Intervista a Hvgme (29/05/2024)

Quando Stakanov Boys ci ha inviato il pre-ascolto di “Paesani”, il nuovo EP di Pessimo 17, Terrasanta e Hvgme rilasciato venerdì scorso, ne abbiamo subito approfittato per proporre un’intervista al terzo, capoccia della piccola label e produttore tra i più attivi di quella nicchia dell’underground italiano che si sta muovendo all’unisono, offrendo spazio a chi in passato avrebbe rischiato – non per demeriti – di trovare una porta chiusa dietro l’altra. Su Bandcamp trovate tutta la loro discografia, mettete in play il titolo che preferite e buona lettura…

Bra: in molti ti conoscono a partire dalla tua partecipazione a “Festivalbars”, che risale a circa un paio d’anni fa. In realtà sei un classe ‘89 e, prima di approdare all’Hip-Hop, ti sei misurato con altri generi musicali: raccontaci dei tuoi inizi da beatmaker e di come questo percorso si sia poi evoluto.
Hvgme: in effetti è una storia che comincia parecchi anni fa. Ho iniziato a fare produzioni più o meno nel 2004, ma arrivando dal mondo dello skate: avevo quindici anni e all’epoca alle jam dove andavamo c’era un po’ di tutto, quelli che facevano la break, quelli che facevano i graffiti, quelli che rappavano – è così che ho scoperto l’Hip-Hop. Considera che sono nato e cresciuto nella provincia lombarda, a Busto Arsizio, e i miei amici storici, come me, si sono fatti subito attrarre da quelle situazioni, infatti rappavano tutti; ho provato anch’io ma ero scarsissimo, quindi ho imparato a utilizzare Cubase e Fruity Loops per fare i beat a loro. Saranno trascorsi tre/quattro anni, durante i quali seguivo tutti anche nei live e ho iniziato a fare il dj, fino a che mi sono un po’ rotto le palle dell’ambiente, di quella che ho sempre chiamato l’assemblea di condominio musicale… A quel punto mi avvicino alla musica Elettronica, House Music campionata, roba French Touch e Nu-Disco (alla Daft Punk, per intenderci), e mi sono tolto tantissime soddisfazioni, uscite in vinile su etichette americane con un progetto che aveva un altro nome. Intorno al 2018 capisco però che non avevo più un cazzo da dire in quell’ambito, per quanto io ami il genere e lo ascolti, perciò mi fermo, due anni di crisi, di buco completo come producer, ho fatto solo delle serate da dj. Nel frattempo, i miei amici avevano smesso col Rap; ma io ho comunque sempre seguito la scena, fino a quando con la pandemia, non essendo sposato né avendo ancora un figlio, nel cazzeggiare in casa mi è tornata voglia di fare musica, solo che ho sentito il bisogno di tornare alle origini. Mi sono messo a smanettare e ho scoperto che mi venivano dei beat che anni prima mi sarei sognato – credo che l’esperienza con l’House Music si sia rivelata molto formativa; mettici anche che ero cresciuto io, avevo voglia di fare, e così nasce Hvgme. C’è anche da dire che ascoltavo davvero tanta roba, compreso Ale (Montenero, ndBra), che in quel periodo – fine 2020 – pubblicava “Golden Madonna” con Luca Moustaches; ho fatto una versione chopped and screwed di un brano e lui mi contatta, mi chiede di rifare tutto l’EP e da lì cominciano di nuovo a muoversi le cose: esce “Chopped Madonna”, faccio “Città d’arte” con Fede Consiglio, un amico che era tornato a rappare, lancio il beat tape “Barbacoa”, che è un po’ il manifesto di questo nuovo corso, quindi tutto il resto. E non era programmato, volevo fare di nuovo musica per me e invece sono arrivati i contatti, le cose si sono consolidate, Monte mi ha dato una montagna di consigli preziosi e la mia visione musicale ha preso quella che è la sua forma attuale.

B: sei legato a un metodo compositivo che potremmo definire classico, ovvero basato sul sample; parlando di beatmaking, qual è il periodo e di conseguenza il suono cui ti senti più legato e quali sono le figure da cui hai attinto maggiore ispirazione?
H: da cultore e appassionato di producing, potrei stare qui a parlare per giorni… Partiamo dalle figure, i periodi vengono in base a queste: riferimento principale in assoluto è sua maestà The Alchemist, che apprezzo tanto anche per il percorso che ha avuto, dato che ha saputo rinnovarsi tantissime volte, sempre in maniera intelligente e anticonvenzionale. Mi sento quindi molto legato alle cose di inizio 2000 e in particolare a un disco come “1st Infantry”. Poi, saltando un po’ di qua e di là per non asciugare troppo con gli elenchi infiniti, un’altra figura che ritengo molto importante è Harry Fraud, capace di fare sia dischi che mandano a casa la scena underground che robe più fresche, anche perché la versatilità è una delle qualità che apprezzo di più nei musicisti. Io stesso lavoro principalmente con i sample, ma ho pezzi con suoni della 808 e synth che per ora tengo ancora nel cassetto. Un altro che per me è bravissimo è Marco Polo, ingiustamente sottovalutato…
B: …è il destino di tutti i produttori figli di Premier, di fronte a lui inevitabilmente spariscono. Pensa anche a Jake One.
H: è vero, sono d’accordo. Tuxedo (side project di Jake One e Mayer Hawthorne – ndB) ad esempio è molto figo.

B: più in dettaglio, che macchine usi e qual è il tuo metodo di lavoro?
H: al momento, dopo aver messo da parte le macchine più vecchie, mi trovo molto bene con l’Akai MPC Live II, che ha il workflow classico, per certi versi ostico, ma col supporto di uno schermo. In genere parto da qui, anche perché – tema di cui non si dibatte spesso – a mio avviso le limitazioni dell’hardware possono essere un aiuto: avere meno possibilità a disposizione costringe il cervello a spremere più idee. Uso tanto anche Ableton, che al contrario esprime il massimo delle possibilità, in particolare per le finalizzazioni, mix e master. E ultimamente mi sto divertendo col sampler nuovo della Teenage Engineering, l’EP-133 K.O., quello che sembra una calcolatrice.
B: hai anche delle conoscenze teoriche o sei un completo autodidatta?
H: nasco batterista, l’ho studiata da bambino, poi divento chitarrista. La musica quindi la conosco, a livello proprio di teoria, e ho suonato diversi generi; però non ne faccio molto uso nelle mie cose, se non per matchare la tonalità di qualche sample o inserire dei synth. Ho un sacco di roba composta senza campionare e mai uscita, come ti dicevo, ma non per snobismo o altro: onestamente, non ho ancora trovato la quadra e non credo sia pronta per essere condivisa. In futuro vedremo…

B: in ordine, lo accennavamo prima, hai firmato un brano per “Festivalbars”, poi ti sei diviso con Gionni Gioielli l’intera produzione di “Mediterraneo” e infine hai pubblicato “Pescado”; in questa sequenza si intravede quasi un tratto comune, il riferimento al mare, all’estate (anche se con un pizzico di nostalgia), ma soprattutto a un certo tipo di atmosfere, diciamo sospese, evocative, spesso pescando tra colonne sonore e Jazz: sei un collezionista e, appunto, c’è un preciso filo conduttore nelle fonti da cui campioni?
H: (durante la domanda alza subito entrambi i pollici – ndB) esattamente come dici, mi fa davvero piacere sia stato colto quest’aspetto. Per fortuna, o purtroppo per le mie finanze, sono un collezionista di vinili, in particolare Cool Jazz (Paul Desmond, Ben Webster, tutta quella roba lì e ne ho una badilata) e colonne sonore di ogni tipo. A volte mi hanno detto Umbi, i tuoi beat sembrano da camera, perché non ho spinto molto sulle batterie e i suoni sono rarefatti, il filone è quello; ultimamente sto iniziando a pescare anche tanto Prog Rock, cose più psichedeliche, però l’universo in cui mi trovo più a mio agio è in generale la musica che lascia all’ascoltatore la possibilità di dire la propria, di trovare le definizioni o di non averne bisogno.

B: parliamo del progetto Stakanov Boys. Lo annunciate nell’autunno del 2022 tu e Montenero, col quale come dicevi hai cominciato a fare musica grazie a “Chopped Madonna”: come nascono quest’intesa e l’impegno congiunto che ne è conseguito?
H: suonerà banale, ma è nato tutto in maniera assolutamente spontanea. Considera che tra “Golden Madonna” e “Chopped Madonna” trascorre un po’ di tempo, durante il quale si è parlato tanto, ci siamo studiati, rendendoci conto che c’era del materiale umano da cui partire. Dischi, magliette, occhiali, pantaloncini, scarpe: abbiamo capito di essere allineati su molte cose, in primis il collezionismo, e siamo diventati amici, ci siamo trovati in sintonia su aspetti che non facevano neppure parte della musica e allora è stato naturale pensare di mettere assieme anche altra gente che la vedesse come noi. Intanto, però, Stakanov ha fotografato il nostro modus operandi, perché noi siamo impegnati davvero tutto il giorno, dovendo ritagliarci degli spazi al di fuori di quello che è il nostro lavoro e la famiglia, siamo degli stacanovisti e ci siamo riconosciuti negli stessi ritmi e nella stessa voglia di fare.

B: in una manciata di mesi, infatti, avete lanciato l’EP “Stakanov”, “24/7” con Effe Kappa e “In nome di Akira” con Doye, chiarendo subito quale fosse la traiettoria delle vostre uscite. A livello di roster (o di collettivo, che forse è il termine più appropriato), attualmente chi ne fa parte in maniera ufficiale e come si è formato questo nucleo?
H: il termine corretto è collettivo, hai ragione, perché parte tutto da una visione condivisa. Poi è chiaro che attorno a questa si formi uno zoccolo duro, un gruppo stabile, in questo momento – oltre me e Montenero – composto da Pessimo 17, Terrasanta, Davide Bates e Jampa AK. Ti parlo dell’insieme di persone che sta lavorando di più alle nostre uscite, con costanza, e c’è un sacco di roba in ballo tra cose che stiamo chiudendo e cose su cui stiamo ancora ragionando. Poi rimaniamo apertissimi a collaborazioni, ne facciamo parecchie, e siamo sempre alla ricerca di altri potenziali stacanovisti.

B: a questo proposito, in parallelo a una scena che si sostiene a vicenda e accomunata da una visione condivisa, tocca trovare una strategia per distinguersi, per essere sì parte di un insieme ma non dei cloni. Come vi proponete di raggiungere quest’obiettivo?
H: guarda, questa è la domanda che ci siamo fatti inizialmente io e Monte. C’è tanta gente che fa ‘sta roba, brava, capace, il rischio che suoni tutto uguale però è altissimo; l’unica soluzione è fare le cose perché ci piace farle, che facciano star bene anzitutto noi e che rispecchino ciò che siamo. Vogliamo condividere musica di qualità, in termini di produzioni e rime, parlando a gente che, come noi, può avere mille sbatti, perciò l’intenzione è quella di portare principalmente il nostro quotidiano nei dischi che realizziamo. Parliamo a chi non ha mollato sogni e passioni, le piccole cose che ci fanno andare avanti – e nel nostro caso è ovvio sia la musica. Per me, la cifra di Stakanov Boys è questa: cerchiamo di dire che sbattendosi, come spiega Monte in un pezzo, è possibile tenere in vita una carriera in vetro (il brano è “Monte from the block”, da “Casa&bottega” – ndB), l’obiettivo è parlare a chi vive situazioni simili alle nostre. Noi non facciamo opinionismo, social pompinaio o gossip, né ce ne frega un cazzo di quel mondo, alle persone cui vogliamo parlare quel tipo di risonanza non interessa e va bene così.

B: di recente avete realizzato “Adamantio”, che per dimensioni è fin qui il vostro titolo più impegnativo. Sette produttori e oltre dieci voci, per venti tracce dal taglio parecchio hardcore: volevate cominciare a tirare qualche somma e alzare un po’ il tiro?
H: esattamente! “Adamantio” è uno statement: volevamo tirare in mezzo tutti i ragazzi che si sono raccolti attorno al progetto Stakanov e altri che comunque stimiamo, infatti c’è chi purtroppo è rimasto fuori perché non potevamo coinvolgere tutti. Abbiamo tracciato una riga per dire ok, finora abbiamo fatto così, ma da qui in avanti il livello si alza; in termini di volume di lavoro, qualità, cura complessiva – e, piccolo spoiler, stiamo ragionando anche sull’edizione fisica. Siamo capaci anche di questo, di competere in un campionato più grande, ed era tempo di dimostrarlo.

B: veniamo a “Paesani”, che ti vede al fianco di Pessimo 17 e Terrasanta. Intanto viene confermato uno stile che potremmo definire da soundtrack, con qualche beat drumless e un mood che si sposa bene agli storytelling proposti; raccontaci qualcosa sul disco.
H: come spiegavo, sia Pessimo che Terrasanta fanno parte di quello zoccolo duro e infatti ero al lavoro con entrambi. Un anno fa avevo passato a Simone (Pessimo 17 – ndB) delle strumentali che gli erano piaciute molto, Antonio (Terrasanta – ndB) ne aveva altre e l’idea di provare a unire le due voci è venuta di fatto da sé, essendo loro molto bravi a raccontare storie un po’ al margine, di periferia, che poi è il concept di “Paesani”. Ci siamo presi del tempo, dato che avevamo anche altre cose in ballo, e abbiamo unito ogni elemento partendo appunto da ciò che ci riguardava da vicino, la vita di provincia: magari abbiamo esperienze diverse, ma sappiamo tutti e tre cosa significhi vivere all’ombra di altre realtà, conosciamo bene la voglia di farsi sentire, di dire che anche le nostre storie possono essere interessanti. Ne è venuto fuori un disco molto narrativo, come notavi, che in origine era più lungo, poi abbiamo fatto una sorta di scrematura, perché non volevamo inserire episodi che si sposassero meno alle storie raccolte: abbiamo trovato i sei capitoli del libro, con Monte che ha partecipato con tre featuring, e dentro ci sono delle belle perle. Non è un caso che i beat drumless derivino da una richiesta precisa dei ragazzi, che volevano dare ai testi un ruolo davvero centrale. Sono di parte, però credo abbiano detto delle cose da far accapponare la pelle.

B: per questo, come per gli altri episodi del vostro catalogo, come si svolge la raccolta delle strumentali? Invii una cartella con le idee già abbastanza chiare sul tipo di sonorità da dare, prepari qualcosa ad hoc coinvolgendo di volta in volta i rapper, ti fai dare delle indicazioni di massima da loro…
H: io sono un producer molto aperto al dialogo coi rapper, per me è fondamentale parlarsi, capirsi, non ti mando la cartella con dentro cento beat – poi qualcuno te la chiede, è chiaro. Faccio produzioni a nastro perché ho bisogno di farle, ho urgenza di fare musica e ne ammasso in mille cartelle; quando però c’è un progetto come “Paesani”, cerco di capire in primis cosa verrà raccontato e da lì parto alla ricerca dei sample più adatti, scavo nelle cose che ho messo da parte per lavorarci sopra – e non ti dico il livello di maniacalità che ho nella suddivisione dei suoni – e assemblo dei provini, non mando quasi mai il beat finito. Non sono impositivo, non è il modo che ritengo giusto per collaborare con le persone, quindi sviluppo tutto attraverso un’interazione reciproca, la chiave umana è necessaria. Anche quando mando qualcosa a dei rapper che giocano nelle leghe superiori, sono sempre disposto a fare modifiche, aggiunte, cambi, a trovare un punto d’incontro.

B: gettando invece lo sguardo più avanti, cos’ha in programma Stakanov Boys per l’estate e magari oltre?
H: intanto, posso dirti che “Paesani” non è l’ultima uscita di Stakanov prima delle ferie estive. Arriverà presto un’altra bella chicca, perciò continuate a seguire i nostri canali; non aggiungo troppi dettagli per non togliere gusto alla sorpresa, ma siamo sempre al lavoro e sono previste un po’ di novità anche per l’autunno, già da settembre in poi. Abbiamo in cantiere sia album veri e propri, sia collaborazioni che tireranno dentro tante persone.

B: che bilancio tracci, allora, dopo quasi due anni di questa nuova avventura?
H: a livello personale, sono felicissimo. Quando ho lanciato il progetto Hvgme, non avevo nessuna idea di cosa sarebbe successo, zero aspettative, solo tanta voglia di fare musica; la rete umana che si è creata attorno a quei primi passi, le relazioni personali, è un premio che non avevo previsto. Come Stakanov Boys, il bilancio è sicuramente positivo: se il primo anno è servito per farsi conoscere e il secondo per costruire delle fondamenta solide, ora cominciamo a vedere i risultati del nostro lavoro, anche in termini di seguito. C’è sempre chi ci scrive per sapere cosa sta uscendo, cosa stiamo preparando, o per dirci che quel pezzo di mesi prima è ancora fresco, gira. C’è del riscontro ed è in crescita, perciò siamo sicuri che raggiungeremo ancora più persone.

B: se c’è qualcosa che non ti abbiamo chiesto e ci tenevi a dire, fallo pure.
H: vediamo… Non mi ha chiesto quello che mi chiedono tutti: perché Hvgme? Perché nei gangster movie americani per dire strangolare usano spesso l’espressione I’m gonna hug you, che letteralmente è ti abbraccio. La mia producer tag è infatti I thing you need a hug, giocando un po’ con quello che è il mio rapporto con la musica: da un lato vorrei tanto che i miei progetti riuscissero ad arrivare a tanti come un abbraccio, che fossero utili, dall’altro la musica in generale ha strangolato me, mi ha dato soddisfazioni e qualche delusione, un equilibrio quindi non sempre facile, che ho voluto riportare nel nome con cui sto lavorando ora.

La chiacchierata con Umberto termina con precisione quasi millimetrica entro lo spazio a nostra disposizione, esaurito con i ringraziamenti finali di rito per un’intervista davvero piacevole – per noi, speriamo anche per lui. Nel progetto Hvgme ci sono competenza, passione, entusiasmo sincero e, questo l’abbiamo intuito dal discorso, dalle parole scelte e dai toni, un ordine mentale non secondario; qualità transitate nel percorso Stakanov Boys, che si sta ingrossando un po’ per volta e non mancherà di regalarci altre novità fin dai prossimi mesi. Vi parleremo senz’altro anche di quelle.