtà dell’epoca: era semplice divertimento, voglia di vivere andando fuori dai dettami più canonici. “Underwater Rimes” rappresentava quella creatività senza limiti, abile nel passare i confini andando a concepire improbabili jam organizzate sott’acqua, in un mondo finalmente lontano dalla noia della normalità. “Sex Packets” e “Packet Man” erano l’emblema di un disco basato sulla commercializzazione di misteriose pillole, che una volta ingerite avrebbero dato luogo ai sogni erotici più realistici mai realizzati.

La figura di Shock G non si limitava però all’essere un musicista carico di talento. Era un artista e un imprenditore a tutto tondo, che aveva in testa lo svolgimento di ogni singolo video, curava nei dettagli le copertine dei dischi e, soprattutto, scopriva talenti. Un giorno la carovana degli Underground aveva attratto a sé un giovanissimo Tupac Shakur, assoldato per andare in tour come roadie del gruppo, poi promosso a ballerino di supporto e quindi rapper a tempo pieno. La massima espressione della crew era arrivata proprio in quel momento, in coincidenza alla registrazione di “This Is An EP Release”, all’interno del quale primeggiava l’indimenticabile “Same Song” che presentava una line-up micidiale composta da Shock G, Humpty Hump, Money-B e Tupac medesimo. In quel momento quest’ultimo stava lavorando alle fondamenta del debutto “2Pacalypse Now”, lanciato dal video girato per “Trapped”, baciato proprio dalla presenza del suo mentore a sostegno. Da lì fino a “I Get Around”, plasmata da Jacobs in persona con produzione e featuring, il passo sarebbe stato davvero breve.

Come molti altri protagonisti degli anni novanta, anche i Digital Underground avevano poi vissuto il loro declino, divorati da un’Industria attenta alla prossima sensazione gangsta, impossibilitati a rimanere al passo del G-Funk di Dr. Dre e Snoop, delle oscurità emanate dai Mobb Deep, del talento cristallino di Nas o dello strapotere esercitato dal Wu-Tang Clan. I progetti successivi non avrebbero pareggiato l’ispirazione e l’intensità di quei primi lavori, facendo così scomparire a vista la crew californiana dal radar del Rap, relegando la figura di Shock G a un quasi anonimato perdurato fino al momento della sua scomparsa.

Gregory Jacobs se n’é andato in circostanze ancora ignote all’età di soli 57 anni in una camera d’albergo di Tampa, una delle tante tappe che aveva già toccato da ragazzino in occasione dei vari trasferimenti lavorativi del padre, un’esperienza che l’aveva portato da costa a costa in una moltitudine di culture che di certo ne hanno definito l’enorme estro. Per quanto si identificasse esplicitamente col P-Funk, infatti, la sua musica non è mai stata del tutto catalogabile, perché completamente diversa da ogni altra proposta risalente al periodo di massimo splendore del suo collettivo. Il suo stile era frutto del campionatore e delle drum machine, ma anche dell’arrangiamento, della musicalità, del piano e della linea di basso suonati dal vivo, del coro, del ritornello e di un’anticonvenzionale struttura del brano, sempre distante dallo schema strofa/verso/strofa che ha sempre caratterizzato la maggior parte delle uscite Hip-Hop.

La parola artista è oggi fin troppo abusata, a maggior ragione in tempi in cui si fa presto a definire leggenda qualcuno che ha appena copiato la canzone di un altro. Se dovessimo tuttavia scegliere un termine per ricordare quanto Shock G lasci in eredità alla musica e le strade che ha aiutato ad aprire, non riusciremmo mai a trovarne uno più consono. Addio a un Artista, dunque. Di quelli veri.

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