Intervista a L’Orange (29/08/2021)

E’ domenica sera (in Italia), siamo oramai agli sgoccioli di agosto e fa ancora caldo. L’Orange risponde alla nostra telefonata con un hello! dal tono molto accomodante, pronto per fare due chiacchiere; è evidente che desideri cogliere quest’opportunità per farsi conoscere meglio. Introduco l’intervista sottolineando l’apprezzamento per l’etica lavorativa di uno dei miei/nostri produttori contemporanei preferiti, ringraziandolo per l’opportunità concessa; non appena gli riferisco che ho recensito qualche suo album mi risponde con una genuina espressione di sorpresa, quella di chi non si aspetta di essere conosciuto in luoghi così distanti da casa propria, sensazione confermata dalle parole che nello specifico usa: I need fifteen of you in every country of the world. Parte così una bella risata che crea immediatamente un clima amichevole…

Mistadave: com’è andato il trasloco in Carolina? Ho letto che sei tornato ad abitare lì.
L’Orange: sì, sono rientrato nel North Carolina. E’ uno Stato molto esteso, ma io sono originario della sua parte settentrionale.
M: credo che sia grande come tutta l’Italia. O quasi…
L: (ride, ndM) già, ricordo i viaggi che ho fatto in Europa. Guidando per qualcosa come sei ore potevo trovare tre differenti culture architettoniche, paesaggi molto differenti tra loro. Negli States posso viaggiare per lo stesso numero di ore e vedere sempre la stessa merda (ride di nuovo, ndM).
M: gli States sono enormi…
L: vero, ma viaggiando non vedi un cazzo.

M: curiosando nei tuoi profili social ho potuto vedere il tuo nuovo studio. E’ figo!
L: sì, l’ho fotografato appena l’ho sistemato. Sono felicissimo della casa che abbiamo preso e di avere un po’ di stabilità. Gli spazi che abbiamo trovato qui mi hanno permesso di dedicare quella stanza all’allestimento del mio nuovo studio con l’intenzione di far suonare meglio la mia musica. Ho avuto una grossa mano da Jonwayne (produttore e rapper californiano, ndM) e da un paio di ragazzi del posto in fase di allestimento e scelta dei vari componenti. Jon mi sta dando ottime dritte su come aumentare la qualità del suono. Sono molto soddisfatto dell’attrezzatura che ho preso, ho investito parecchio su me stesso.

M: a che età hai cominciato a interessarti di Hip-Hop?
L: ero giovane! Ma non come altre persone che hanno cominciato a interessarsi di questa Cultura molto presto. Ho 32 anni, sono nato nel 1988, di conseguenza il mio interesse è nato verso la parte conclusiva degli anni novanta, quindi molto dopo rispetto a gente più grande di me. Prima ero molto attirato dal Jazz. Non c’è un motivo preciso e non ricordo nemmeno come ho cominciato ad ascoltarlo, ricordo che ero bambino e mi piacevano moltissimo il pianoforte e il sassofono. Sentivo molti pezzi Jazz alla radio e li registravo su cassetta.

M: ho letto che hai suonato molti strumenti.
L: sì, ho preso uno strumento in mano dopo essermi interessato all’Hip-Hop, verso i dieci o undici anni di età ho cominciato a suonare il basso. Prima mi interessavano solo il basket e la scrittura.

M: c’è un artista in particolare che ti ha ispirato nel cominciare a produrre beat?
L: assolutamente. Se non fossero esistiti i Digable Planets non sarei esistito nemmeno io.
M: sei tra coloro che si sono innamorati di “Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)“?
L: certamente, conosco quell’album a memoria. Loro sono il mio gruppo preferito di qualsiasi epoca e genere, hanno recitato un ruolo primario nella mia formazione musicale. Ho avuto la fortuna di incontrarli e riuscire a farmi firmare i poster che avevo in camera. Ricordo quando parlai con Doodlebug, gli dissi quanto significato avesse la loro musica per me. Poi tornando a casa pensai che forse gli avrei potuto menzionare il fatto che facevo musica anch’io (ride sonoramente, ndM); ero già un produttore, ma in quel momento ero semplicemente tornato un ragazzino a cui piaceva da matti il suo gruppo. Altre fonti di ispirazione sono state Dan The Automator, Prince Paul e Madlib. Nessuno di mia conoscenza li ascoltava, né li conosceva. Poi, anni dopo, incontravo le stesse persone e mi dicevano: quant’è figo sto Madlib. L’hai mai sentito? Mi piacevano moltissimo anche i Fugees e trovo che Kev Brown sia davvero forte.
M: ecco, Kev Brown ha un modo di far suonare i dischi alla vecchia maniera, un po’ come te. Adoro la sua gestione delle linee di basso.
L: vero. Poi, ovviamente, ci sono i produttori più classici come Dj Premier, Pete Rock, J Dilla e Doom. Ma sono venuti dopo per me. Inoltre, essendo proveniente dal North Carolina, i Little Brother hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo del mio gusto. A metà degli anni duemila ero ancora lì a tentare di imitare tutti gli artisti che ti ho citato. Ero una loro versione spiccatamente più brutta (ridiamo entrambi, ndM).

M: i Digable Planets hanno sempre campionato tanto Jazz nei loro dischi. Ascoltando “The City Under The City“, col quale ti ho conosciuto, ho apprezzato moltissimo il modo che hai di trattare i campioni che scegli facendoli suonare in modo molto polveroso. Parevano provenire da canzoni che i miei nonni ascoltavano negli anni trenta…
L: è un gusto che deriva dall’amore per il tipo di Jazz di cui ti parlavo prima. C’erano alcuni fattori che mi attiravano verso quell’era: quando ho a che fare con musica cronologicamente vecchia, c’è qualcosa che psicologicamente mi colpisce, è il suo essere al di sopra di ogni possibile critica. Mi spiego. Se ascolto qualcosa uscito quest’anno, il mio cervello si mette automaticamente a pensare al processo creativo che ha portato a quel prodotto, a come l’avrei fatto io, a quali modifiche apporterei, a come quel suono possa essere influenzato dalle epoche precedenti. Se invece ascolti qualcosa degli anni trenta o quaranta, puoi respirarne la sincerità e capirne l’organicità, il che è incredibile pensando che io sono anagraficamente lontano anni luce da quel tempo. Per questa ragione, non c’è una parte di me che possa muovere una singola critica verso una determinata esecuzione, la ascolto e ne sono semplicemente affascinato. Un’altra cosa che mi attrae è l’imperfezione di quelle esecuzioni musicali, che a mio parere ne costituisce l’elemento di maggior bellezza. La musica di Billie Holiday, a parte il fatto che registravano tutto in un solo take, è meravigliosa proprio perché non è perfetta. E’ una filosofia che ho traslato nel mio modo di fare musica. Quando campiono qualcosa, mi piace che suoni sporco. Molti, componendo musica lo-fi dei giorni nostri, sporcano suoni puliti – o il contrario. A me non piace. Apprezzo l’umanità di un suono vecchio e sporco, perché fa intuire la difficoltà di queste persone nel realizzare il loro sogno di suonare con la perfezione necessaria. Per me come artista è importante far trasparire il lato umano, l’onestà nell’approccio alla musica, essere qualcuno a conoscenza del fatto che l’arte è una riflessione dell’umanità. Voglio riuscire a catturare la bellezza di quelle imperfezioni, perché sono concetti molto legati tra loro.

M: ho spesso desiderato farti questa domanda. Nei tuoi dischi c’è sempre un concetto di fondo (lui ride, probabilmente sapendo che la domanda sarebbe prima o poi arrivata, ndM): da dove trai ispirazione per trasmettere ciò che vuoi dire?
L: fin da quando ero piccolo ho sempre saputo di voler essere uno scrittore. Non ho mai pensato di diventare un musicista. All’università ho studiato poesia e scrittura creativa. I miei genitori scrivono. E’ sempre stata la mia essenza, ciò che mi serviva per diventare quel che sono. Per questo la mia etica lavorativa è basata su un processo che parte sempre da una storia, con toni narrativi proposti sotto l’ottica del significato che il medesimo riveste per me. Mi piace giocare con la struttura concettuale. “Imaginary Everything(lavoro che lo vede in coppia con Namir Blade, ndM), ad esempio, è un album molto sciolto, il suo tono ha molto più a che vedere col mio momento creativo rispetto al significato del disco stesso. Il mio ultimo lavoro, “The World Is Still Chaos, But I Feel Better“, è invece impostato come un poema, ogni traccia rappresenta qualcosa, non c’è una storia che va da un punto A fino a un punto B. Tantissimi dei concetti che propongo sono a ogni modo legati alle mie esperienze dirette, stati d’animo che ho attraversato, circostanze che ho vissuto. “The Mad Writer” ha profondi legami con la depressione. “The Orchid Days” tratta la gestione dell’ansia e la delusione sentimentale. “The City Under The City” è un mondo immaginario che distorce la realtà, una sorta di allucinazione. E’ un modo per gettare tutte queste cose all’esterno, senza doverle affrontare in maniera diretta.

M: ho letteralmente consumato “The City Under The City”, anche se non avevo immediatamente capito di cosa parlasse. Come ti ha aiutato Stik Figa nello sviluppo della storia che viene raccontata?
L: una cosa che non faccio più, è condividere il concept del disco col rapper che ne curerà la parte vocale, perché ritengo che dire a qualcuno cosa fare non sia poi così fruttifero in una collaborazione. L’ho fatto in passato, ma il risultato è stato che l’artista in questione si snaturava per esprimere concetti che non arrivavano da lui. Su “The City Under The City” ho cercato di ispirare la scrittura attraverso la musica, ma senza trasmettere ciò che volevo dire. Diversamente, con Jeremiah Jae il processo è stato molto differente, perché “The Night Took Us in Like Family” è un disco completamente diverso, basato su scene che gli proponevo e che lui usava per comporre i testi. In quel caso la direzione era più mia, perché gli facevo immaginare di essere fuori da un bar, in questa atmosfera notturna, piovosa, piena di pozzanghere e neon color rosa e verde dei locali che vi si riflettono dentro, con ombre sconosciute che avanzano dal fondo della strada, qualcuno che scende da una bella macchina vestito elegantemente. Gli dicevo di concentrarsi sull’odore di benzina, sul colore blu scuro della notte, sulle emozioni che un determinato scenario avrebbe potuto far vivere. In altri casi, spingo il rapper verso una direzione che secondo me ne esalti creatività e produttività. Da lì, invece di creare una storia e mettere l’artista al suo interno, lascio che il medesimo scriva ciò che lo ispira e solo allora lego il suo operato alla mia storia, adattandola.

M: non è difficile far coincidere i due aspetti coerentemente?
L: è molto più semplice di quanto tu creda, ma è un processo talmente naturale che non riesco nemmeno a spiegare. Accade. Non sai quante volte ho ascoltato dei pezzi e ho pensato che i due concetti, musicale e testuale, fossero semplicemente perfetti nella loro coesistenza. Capita quindi che un brano pensato per parlare di un uomo e una donna che si innamorano, ad esempio, finisca poi per contenere liriche che trattano di tutt’altro. Finché non pongo limiti alla mia creatività, ci saranno sempre innumerevoli modalità per adattare le mie intenzioni a quelle dell’artista con cui lavoro, di conseguenza i risultati che ne derivano trovo possano essere meravigliosi e sorprendenti.

M: “The City Under The City” contiene dei pezzi strumentali che trovo più che adatti a far immaginare delle situazioni attraverso la musica, tipo quando il protagonista che hai immaginato trova questo mondo sotterraneo alternativo dove la gente balla incessantemente e ne entra a far parte. Trovo sia una grande capacità.
L: è esattamente ciò che ho tentato di fare. Con quelle strumentali non creo narrative, ma atmosfere. La tua descrizione è perfetta nei riguardi di ciò che intendevo fare. L’ambiente che citi è peraltro parte del primo “Marlowe(realizzato con Solemn Brigham, ndM): molti dei miei dischi condividono le caratteristiche dei mondi che immagino. “The City Under The City” e “Marlowe” si sovrappongono da un certo punto di vista.

M: quali differenze trovi nel lavorare con Stik Figa e Solemn Brigham?
L: anzitutto non conoscevo Stik Figa di persona quando abbiamo lavorato al nostro disco assieme, prima di iniziare gli avrò parlato sì e no due volte. In tutta onestà, sentivo di dovergli dimostrare di potersi fidare di me come produttore. Qualche volta ho sentito che gli stavo chiedendo più di quanto avrei dovuto e la cosa mi ha messo in difficoltà, perché non avevo ancora guadagnato una reputazione sufficiente per dirgli cosa doveva fare secondo il mio punto di vista. Avrei sicuramente potuto fare un lavoro migliore in termini di comunicazione. A parte questo, lui è un mc incredibile, lo rispetto tantissimo e l’ho conosciuto in maniera più ampia solo dopo le registrazioni del disco. Ora è diverso, ci conosciamo da nove anni ormai. Solemn Brigham è invece un’amicizia che non ha nulla a che vedere con la musica. Abbiamo lavorato a qualcosa verso la metà degli anni duemila per poi fermarci, ma nei dieci anni successivi abbiamo coltivato il nostro rapporto con costanza al di fuori della musica. Quando poi ha partecipato a “The Ordinary Man” con un featuring, ci siamo letteralmente immersi nel riuscire a fare qualcosa assieme: “Marlowe” arriva da lì. Lui per me è una persona praticamente di famiglia, non un collega. Stando assieme si crea un’energia completamente diversa, a volte bizzarra, perché ho la confidenza per dirgli se non mi è piaciuto un pezzo che ha scritto, per esortarlo a rifarlo meglio. Non sarei mai potuto essere così rude e diretto con Stik Figa, perché non ne avrei avuto titolo. E’ bravissimo a rappare, non avrei mai potuto fargli delle osservazioni. A Solemn posso invece urlare addosso tutto il giorno (ride di gusto, ndM)!

M: e che mi dici di Jeremiah Jae?
L: lui ha un posto speciale nella mia vita. Non l’avevo mai incontrato prima di accordarci per “The Night Took Us…”, ma ero un suo fan. C’è qualcosa che mi ha sempre attirato del suo modo di rappare e fare musica, mi ha fatto spesso pensare che lo capivo come persona anche senza conoscerlo – ed è capitato raramente nella mia esperienza. Ho pensato spesso sia stato un onore poter lavorare con lui, per la simbiosi che provo nei suoi confronti a livello personale e nella visione generale che abbiamo della musica. Sono grato di averlo conosciuto.
M: è una simbiosi percepibile nei vostri lavori in coppia.
L: non mi piace analizzare retroattivamente i miei album, ma torno spesso ad ascoltare i due dischi che abbiamo realizzato assieme, una cosa che non faccio mai. Lui è un’eccezione, perché sono un fan della persona che è.
M: credo che il suo flow così lento, il tono vocale freddo e distaccato, siano stati un’ottima scelta per raccontare una storia di gansgterismo.
L: non posso che concordare.

M: continuando a guardare la fitta lista delle tue collaborazioni, spicca il nome di Kool Keith. Il più sorprendente. Come vi hanno messi assieme?
L: stavo parlando con la Mello Music del prossimo progetto e il suo nome è saltato fuori. Avevamo lavorato assieme in una compilation alla quale avevamo contribuito col pezzo “Sometimes I Feel” e le vibrazioni erano state quelle giuste. Oltre a ciò, sono un grande fan di Dan The Automator, perciò ho seguito da vicino in parallelo la carriera di Keith. E’ stata una bella esperienza, molto distante da altre cose che ho realizzato ma molto divertente.

M: il tuo nuovo album, “The World Is Still Chaos But I Feel Better”, ha a che vedere con la depressione di cui parlavamo prima. Come si rapporta con questo argomento?
L: è un disco che parla di come ci si senta meglio dopo aver passato un brutto periodo e di come, nel frattempo, il mondo sia rimasto lo stesso di prima. Non ho mai sentito di un album in grado di parlare del sentirsi meglio quando si è abituati a essere depressi.

M: c’è un rapper in particolare con cui ti piacerebbe lavorare?
L: molti. E quelli che mi piacciono di più, sono quelli coi quali riesco a connettermi personalmente.
M: non per suggerire le risposte, ma vedrei bene i tuoi beat per accompagnare il flow pazzesco di Homeboy Sandman.
L: abbiamo già fatto delle cose assieme, aveva un pezzo su “The Orchid Days” e ha collaborato a una traccia di “The Night Took Us In Like Family”. E’ un grandissimo mc.

M: quando hai iniziato a fare i primi beat ti saresti mai immaginato di arrivare dove sei oggi?
L: assolutamente no. Ho sempre pensato di potermi connettere con poche persone attraverso la mia musica. Il mio desiderio era semplicemente quello di arrotondare così il mio stipendio di lavoratore part time in un coffee shop o in una libreria… Quanto ho realizzato mi sembra ancora assolutamente un sogno, non mi par vero.

Mentre lo lascio al resto degli impegni di giornata, mi chiedo se davvero L’Orange non si renda conto del successo che ha avuto a livello underground. Una persona molto genuina, umile, colta, appassionata, creativa; un insieme di caratteristiche consone a definire una delle figure più importanti delle produzioni Hip-Hop dell’ultima decade abbondante – perciò, se non ne conoscete i lavori, rimediate presto.

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