Intervista a Oyoshe (13/01/2024)

Vincenzo Musto, in arte Oyoshe, ha cominciato talmente presto a misurarsi con l’Hip-Hop, da poter essere definito un giovane veterano della scena – campana in primis. Classe ‘91, a trentatré anni vanta già sia collaborazioni di rilievo che un buon numero di uscite ufficiali, soliste e non; in più, è abile sia al microfono che alle macchine, aspetti ai quali si è sempre dedicato con pari dedizione. L’abbiamo raggiunto via Zoom nel suo studio di Napoli per farci raccontare qualcosa sull’album che ha appena pubblicato, “A.M.E.N.”, fuori per Magma Music e Time 2 Rap Records. Occasione che ovviamente abbiamo colto anche per fare il punto su una carriera così fitta di eventi…

Bra: sei uno di quegli artisti che possiamo dire di aver seguito letteralmente dagli esordi. Ci hai proposto il tuo primo demo nel 2006, ti chiamavi Oyo MC e avevi quindici anni, poi sono arrivati “Bring da noise” e un capitolo due realizzato addirittura con ospiti quali Tame One, Verbal Kent, Blaq Poet, Vast Aire e via dicendo. Cosa c’è di quel ragazzino appassionato di Hip-Hop nell’Oyoshe di oggi?
Oyoshe: guarda, tanto lo spirito con cui faccio le cose quanto il punto che ho raggiunto sono il risultato di un percorso cominciato proprio in quel periodo da quell’adolescente. Non ho mai cambiato direzione, come ho visto fare a tanti. Per me e le persone con cui sono cresciuto l’Hip-Hop era quasi un gioco, gli altri magari avevano il pallone o chissà cos’altro, il nostro parco giochi era invece il Rap. Uno dei miei migliori amici, Lorenzo Lodato (in arte Lowdato – ndBra), l’ho conosciuto girando in skate con mio padre – perché eravamo scugnizzi, ma abbiamo avuto la fortuna di avere delle famiglie che si occupavano di noi – ed è così che sono nate le prime connessioni, riconoscendoci per strada. Come si dice qui, ho fatto il giro a lungo: mi sono goduto tutto il panorama, ho fatto crescere le cose e non ho mai rinnegato niente. Eravamo dei writer e anche la tag è una cosa che mi porto da lì, che non ho più perso. In qualche modo, il mio piano ho cominciato a disegnarlo intorno a quei quindici anni.

B: in quasi due decenni, nei quali appunto sei per forza di cose cambiato, maturato, hai realizzato progetti tuoi, in coppia (con Deka e Dope One), prodotto per altri, rilasciato EP e mixtape; in generale, non sei mai stato fermo. Come si fa ad alimentare le energie per tutto questo tempo?
O: è esattamente la roba di cui stavamo parlando. La fotta di quel ragazzino non si è mai esaurita, perché mi ha permesso anzitutto di razionalizzare nel migliore dei modi le cose della mia famiglia, una condizione economica difficile, le scelte sbagliate prese nell’ambito scolastico… Ho preservato il me di allora, perché aveva tutto ciò che occorre per fare quello che si desidera nella vita, ovvero la passione. L’elemento fondamentale poi è la fame, la voglia di rivalsa – e lo insegnano i maestri di questa Cultura. Le più grandi voci dell’Hip-Hop, i pilastri, sono persone partite da zero, venute dal niente, che hanno realizzato cose assurde. Quello è l’esempio che ho seguito. Prendi quest’esperienza che ho potuto fare con Rome Streetz: io, dopo comunque un bel bagaglio di cose fatte, mi sono messo a piangere quando l’ho accompagnato in aeroporto e ho pensato che l’Hip-Hop mi stava dando possibilità che neppure immaginavo! In qualche modo, mi sono sentito realizzato; e non è scontato, se penso da dove sono venuto.

B: siccome l’hai citato, anticipo una domanda che volevo già farti. Hai realizzato “Musica sacra” con Rome Streetz, di recente anche in video, un’altra combinazione di pregio nella tua carriera che però ci saremmo aspettati di ritrovare in “A.M.E.N.”: come mai non è in scaletta?
O: allora, si tratta di una produzione ideata da Alessio D’Urso, in arte Doc Ketamer, un artista molto versatile che ha fondato la KML, etichetta con sede ad Amsterdam. Noi ci conosciamo da tanti anni e anche lui è abbastanza fissato con gli americani, fa molta rete, ci siamo sempre trovati bene e per la sua label partecipo alla direzione artistica, spesso suono lì, facciamo cose in studio. Mi stima anche come rapper e infatti il brano nasce da una sua iniziativa, è un’edizione KML e non è stato pensato per il mio disco, ecco perché non ne fa parte.

B: la prima cosa che abbiamo notato di “A.M.E.N.” è che, per suoni e temi, sia molto vario, attraversando diverse sfumature dell’Hip-Hop di oggi e non solo. Quanto tempo ti è occorso per realizzarlo e qual è stato il percorso?
O: io esco con “Waza best Rap II” nel 2020, che è uno dei tanti progetti coi quali ho un po’ raccolto le tante cose che faccio, dato che sono sempre in studio, ho laboratori, registro featuring con ragazzi di qua… Un’uscita che comunque mi ha dato le sue soddisfazioni, ma sentivo l’esigenza di fare qualcosa di più grande. In pratica, ho cominciato non appena si è sbloccato il primo lockdown, mi sono messo al lavoro sul disco nuovo e ho deciso di utilizzare un metodo di lavoro diverso, rendendomi in realtà le cose ancora più complicate. Quasi tutti i brani hanno avuto infatti delle lavorazioni lunghe e tutto è cominciato quando sono riuscito a spostarmi a casa di un mio amico, Andres Balbucea, tastierista dei The Funkin’ Machine: lui ha preso le melodie che avevo in testa e le ha trasformate in musica, delle prime incisioni dalle quali poi ho tratto i beat, che in genere chiudo invece rapidamente. In questo modo, lavorando in studio anche con Alex Silvestri, ho concepito il disco secondo modalità per me nuove, coinvolgendo altri musicisti e potendo lavorare più a lungo sulla scrittura dei testi. Ho sperimentato un impatto sonoro diverso delle mie stesse produzioni, un flow nuovo, uno stile più fresco; lavoro che, tra una cosa e l’altra, ha richiesto circa tre anni. Considera poi che io parto dal titolo, da un’idea che tenga assieme tutto. Quindi, fin da principio, ho steso il filo conduttore su cui costruire l’album, fissando quello che mi serviva e viceversa, ritrovandomi con una cartella di quasi cento brani tra bozze, provini, cose da sviluppare, chiavi melodiche, ecc.

B: alla fine hai raccolto diciotto brani, per più di un’ora di durata, realizzati – come dicevi – con tempistiche di lavoro importanti. Se la tendenza è di accorciare tracklist e minutaggio, tu fai l’esatto contrario: è una modalità che non ti appartiene, che non senti tua, o hai proprio bisogno di spazi e processi diversi per esprimerti compiutamente?
O: in effetti è come dici, c’è una differenza evidente tra le cose fatte oggi e l’impostazione che ho deciso di seguire. Quando ho iniziato a fare Hip-Hop, non era una roba così in voga; il fatto di essere rimasto saldo su quelle posizioni, su quel modo di vivere, su tutte le relazioni che ne sono conseguite, mi porta a non conformarmi a quella che è una moda: grazie all’Hip-Hop, io mi sono sentito speciale. E quindi oggi, non ritenendomi legato a determinate dinamiche principalmente discografiche, la concezione è sempre la stessa, personale, corrispondente al mio senso artistico. Tutti fanno l’album di dieci pezzi? Io ne metto quasi il doppio. Perché sono un appassionato di musica e non ritengo un problema ascoltare brani o dischi che durano molto. “A.M.E.N.” rappresenta me e il noi del titolo, non credo di essere rimasto l’unico a vederla in un certo modo, a provare nostalgia per gli album più ghiotti, più pieni, magari con una vasta gamma di suoni. Perciò l’ho fatto così, fermo restando che chi è più conciso segue il suo gusto e va bene lo stesso.

B: da ascoltatore, invece, recentemente cosa ti ha colpito in positivo o in negativo dell’Hip-Hop?
O: io ascolto di tutto, non ho la presunzione di sapere come vadano fatte le cose e non ho mai smesso di essere un fruitore. L’Hip-Hop è una cultura in movimento, mi percepisco come uno spettatore e non ne conosco il finale: preferisco pagare il biglietto e godermi lo spettacolo. Posso passare da 21 Savage a rapper che magari anni fa mi sembravano troppo in voga, crescendo ho capito che questa roba si addice anche al Vincenzo adulto. Sono felice dello sviluppo dell’Hip-Hop, anche se alcune cose non mi appartengono e ho sempre i miei dischi preferiti e i miei artisti di riferimento. C’è J. Cole, c’è Kendrick Lamar, c’è Griselda: basta cercare per trovare qualcosa di valido. Poi c’è anche la musica brutta, certo, ma al mondo credo ci siano problemi peggiori…

B: “A.M.E.N.”, che sta per al mondo esistiamo noi, non ha un concept in senso stretto, ma sembra spesso parlare di identità, del bisogno di essere noi stessi in una realtà che è invece votata all’omologazione. E’ così?
O: assolutamente sì! Vale soprattutto per i brani in cui parlo di relazioni, di emozioni, di voglia di rivalsa; essere noi stessi in tutto ciò che si fa. Forse perché sono in un momento – diciamo così – esistenzialista: non lo sapevo quando mi sono chiuso in studio e l’ho prodotta, ma ho utilizzato la musica come terapia, per scavare dentro di me e mettere in chiaro cose che mi apparivano confuse. Determinati testi li ho scritti proprio come dei flussi di coscienza.

B: raccontaci qualcosa della cover che ti ritrae in b/n davanti a quella che sembra essere una casa popolare. Dove sei e chi sono le persone affacciate alla finestra?
O: lì siamo nel rione Lauro (zona Fuorigrotta – ndB), dove sono nato, cresciuto e vivo, e quella è la mia famiglia, mia madre, mio padre, mia sorella e le mie nipoti. Quello è il mio sangue, il mio noi, è a loro che devo la mia sensibilità. Mi hanno sostenuto anche nelle scelte artistiche e credo che il disco sia dedicato principalmente a loro, una titletrack non c’è ma “Saremo noi”, che chiude il disco, ne fa un po’ le veci nel significato, parla di me e loro. Si noterà anche dal visual della traccia, entrando proprio nella casa che c’è in copertina. Ci tengo a dirlo: quello che faccio deriva tanto dalla passione di mia sorella e mia madre per la musica, alle loro cassette, perché a casa c’era sempre lo stereo acceso e io ho imparato a conoscerlo come uno strumento, quanto dalla perseveranza di mio padre.

B: tra gli ospiti di “A.M.E.N.” figurano esponenti della scena italiana, di Napoli e non, produttori con background molto diversi e Copywrite dagli Stati Uniti. Non ti chiedo di nessuno in particolare, vorrei invece sapere come gestisci le collaborazioni in funzione di quello che stai realizzando e in che misura queste nascono da un contatto personale, un fondo di stima e di sintonia reciproca.
O: in primis, questo per me è un album importante, mi rappresenta molto e infatti i brani con i featuring sono in minoranza. In generale, non mi sono mai arrampicato sugli specchi per avere una collaborazione, mi piace partire dalla considerazione reciproca, costruire qualcosa per la musica, ho bisogno di gente con la quale ci siano davvero stima e voglia di lavorare assieme. Sono abituato da sempre a mettere lo zaino in spalla, partire e farmi trovare nelle situazioni, perciò se nel mio disco trovi Kiave e Speaker Cenzou è perché mi conoscono realmente da una vita. St. Luca Spenish, ad esempio, me l’ha presentato Nex Cassel, che mi ha sponsorizzato molto, e da lì è nato un rapporto vero. Conta poi avere persone che si sentano in qualche modo rappresentate dal tuo progetto, con tutti quelli saliti a bordo c’è una grande connessione umana. Nel circuito sento girare belle voci sul mio conto, ho un ottimo rapporto col Danno, ho aperto spesso concerti per il maestro Kaos, ho ricevuto tanti incoraggiamenti da Noyz e conservo ricordi molto importanti, però credo sia importante non fermarsi al riscontro della scena e ambire sempre a conoscere nuovi rapper coi quali sviluppare qualcosa, anche sul piano personale.

B: un brano, “Bestia”, fa riferimento al dramma della striscia di Gaza, dando quindi seguito alla tua esperienza per Gaza Is Alive 2019. Il tema è perfino più d’attualità che in passato, tu che testimonianza porti di quell’iniziativa?
O: un’esperienza del genere, vedere così da vicino cosa sia l’oppressione dei potenti sui deboli, ti dà tantissimo come persona, ti cambia. Essere lì sia in veste di rapper che di educatore, superare anche delle paure personali, perché il pericolo c’è ed è concreto, mi ha spinto subito a dire di sì, per poi scoprire che il sorriso di uno di quei bambini valeva tutto il rischio. Sulla questione Gaza sai che non basterebbe un’ora d’intervista e non ho certo la pretesa di ergermi a studioso di questa cosa, ma stare lì mi ha permesso di capire dinamiche che altrimenti avrei ignorato. Nell’ambito umano e sociologico, ne sono uscito arricchito; e non ho potuto far altro che prendere la penna e scrivere qualcosa per chi non ne sa abbastanza.

B: abbiamo ricordato all’inizio i tuoi esordi, anche parecchio prematuri. Tu cominci a fare Rap in un ambiente, quello partenopeo, che vantava sia dei veterani importanti come La Famiglia, Speaker Cenzou e 13 Bastardi, sia un gran numero di collettivi e punti di ritrovo coi quali in effetti sei subito entrato in contatto; sebbene gli interpreti possano essere in parte cambiati, in che misura quella scena è ancora viva?
O: bella domanda… Ovviamente la scena di quel periodo era il mio riferimento e la benzina che alimentava ciò che stavo facendo, perché entrare a farne parte mi ha fatto capire che il mio ruolo come rapper e soprattutto come produttore poteva portare a una rete nella quale crescere e diventare a mia volta un po’ una sorta di direttore d’orchestra. La voglia di costruire qualcosa era grande, al tempo c’erano ritrovi bellissimi come la sede TCK – parlo del 2004/2005 – dove si organizzavano eventi e ci si confrontava tutti, si ballava, si facevano i muri, c’era agonismo ma sempre con positive vibes. Poi le persone crescono, le cose succedono e gli spazi sono difficili da tenere; ad oggi sono poche le realtà gestite nello stesso modo, ce n’è ancora qualcuna, è cambiato anche in parte il clima, e purtroppo se facciamo un paragone devo dire che quel movimento non c’è più. Non mi sento solo, ma quel circuito si è ridotto e parte dell’utenza si è persa. Ognuno di noi crede comunque nelle potenzialità di ciò che fa, abbiamo avuto la fortuna e la capacità di trasformare in un piccolo business la nostra passione, sebbene le occasioni d’incontro non siano le stesse. Non che sia colpa di qualcuno in particolare: anch’io ho dovuto prendere delle scelte e oggi non riesco più a organizzare le cose come facevo dieci anni fa; lavorando nel sociale, però, ho cercato di portare in quell’ambiente le cose che faccio, tra jam e laboratori.

B: “A.M.E.N.” esce tra poco meno di una settimana – ovvero in contemporanea alla pubblicazione dell’intervista, per chi legge. Raccontaci qualcosa sui formati in cui sarà disponibile il disco e su un’eventuale promozione attraverso i live.
O: inizialmente “A.M.E.N.” sarà disponibile in digitale e CD, augurandoci – in base alla risposta del pubblico – di poter fare anche i vinili, che richiedono dei tempi di lavoro diversi. In parallelo, lo spingerò tanto perché voglio arrivi a molte persone e in programma c’è già qualcosa: il 19 sono a Siena alla Corte dei Miracoli, il 27 al Jan Assen a Salerno in un evento benefico per Gaza, il 2 febbraio alla semifinale del Tecniche Perfette al Legend di Milano e il 9 apro per gli Alien Army all’Akhnaton di Amsterdam. Altre date presto in arrivo!

B: quando ti intervistavamo nel 2011, dicevi la mia intenzione è quella di unirmi a una scena futura, produrre beat e fare collaborazioni con ragazzi della mia stessa età. Intanto dicci com’è andata; e poi vorremmo sapere se oramai ti percepisci come un riferimento, considerata la tua esperienza quasi ventennale, per la nuova generazione di rapper e produttori che cominciano a farsi sentire a Napoli.
O: , fantastico tu sia andato a ripescare questa cosa di tanti anni fa! La verità è che, pur non avendo realizzato “Bring da noise 3” come invece volevo, quell’idea di connessione è rimasta, ho continuato a coltivarla. Anche quest’ultima collaborazione internazionale con Rome Streetz si è fatta proprio perché lui si è dimostrato disponibile e interessato alla cosa. Pensa che noi l’abbiamo contattato proprio a cavallo della sua firma con Griselda, perciò a un certo punto è sembrato che, per questioni contrattuali, non si potesse fare più nulla, o che non potesse con me al microfono; e invece, anche perché gli artisti americani ritengono importante collaborare con noi per chiudere date e far girare il nome, dopo una prima incertezza ha apprezzato le cose che gli abbiamo fatto sentire e ha spedito le sue sedici barre, di fatto confermando anche il mio featuring. In questo senso sì, credo di aver costruito cose e magari un punto di riferimento posso esserlo per chi si approccia alle dinamiche dell’underground. La costanza, la devozione, sono componenti del mio percorso e lo riconosco, ma non ho la presunzione di ritenermi arrivato. Ho la fortuna di poter essere me stesso, di fare le cose alla mia maniera e di portarle dove ce n’è bisogno.

B: prima hai sottolineato il ruolo della tua famiglia, il loro supporto. Guardando al passato e alla scena, a chi senti di dover dire grazie per l’artista che sei diventato?
O: alla gente che mi ha accolto fin da ragazzino e che ha creduto in me. Il mio nome, la mia tag, nasce quando Walter Afro, che riposi in pace, mi mise un pennarello in mano nel negozio dove lavorava, con lui anche Puffo, che mi portava alle battle e mi diceva di spaccare. Ovviamente Cenzou e i 13 Bastardi, che mi hanno fatto sentire un po’ un figlio adottivo aprendomi le porte della scena. Poi Clementino e via via tutti gli altri. Ho avuto tanti padri putativi e li ringrazio tutti.

B: il luogo comune vuole che il napoletano sia scaramantico. Tu hai dei riti particolari da compiere quando pubblichi un disco?
O: quando pubblico un disco mi sento quasi in un momento tribale, più che un rituale avverto quasi qualcosa di spirituale, come se tutte le vicende siano tra loro collegate e al centro ci sia appunto il nuovo progetto. Non sono scaramantico, però credo molto nelle energie, nelle frequenze, e stare tutti i giorni davanti alle casse, dato che siamo fatti al 60% di acqua, mi fa vibrare. Riassumo così: sono convinto che tutto ciò che mi accade sia in qualche modo pilotato da questa cosa bellissima che è la musica.

B: vuoi aggiungere qualcosa che non abbiamo detto durante l’intervista?
O: una cosa semplicissima, Palestina libera!

Con Vincenzo ci salutiamo dopo tre diversi take, dovuti a piccoli problemi di connessione, e più di un’ora d’intervista. La sua filosofia, il suo approccio, oltre che dalle risposte e dalle emozioni sincere rimaste fuori dalla trascrizione, sono emersi proprio quando, per ovviare alle difficoltà della registrazione, gli ho detto che potevamo anche risentirci o trovare altre soluzioni: ha insistito per andare avanti, perché – e vi assicuro che non accade sempre – teneva davvero a questa chiacchierata. Per parlarci di “A.M.E.N.”, sì, ma più di tutto per alimentare quella rete cui fa spesso riferimento, raccontandoci di quando a sua volta ampliava la conoscenza dell’Hip-Hop grazie alle nostre vecchie recensioni. Un cerchio che si chiude, nel segno della (nostra, in questo caso) gratitudine.