Intervista ai Cor Veleno (21/03/2024)

A una settimana dall’uscita di “Fuoco sacro”, mentre il primo pomeriggio di una primavera romana che si preannuncia già calda dirada verso la sera, ho il grande piacere di chiedere ai diretti interessati, Giorgio e Francesco, qualcosa sul disco – e non solo. Puntuali, precisi, in completa sintonia; ciò che raccontano rispecchia l’identità di un gruppo che ha giocato spesso la partita secondo regole proprie, senza perdersi né in chiacchiere, né in patetiche emulazioni. E lo rivendicano con orgoglio, giustamente…

Bra: direi di partire da una domanda che è propedeutica al resto. Avete pubblicato “Lo spirito che suona” a poco meno di tre anni dalla morte di Primo, mentre ne trascorrono quasi altri cinque per “Fuoco sacro”; in un certo senso, la sua partecipazione al primo è stata attiva, trattandosi di un disco che nasceva comunque dalle vostre sessioni in studio, per quest’ultima uscita, avendo a disposizione una porzione minore di materiale registrato, supponiamo invece sia stato fatto più un lavoro di selezione, editing e via dicendo. Com’è stato gestito quest’aspetto?
Grandi Numeri: la differenza principale tra “Lo spirito che suona” e “Fuoco sacro” è che nel primo c’erano appunto brani che facevano parte di un corpus già impostato, quindi di fatto siamo andati avanti noi con un disco che possiamo ritenere a tutti gli effetti postumo, perché era in lavorazione; nel secondo, oltre a qualche voce campionata Primo è solo in due brani che non siamo riusciti a realizzare quando era in vita, ma cui avevamo comunque pensato. In questo senso, possiamo dire che i featuring (del Colle der Fomento e di Fabri Fibra – ndBra) siano giustificati: sono stati abbinati alla sua strofa con criterio, ecco.

B: più in dettaglio, invece, da cosa nasce “Fuoco sacro” e come si è svolta la sua realizzazione, che appunto ha coinvolto anche un discreto numero di voci esterne?
Squarta: dopo “Lo spirito che suona”, noi abbiamo pubblicato “Meme K ultra” con i Tre Allegri Ragazzi Morti, un bellissimo episodio che ci ha arricchiti tutti dal punto di vista musicale e dei rapporti personali; mentre suonavamo in giro questo disco, però, abbiamo cominciato a mettere assieme le prime idee su “Fuoco sacro”, qualche brano, avevamo – come diceva Grandi Numeri – delle cose di Primo che erano state tenute ferme ma volevamo far ascoltare a tutti… Soprattutto, ci avvicinavamo agli ormai famosi cinquant’anni dell’Hip-Hop e abbiamo pensato potesse essere bello celebrare questa Cultura che ci ha donato tanto, ci ha cresciuto, ci ha dato un lavoro, una seconda famiglia, viaggi, con qualcosa di nostro. E allora abbiamo pensato di farlo con una serie di artisti che potessero rappresentare la nostra storia e al tempo stesso la contemporaneità, mettendo assieme amici e persone che stimiamo da un punto di vista umano perché in loro vediamo lo stesso spirito, lo stesso fuoco, la stessa verità e la stessa passione che cerchiamo di mettere nelle nostre cose.

B: senza Primo, è chiaro che per voi sia cambiato qualcosa fin dal modo di ideare un album e scriverne i singoli brani. In particolare per Grandi Numeri, abituato a condividere gli spazi in duo, com’è stato gestire – collaborazioni a parte – l’intero comparto lirico?
GN: in realtà, a prescindere dall’essere soli o in gruppo, parte tutto dal capire cosa si vuole raccontare e perché. In “Fuoco sacro” abbiamo trovato un filo conduttore importante, che è quello cui faceva riferimento Squarta, e da lì quasi tutti i brani sono scaturiti come tasselli della stessa visione. Ad esempio volevo già realizzare un pezzo con lui, Gabbo e un amico colombiano (si riferisce a Marlon Peroza, gaitero e cantante nominato ai Latin Grammy nel 2020 – ndB) per dire qualcosa contro tutte le idee di comfort nella musica e siamo riusciti a inquadrarlo in questo discorso. Poi il disco è anche il frutto di un periodo, quello del Covid, che sfortunatamente ho trascorso all’estero senza poter tornare per due anni in Italia: da quest’esperienza forte, negativa, è venuta fuori una canzone come “Roma sulla pelle”, che è una delle mie preferite e ha sorpreso anche me. Il resto l’ho condiviso sempre con loro, perciò a livello di scrittura c’è comunque stato un confronto costante all’interno del gruppo.

B: al netto di qualche piccola pausa, in particolare dopo “Buona pace”, il progetto Cor Veleno ha attraversato l’Hip-Hop italiano dall’incoscienza degli anni novanta, passando per i momenti di crisi dei primi duemila, fino al ritorno di popolarità di quest’ultimo periodo, letteralmente crescendo in parallelo a questa roba di cui siete parte. Non a caso, “Fuoco sacro” richiama atmosfere sia classiche che moderne, sperimentando suoni com’è nella storia e nel DNA del gruppo: che direzione volevate dare, all’insieme, e come vi collocate nelle varie dinamiche e categorie di un genere che cambia pelle a grande velocità?
S: direi che non ci collochiamo! La nostra voglia è proprio quella di essere ogni volta un po’ diversi, di non fare sempre lo stesso disco, di sondare strade nuove, rimanendo ovviamente in linea con le nostre radici, il nostro suono e la nostra identità. Quando scrivi dischi partendo da te stesso, senza pensare a cosa va di moda e che momento è per uscire o meno, è relativo quello che trovi attorno come mercato discografico. Abbiamo attraversato momenti di crisi e momenti d’oro, sì, ma non ce n’è mai fregato un cazzo, perché la musica che facciamo nasce anzitutto per noi. Poi è chiaro che se i dischi vengono accolti bene, sono suonati, portano ai live, allora la soddisfazione è maggiore; il primo passo è però fare cose che ci piacciono, che siamo felici di poter pubblicare.
GN: noi delle categorie non ce ne siamo mai fregati niente. Facciamo musica, non siamo sondaggisti. A me piace l’idea di potermi confrontare con artisti come quelli che hanno partecipato al disco, perché è da lì che viene la scintilla che alimenta quel fuoco sacro e lo tiene sempre vivo.

B: non a caso, se per molti artisti e gruppi è abbastanza facile trovare dei termini di riferimento, delle fonti d’ispirazione, nel vostro caso questo giochino non riesce. Allora – e qui Squarta potrebbe forse darci qualche indicazione più precisa – a cosa guardavate, nell’ambito musicale tutto, quando realizzavate “Fuoco sacro”?
S: (ride – ndB) a tante cose, tutte assieme. Gabbo viene dal Jazz, io dall’Hip-Hop e dai campionatori, Grandi Numeri è appassionato di musica latina; ognuno ha esperienze e background differenti, questa è la figata dello stare assieme in studio. E’ impossibile dire a cosa stessimo guardando, nel senso che guardavamo, guardiamo e continueremo a guardare a tantissime cose, tutte diverse. L’aspetto più bello è proprio trovare la sintesi, fondere tutto in un’unica anima che poi prende forma in un disco. E’ sempre stato così per noi, anche quando c’era Primo – che aveva una matrice a sua volta ancora diversa. Mettere assieme più teste non è semplice, ma quando ci riesci ottieni una miscela che puoi definire davvero originale.
GN: sottoscrivo tutto e aggiungo che tra le cose più importanti che volevamo fare, a prescindere dal filo conduttore del disco, era evitare manierismi e ruffianerie; perché ce n’è già tanta in giro. E’ importante fare musica che sia sentita al 100% da parte di chi la scrive, la compone, la arrangia, la incide e la porta sui palchi: deve stare addosso a chi la fa, altrimenti non è sua.

B: senza volerlo, mi porti alla domanda successiva. Dopo l’esperienza in major per “Nuovo nuovo” e “Buona pace”, in sostanza siete tornati all’indipendenza: per due dischi come “Lo spirito che suona” e “Fuoco sacro” avevate bisogno di tagliare ogni intermediario, essere solo voi due e Gabbo?
S: no. Ti rispondo subito e lo voglio chiarire bene: ‘sta cosa che nelle major ti obbligano a cambiare, a snaturarti, non è vera o è vera solo per qualche ragazzino che non ha ancora le idee chiare su cosa vuole fare e dove vuole andare. A noi non è successo, perché sappiamo cosa siamo, da dove siamo partiti e dove intendiamo andare. Ci sono delle fasi, nella vita di un gruppo; magari torneremo in major, magari rimarremo indipendenti, non lo sappiamo e il bello di questo lavoro è che non tutto è scritto, non c’è una formula, non decide un algoritmo. L’imprevedibilità è fondamentale, sennò ci rompiamo le palle. Una cosa che invece è cambiata è che chi lavora nelle major, oggi, conosce il Rap, sa qual è il sound, conosce le prerogative del genere. Magari quando c’eravamo noi non era del tutto così, era un po’ più difficile trovare degli addetti ai lavori che conoscessero il modus operandi di un gruppo Hip-Hop, il mondo, l’immaginario; ora però non è più così.

B: il disco mette subito in campo una certa dose di rivendicazione – penso ad esempio a “Comfort zone” e “La novità”; guardandovi attorno, ritenete la scena di oggi più o meno competitiva di quella nella quale avete mosso voi i primi passi? E, nel cambio anche degli scenari di confronto, con i social e i talent che in certa misura hanno tentato di sostituire l’asfalto e la jam tra pochi appassionati, temete che alcuni tratti identitari dell’Hip-Hop possano venir meno?
GN: secondo me la scena odierna è molto, molto, molto, molto, molto, molto, mooolto più valida di quella di un tempo, quando c’era tanta gente che voleva semplicemente fare quello che facevano i Sangue Misto, Kaos, il Colle, i CorVe e tanti altri, essere hardcore come lo erano loro e solo perché lo erano loro. Percorsi posticci, creati a tavolino. Non voglio fare un discorso su chi sia più o meno bravo, apprezzo che oggi si tentino strade più eclettiche, ci sia diversità: puoi fare cose più dure, Crossover, melodiche, romantiche, introspettive, di storytelling; prima, se sperimentavi, eri uno stronzo, ora non essere quello ortodosso non vuol dire essere fuori dal Rap. C’è più onestà, secondo me. Oltre alla competenza e alla professionalità. Anche un talent come Nuova Scena, cui ha partecipato Squarta, oltre ai desideri degli artisti più giovani ha messo in chiaro una cosa importantissima, ovvero come dal processo creativo si passi al lavoro in studio, con tutti gli aspetti tecnici che stanno attorno alla realizzazione di un disco. Bisogna uscire dalla favoletta tutta italiana del ce l’ho fatta da solo: in realtà, ci sono tantissimi addetti ai lavori che contribuiscono al successo o al fallimento di un progetto.

B: la titletrack fa un po’ il paio con “Polvere” del Colle der Fomento, chiudendo un cerchio che avete iniziato a tracciare in quattro a inizio anni novanta, ma premiando il vostro lato più arrembante – il Danno chiosa con un efficace questo è Colle e Cor Veleno, alza la caciara! Di fatto siete tra le realtà fondative del Rap romano e il vostro imprinting è ancora abbastanza riconoscibile in gruppi e artisti più giovani: avvertite la responsabilità di questo ruolo, che poi è anche un merito?
S: se c’è qualcuno che ravvisa qualcosa di buono nelle cose che abbiamo fatto, lo prende e lo porta nel futuro, per noi è bellissimo. La responsabilità, no, perché non abbiamo mai vissuto questa cosa della musica arrovellandoci su quello che le persone avrebbero recepito o meno, è un passaggio che non sta a noi. Poi è chiaro che ascoltare oggi cose che sono in parte il frutto di quello che abbiamo fatto noi prima ti fa dire cazzo, quindi abbiamo lasciato un segno… Però noi abbiamo solo aperto delle porte, abbiamo fatto delle cose perché eravamo lì assieme ad alcuni amici e prima di altri, poi è bravo chi da quella porta c’è passato e ha percorso la sua strada, lavorando duramente.
GN: ma io non sono neppure molto d’accordo con questa cosa del Rap romano, milanese o napoletano, come se nelle altre città avvenga qualcosa di così diverso. Per me c’è il Rap italiano, noi abbiamo avuto l’ambizione di fare qualcosa di autentico, puntando lo sguardo al di fuori di questa o quella città.

B: eppure non c’è disco della Capitale che non dedichi almeno qualche rima alle strade e al vissuto della città. Nel caso di “Fuoco sacro”, tra “Roma sulla pelle” e magari anche “Quante notti” la scenografia è chiaramente locale: per voi, da artisti, Roma è una fonte inesauribile d’ispirazione o è semplicemente il luogo dove siete cresciuti?
GN: è inevitabile che il luogo in cui si è cresciuti abbia una valenza sulle cose che fai, vale per tutti, città o provincia. Roma, con la sua storia millenaria, ti lascia a prescindere qualcosa addosso, anche se non sempre si tratta di ricordi e momenti felici – perciò bisogna raccontare anche quelli. Ma è un legame non necessariamente cercato: io ho scritto “Quante notti” senza pensare a una città in particolare, prendendo ispirazioni anche dai posti dove abbiamo suonato, invece molti hanno pensato mi riferissi proprio a Roma – non è così.

B: online c’è questa vecchia clip tratta da “L’Italia in diretta” nella quale dei giovanissimi Cor Veleno – all’epoca Scheggia e Cielo – si esibivano al Circolo degli Artisti coi breaker attorno e un po’ di Rome Zoo sullo sfondo. Sorvolando sulle facce e i commenti di Alda Deusanio e Dario Salvatori, è comunque chiara la fotografia di un gruppo di amici che si muove in sincrono e si dà sostegno reciproco; questa cosa è ancora vera nell’ambiente?
S: sì. E’ qualcosa che esiste, fermo restando che sono trascorsi tanti anni e le cose sono cambiate; ti faccio un esempio pratico: venerdì scorso abbiamo presentato una linea d’abbigliamento e fatto ascoltare il disco al Lovegang Store e lo spirito è stato quello che ricordavi tu, rapportato al tempo presente e alle situazioni che evolvono, altre muoiono ma ne nascono anche di nuove. A Roma cose del genere succedono ancora e contano…
GN: contano eccome. Però aggiungo che se le cose fossero identiche a trent’anni fa, sarebbe pure una bella rottura di palle. Il passatismo non mi piace, è uno dei mali nazionali, ci si dimentica che le possibilità di riuscita erano poche e tante persone hanno dovuto mollare perché la vita a un certo punto ti chiede il conto. Oggi invece una realtà come la Lovegang riesce a creare un business, fa musica, suona come collettivo, fa cose che quando abbiamo cominciato noi non era possibile fare. E come loro molti altri.

B: detto della presentazione di “Fuoco sacro” al vostro pubblico a Trastevere, cosa si può dire per ora dei live coi quali porterete in giro il disco e del modo in cui verranno strutturati, dato che si tratta – come dicevamo – di un lavoro per certi versi collettivo?
S: quella, in realtà, era più una festa, Dj Snifta ha passato il disco ma non l’abbiamo suonato nel senso di performato. I live veri e propri partiranno invece da maggio, ovviamente ci saremo io, Grandi e Gabbo, ci sono una serie di idee che ora non posso anticiparti ma, appunto, cercheremo di portare sul palco quest’atmosfera di vero e proprio block party Hip-Hop. Il cuore è la musica dei Cor Veleno, attorno ci si costruisce un evento.

B: una volta chiuso un progetto come “Fuoco sacro”, scesa l’adrenalina, da dove si riparte per continuare a calcare quel ring di cui dicevate in “21 Tyson”?
S: si riparte sempre dal fuoco sacro.
GN: è così. Quel fuoco non si spegne, continua sempre a bruciare. Quindi si riparte da capo per fare cose nuove, senza accontentarsi, senza sentirsi mai a posto.
S: la nostra fortuna, che è anche un po’ una condanna, è di avvertire sempre la necessità di fare una cosetta in più, di spingerci oltre, di dire questo l’abbiamo fatto, ora voglio fare anche quest’altro. Noi non stiamo mai fermi: i nostri momenti di riflessione sono sempre legati a una fattività, a scrivere, andare in studio e registrare.

B: tenendo presente tutto quello che ci siamo detti fino a qui, verrebbe da pensare che i Cor Veleno siano – concedetemi il termine – dei sopravvissuti; alle ovvie avversità poste lungo il cammino e all’inevitabile scorrere del tempo. Vi sentite così e può darsi sia proprio questa caparbietà caratteriale il vostro tratto meglio riconoscibile, il fil rouge che in qualche modo conduce da “Sotto assedio” a “Fuoco sacro”?
S: trasformare le avversità in qualcosa di costruttivo. Se, come diceva Primo, riesci per assurdo a trasformare il malessere in uno spunto positivo, ingabbiarlo nella musica, dai un senso anche ai momenti più difficili. In questo senso sì, sicuramente i Cor Veleno sono anche dei sopravvissuti. Rimanere in piedi nonostante i colpi ricevuti: è l’augurio che facciamo a tutti, perché non è facile riuscirci, tanto più nella frenesia del mondo moderno.

B: intanto vi ringrazio per il tempo che ci avete concesso; c’è però qualcosa che volete aggiungere o che non vi ho chiesto?
S: grazie a voi!
GN: volevo solo ricordare che il disco si apre e si chiude con dei sample della voce di Primo, a lui è dedicato l’album per tutto ciò che ha rappresentato per noi e per la persona che era, quel fuoco sacro di inesauribile creatività che ancora celebriamo.
B: ed è per quello che non è stato dimenticato.
S: esatto.