MC Hip Hop Contest 2007: interviste a Next One/Irko

All’MC Hip-Hop Contest di Jesolo abbiamo intervistato Maurizio aka (The) Next One, il breaker italiano più famoso nel mondo nonché rappresentante della leggendaria Rock Steady Crew e della Universal Zulu Nation. L’intervista è durata circa un’ora e, fosse stato per noi, avremmo passato tutta la giornata a parlare di Hip-Hop con lui; non potendo, ecco un po’ il succo della nostra illuminante chiacchierata col pioniere italiano del b-boying.

Intervista a Next One (Gennaio 2007)

Blema: come unico membro italiano ed europeo della Rock Steady Crew, com’è stato far parte di una crew americana importantissima, com’eri visto?
Next One: per me è stata chiaramente un’esperienza positiva. Ho iniziato da ragazzino a quattordici anni e quello era un punto di riferimento, un obiettivo da raggiungere. Chiaramente erano i miei miti.

B: per quanti anni ne hai fatto parte?
NO: ho iniziato a ballare nell’84 e ne sono entrato a far parte nel ’91. Dovevo un minimo prepararmi prima di potermi permettere di far vedere quello che avevo imparato a gente di quel livello. Volevo assolutamente essere degno. Quindi cercavo le mie conferme attraverso i pionieri, tra i quali appunto la Rock Steady Crew. Comunque mi hanno accolto benissimo, non ho dovuto sfidare nessun membro per entrare nel gruppo (a differenza della regola che dovrebbe valere per tutti); si vede che gli sono piaciuto e mi hanno chiesto di ballare insieme a loro. E’ chiaro che io sono stato contentissimo! Detto questo, però, per me è sempre stato importante mantenere il legame con le mie origini, soprattutto all’estero, dove mi conoscono tutti come Maurizio anziché Next One. Solo adesso cerco di abbinare le due cose, perché alcuni non lo sanno ancora. Io ho sempre ritenuto importante sottolineare che sono italiano, tant’è vero che la prima volta, quando andai ad abitare a New York, nel ’91, credevano fossi portoricano. Dicevo: no, non sono portoricano, sono italiano; ah, sei italoamericano?; e io no, non sono italoamericano, sono italiano! Anzi, siciliano!

B: la Zulu Nation oggi dov’è, com’è?
NO: la Zulu Nation oramai si è solidificata da nord a sud, dappertutto. Soprattutto, è sempre presente in quei paesi dove la cultura e la passione per l’Hip-Hop sono ancora ben radicati, nonostante tutto quello che subiamo a livello mediatico. Ad esempio, la celebrazione dell’anniversario della Zulu Nation è un ricordo di come sia nato lo spirito di questa Cultura, che va ben oltre tutto quello che muove il mercato. Questa Cultura è comunque il contributo di tante persone, che non necessariamente vestono un’armatura o una divisa Hip-Hop, ma che lo sentono dentro. Il bello di tutto ciò è che coinvolge chiunque: l’impatto è molto forte e diretto e questo è lo spirito positivo dell’Hip-Hop. Comunque, per carità, c’è un’identità come c’era nei movimenti Punk/New Wave piuttosto che gli hippies negli anni settanta, va benissimo. Però non è che se uno non ha i soldi e non si può comprare la tutina giusta o il cappellino giusto, non possa ritenersi parte di questa Cultura. Anzi, al contrario.

Moro: ora tutto quello che vedo io è certamente tanto senso di appartenenza, ma si è trasformato molto in fashion, tantissimo. C’è gente che non sa davvero niente, che però sembra sia uscita dal ghetto peggiore…
NO: ci fermiamo spessissimo a luoghi comuni e stereotipi che si nascondono dietro nomignoli inventati. Ad esempio il b-boying o breaking ma non breakdance, come la definiscono i media da tanti anni. Hanno pensato di mischiare i termini break e dance per identificare quelli che si rompono o si rotolano per terra, questa cosa non fa tanto piacere: non ci rotoliamo, non ci rompiamo. Tutte le volte che mi sono rotto la caviglia è perché stavo correndo, facendo dei gesti quotidiani che può fare chiunque. Non credo in tutte queste divisioni e classificazioni che tendono un po’ ad allontanare e confondere le persone. Ad esempio, old school e new school: io ho iniziato nel 1984 ma ero già new rispetto a quelli che ballavano da prima, così come loro rispetto a quelli che ballavano nel ’77; quindi oggi, nel 2007, dovrebbe essere cosa? Io credo che old school significhi foundation, origine, il punto da cui è partito tutto questo, lo spirito puro. New school significa contaminazione, significa legame con le origini ma allo stesso tempo contatto con le nuove generazioni, che si sviluppa chiaramente con le tecnologie che permettono di produrre nuovi sound. Perché comunque le danze nascono dalla musica e non viceversa.

B: rispetto appunto alle radici del b-boying, dal punto di vista dell’evoluzione cosa pensi ci sarà nel futuro, un ritorno alle origini o evoluzione pura? Dr. What, membro del sito, mi ha parlato del flexible style, che alla fine mi pare di aver capito sia una specie di contorsionismo…
NO: esatto, bravissima. Vedi, ancora una volta, è un altro nomignolo per descrivere qualcosa. Ad esempio, negli anni novanta dicevano power moves. In tutto quello che facciamo ci vuole comunque forza, flessibilità, quindi la confusione di base sta nel fatto che questa Cultura prenda ispirazione da ogni cosa e poi la trasformi in Hip-Hop. Ma se non conosci l’Hip-Hop, è lì il problema vero. Negli anni ottanta prendevano anche delle influenze dalla ginnastica artistica, ma se ti presentavi con le tecniche della ginnastica artistica la gente si metteva a ridere. Se arrivavi con i pantaloni larghi, la gente si metteva a ridere perché lo stile di allora erano i pantaloni stretti; sono tutti luoghi comuni che lasciano il tempo che trovano, è la moda. Ci sono ginnasti professionisti che sanno fare salti mortali spettacolari, ma il nostro fine non è quello: è prendere una cosa e trasformarla alla nostra maniera. Comunque, di per sé l’Hip-Hop è il contributo di tante persone, culture, sfaccettature, sfumature, creatività, che sono il collante di tutta questa cultura. Tutto è stato inventato nel South Bronx, è lì che gli hanno dato una certa connotazione. Dovevi andare a vedere chi viveva in quel quartiere, che gente c’era e quindi chiaramente subire l’influenza di tutto quel mondo che ti circondava, per capire come andavano le cose. Qualcuno ogni tanto rompe lo schema e osa fare qualcosa di diverso. Quando i De La Soul uscirono con “3 Feet High And Rising”, il loro primo album, esplorarono un genere di sound che nessuno avrebbe mai immaginato. Qualcuno li ha visti come stranissimi e altri come dei geni. Loro hanno funzionato, hanno fatto il botto e da allora sono stati rispettati. Questa è giusto una parentesi per dire: osa, però ricordati che se non hai un minimo di conoscenza, rischi di fare una porcata! Altro esempio è il Crossover: non tutti riescono a farlo. Il Crossover dovrebbe essere l’abilità di tenere un equilibrio tra cose diverse e far uscire una miscela nuova. Poi sentii un po’ di tempo fa una produzione di J Dilla in cui aveva preso un pezzo di musica classica: lui l’aveva contaminato col suo sound distorto di Detroit, era fighissimo, lì c’è la cultura musicale unita al suo gusto che diventano qualcosa di esplosivo. Ma non tutti lo possono fare. Certe cose sono orribili da sentire, suonano male, lo stesso vale per la danza: quando cominci a prendere un pezzo di Capoeira, un pezzo di New Jazz Swing, un pezzo di Reggae, un pezzo di danza moderna, un pezzo di fitness, poi vai a terra, metti tutto assieme…sa di tutto e di niente! Non è che fai cultura mentre lo stai facendo, fai confusione. Vuoi essere polivalente, vuoi essere qualcuno che sa andare in più direzioni? Va benissimo, però almeno prima impara una cosa bene. Io ballo da ventiquattro anni e non credo di essere arrivato, credo di avere ancora tantissimo da imparare e tutte le persone che conosco e che lo fanno con una certa passione, dedicandosi da tanto tempo, non si sognano minimamente di dire che sono arrivati e neanche di sconfinare in venti danze diverse per far vedere che sono capaci a fare tutto.

B: dici che è importantissimo avere culture e rispettare le origini dell’Hip-Hop. A proposito di questa manifestazione, come le vedi le scuole di ballo Hip-Hop, dove non si insegna breaking ma si insegnano coreografie per lo più su musiche commerciali.
NO: i fruitori di quest’ambiente dovrebbero rendersi conto per primi che è importante esplorare ed esplorarsi. Devi capire chi sei, cosa ti piacerebbe ascoltare, cosa ti piacerebbe fare e capire di non omologarti con la televisione e con tutto quello che ci gira attorno. La televisione ti dà un aspetto, che può essere quello dell’intrattenimento (quando viene fatto bene), sennò spesso e volentieri presenta solo scopiazzature o luoghi comuni e quindi non si può sempre star dietro a queste cose. Oggi la gente che va a ballare vuole ascoltare i pezzi che ha sentito tutto il giorno guardando MTV. Invece il bello vero sta nell’entrare in un locale e sentire musica che non hai mai sentito, che non conosci e lasciarti andare, farti stimolare, perché ogni pezzo ti stimola a ballare in un certo modo piuttosto che in un altro. Così è il ritmo, sconfinare in qualsiasi genere purché ti trasmetta qualcosa. E lo stesso chi balla dovrebbe trasmettere, non solo eseguire dei movimenti per dimostrare qualcosa. Un ballerino non deve dimostrare agli altri di essere bravo, chi se ne frega! Grazie a Dio l’Hip-Hop non dice che devi avere un corpo con determinate caratteristiche. Vedi gente che fisicamente non se lo può permettere, magari priva di un arto, eppure esprime la gioia nel fare una determinata cosa: questa è la vera potenza dell’Hip-Hop. Se poi hai il cuore, la mente, il look, tutto quanto al massimo, allora sei una bomba: ma al mondo nessuno è perfetto, la perfezione magari è l’obiettivo per elevarsi.

M: l’anno scorso, durante una conferenza di Groove con Rido, un’insegnante di ballo una cosa che ci ha fatto inbufalire. Io sono come il pianista e i miei allievi sono i tasti del pianoforte, devono suonare come dico io. Come si fa a dire una roba del genere? E’ voler togliere la personalità all’allievo. Quindi che responsabilità hanno, secondo te, gli insegnanti di danza? E, più in generale, che responsabilità ha chi dovrebbe dare l’esempio?
NO: ho difficoltà ad accettare queste cose. Il bello dell’Hip-Hop è che ognuno è diverso e ha una propria identità. Ogni tot mesi questa roba cambia, giusto? Tutto cambia, anche un sasso cambia, passa uno che gli dà un calcio e non è più lì. Questo ci deve far riflettere che comunque tu puoi proporre qualcosa, puoi trasmettere delle basi, ammesso che tu le abbia. Ovviamente bisogna essere preparati, perché se ci sono dei giovani che vogliono imparare e ci mettono impegno, costanza e anche dei soldi, è giusto che chi gli trasmette questa cosa si sia un minimo preparato. Poi io consiglio sempre di cambiare spesso finché non si trova una persona che ispiri fiducia; non bisogna mai diventate schiavi di qualcuno. L’Hip-Hop non è diventare succubi di qualcuno, ma esattamente il contrario.

B: ora c’è questa figura dell’insegnante di breaking nelle palestre. Appunto breaker che si mettono a fare gli insegnanti a ragazzi più piccoli. Da un punto di vista economico, buon per loro, però com’è il fatto di porsi come insegnante o come maestro con la M maiuscola, parlando di questa disciplina? L’autoproclamarsi tali, in un certo senso?
NO: la reputazione di un ballerino viene dal confronto artistico con gli altri ballerini, non dalla bellezza del suo curriculum scritto a casa col computer. Si sentono spesso cose che non hanno senso. Metto assieme un campione e un beat: sono un produttore. Tutte robe talmente facili e scontate che uno si chiede perché allora uno debba studiare una vita, se poi è così facile. Bisogna prepararsi bene, anzitutto, per poter imparare qualcosa per sé stessi, poi eventualmente, in un secondo tempo, trasmettere le cose che hai imparato agli altri. Riportato al breaking, il discorso è complicato appunto perché questa è una danza molto complessa, in quanto coinvolge tutto il corpo e tutte le articolazioni. Il breaking è sempre stato molto avanti rispetto ai suoi tempi, perché sconfina ovunque. E’ chiaro che se viene visto soltanto come un momento di dimostrazione fisica, aggiungerei fisico-sportivo, è fine a sé stesso. Per imparare a ballare breaking, ci vuole pazienza, come in tutte le danze. Ti deve piacere, ci vuole lo spirito giusto, poi ovviamente ogni fisico va bene. Non esiste il corso di breaking ufficiale, perché si è sempre ballato in strada e ognuno ha sempre dovuto sbrigarsela da sé. Un bimbo senza genitori, finisce in strada e se la deve cavare da solo: in un certo senso è così. Ci sono dei paesini dove magari c’è un individuo che ha voglia di imparare questa roba e non sa come fare: è comunque giusto anche aggrapparsi a qualcuno, non voglio demonizzare nessuno da questo punto di vista. Personalmente ho capito che portare la strada in un luogo come la palestra può essere un esperimento interessante dal momento che in Italia si è creato una sorta di Hip-Hop parallelo a quello originale, allora dici: perché questi due mondi Hip-Hop non si incontrano mai? Se Maometto non va alla montagna, è la montagna che va da Maometto – consentitemi la metafora. Ho cercato di sviluppare una didattica, un modo di comunicare qualcosa che, se non vivi in determinati ambienti e luoghi, non riuscirai mai a imparare. Quindi ho fatto tutto un lavoro negli anni per cercare di sviluppare il concetto e trasmetterlo a chiunque e ti assicuro che posso insegnare qualsiasi cosa a chiunque, basta che abbia passione. Ma devi capire dove sei, chi sei, conoscere te stesso, il tuo corpo, poi via via nel tempo inizierai la tua evoluzione. C’è stata un sacco di gente che si è improvvisata: non puoi imparare un freeze in sette/otto mesi, facendoti venire la cervicale o portando il collare o spaccandoti le ginocchia, è assurdo. A questa manifestazione vedo delle contaminazioni prese dalla breaking nella videodance e per me sono ridicole. Vi piacciono? Volete metterle? Però almeno imparatele! Non buttatevi per terra a fare delle robe che non sono né carne, né pesce. E’ come se io mi togliessi questi vestiti, entrassi in una scuola di danza e mi mettessi a insegnare moderna, contemporanea o classica.
M: a volte l’Hip-Hop viene visto come una zona franca dove puoi fare quello che si vuole…
NO: sì, ma non è così. Ballare, in tutte le danze, esprime la vita. In piedi o per terra che sia. Noi non è che camminiamo sempre, noi ci sediamo, ci sdraiamo, dormiamo, questa è la vita: ballare è esprimere la vita.

B: la cosa che mi stupisce molto dei novellini, è che spesso nessuno sembra sapere quali siano le radici italiane, i grandi nomi, chi ha insegnato come funzionano le cose. Come ti fa sentire il fatto di essere una delle persone più importanti in assoluto dell’Hip-Hop in Italia? Ieri quando ho chiesto di te per sapere se eri qui nel palazzetto, rispondevano: chi? Ah, il breaker!
NO: a livello personale dico pazienza. A livello di Cultura dico peccato. Peccato per loro, perché forse mi conoscono più in Giappone o in un paese dove non sono nemmeno mai stato, piuttosto che qui. Peccato perché comunque ogni paese ha le sue origini, i suoi punti di riferimento, i suoi personaggi e il bello dell’Hip-Hop è proprio questo, poter anche essere fieri della propria storia, delle proprie radici, perché ognuno rappresenta il suo paese in ogni parte del mondo. Io credo di aver contribuito a portar fuori dall’Italia l’Hip-Hop di un italiano, non l’Hip-Hop italiano. Non ho mai creduto nell’Hip-Hop italiano, ho sempre creduto nell’Hip-Hop fatto dagli italiani in una grande famiglia che coinvolge tutti. L’Hip-Hop italiano non esiste, non è stato inventato in Italia. Esiste l’Hip-Hop fatto da persone di questo paese, che hanno apprezzato la Cultura e si sono fatte conoscere presentando attraverso il loro talento quello che avevano imparato. Negli anni ottanta ci conoscevamo tutti, c’era un legame fortissimo.
M: sinceramente, non mi vengono in mente nomi – oggi – che abbiano quell’approccio. Mi ricordo che una volta andavi al Palladium, c’era Ciso ed era un ambiente, un modo di vivere diverso!
NO: era l’Hip-Hop.
M: infatti! Ora cose del genere non ce ne sono più.
NO: ne parlavamo ieri sera, quando ci sono stati gli Slum Village. Voglio dire…dov’è finita la gente appassionata? Cavolo, qua c’è un gruppo potentissimo, il palazzetto doveva essere strapieno! Io quando posso, se non lavoro e non sono in giro, prendo e parto. Sono un fan dell’Hip-Hop, mi faccio le foto con gli artisti, sono un collezionista, cerco i dischi, mi informo, sono appassionato come se fosse il primo giorno, perché forse – grazie a Dio – vengo da quel periodo dove il primo contatto con tutta questa storia ci ha appassionato a 360°. Quando ho iniziato a ballare, mentre facevo la strada da casa per andare a ballare a Torino, facevo beatbox, poi ho iniziato a fare il dj, a comprare i primi dischi, a produrre e poi a rappare, ho provato di tutto, perchè l’Hip-Hop è bello tutto. Poi trovi la tua collocazione dove ti senti più a tuo agio. Ho fatto tutto e mi piace tutto! Quando andai a New York la prima volta, ancora non parlavo così bene l’inglese, però il mio linguaggio era l’Hip-Hop e la gente mi capiva perché è un linguaggio universale. Sinceramente, ballo da ventiquattro anni e oramai mi trovo, scusate il termine, con la merda fino al collo: ci sono troppo dentro e quindi non credo di smettere domani.
M: perché dovresti smettere, scusa, la tua passione è diventata la tua vita…
NO: te lo dico perché col tempo me lo sono chiesto molte volte, se valeva la pena di continuare. Perché ho visto anche cose che non mi piacevano più, in cui non mi identificavo. Adesso come adesso, non avrei mai pensato che un giorno potessero toglierci quello che è sempre stato nostro, sono perché non ci consideravano neanche. Noi siamo cresciuti tra di noi, ci facciamo i cavoli nostri, ci facciamo le nostre cose quando ci pare, non diamo fastidio a nessuno. Oggi, quasi veniamo messi in dubbio della nostra stessa esistenza. Io cammino sempre a testa alta, questa è una cosa che mi piace sottolineare, non perché voglio essere arrogante ma semplicemente perché non do fastidio a nessuno, poi se tu hai qualcosa da dirmi, pensaci due volte.

M: ricordo un episodio accaduto al concerto di Rakim a Rimini. Un tizio dal pubblico rompeva le palle, tu hai fatto un salto e gli hai detto una bella frase…
NO: sì, avevo il microfono in mano, stavo presentando Rakim. Con una mano ho fatto un mortale dalla consolle, son tornato giù e ho detto: io parlo, però intanto faccio, invece tu sei lì e parli.
M: insomma, c’è troppa gente che parla…
NO: la gente parla, parla… Perché parlare è più facile.

B: ora un paio di domande che mi arrivano direttamente dalla Sicilia…
NO: …con furore!
B: una piccola provocazione. Il breakin’ nel mondo: Italia e Corea a confronto.
NO: non mi piacciono queste domande. Pensa che non guardo nemmeno i video, quindi non so niente. Incontro le persone e mi va bene così, indipendentemente da dove vengano. Cerco di rispondere in senso lato: viaggiando incontro parecchi ballerini, alcuni bravi, anzi molto bravi. Pochissimi speciali. Ne ho visti talmente tanti, di tutti i colori, ma se non hanno qualcosa da trasmettere, non me li ricordo. Personalmente, non m’impressiona quanti giri fai o quanti saltelli fai sulla mano. M’impressiona magari vedere uno come tocca il suolo, che rapporto ha col proprio corpo, con la musica, col ritmo. Se ha questo e poi ha anche dei numeri, allora meglio.

B: qualche breaker italiano giovane degno di nota?
NO: non voglio fare nomi perché comunque qui, da un certo punto di vista, la cosa è ancora giovane e deve crescere. Dare dei nomi purtroppo sarebbe deleterio. L’ho visto alla battle che c’è stato due giorni fa: ancora non c’è l’umiltà, neanche di accettare un giudizio. E’ chiaro che in un contest qualcuno vince e qualcuno perde e quando perdi non ti puoi lamentare. Quando faccio il giudice ai contest in Giappone, sto lì una giornata intera a giudicare 260 gruppi. Alla fine arrivano anche quelli che hanno perso e mi ringraziano. Perché c’è umiltà, c’è cultura, c’è rispetto. Sanno che se sei lì, vuol dire che chi ti ha messo lì ritiene che tu abbia un minimo di esperienza per poter giudicare.
M: spesso ci si dimentica che un contest è una gara e quindi vieni giudicato da esperti, non è una sfida per strada…
NO: in strada nessuno ti potrà mai venire a dire sei fuori tempo! Non stai facendo bene quel movimento! Tu gli rispondi mi sto facendo i cavoli miei. Se invece stai facendo un contest, una battle, si presume che i giudici conoscano il loro mestiere. Non ho bisogno che mi fai vedere tutto il tuo repertorio: io giudico come entri, vedo come reagisci rispetto alla musica, rispetto alla gente. Cioè, non è bello se entri a testa bassa o se sei seduto fino a un secondo prima che ti chiamino, se non stai neanche guardando la gara, oppure se ti sei stancato tutto il tempo a ballare fuori dal cerchio e adesso che è il tuo momento non ce la fai più. Ci sono delle cose che ancora la gente non capisce. Spesso certa gente dice io sono bravo perché tutti mi dicono che sono bravo, quindi vinco io! Eh no, non funziona così!

B: quali sono stati i cambi radicali nel breakin’ da dieci anni a questa parte?
NO: andare avanti non sempre è sinonimo di evoluzione. E’ come dire che ci sono delle annate (parlando ad esempio della Sicilia) dove fai degli ottimi raccolti, ma ci sono delle annate che magari non sono buone. Quindi tu ti ricordi un’ottima annata, giusto? Magari non è il 2007 ma è il 1996, ad esempio. Siamo usciti da alcuni luoghi comuni, ma ne siamo entrati in altri. Non solo in Italia c’è una carenza a livello culturale, quindi si finisce sempre per emulare, rifare robe di altri… Io parlo in maniera generale, ma grazie a Dio qualcuno cerca di far altro e di andare avanti. Da alcuni anni a questa parte, ci sono anche dei contest che non premiano solo le power moves. Torna fuori di nuovo il solito discorso: non puoi mettere sullo stesso piano uno della foundation con uno che fa solo power. Ti stanchi di camminare su una strada? Non so, vuoi camminare nell’acqua? Be’, insegnamelo, fammi vedere e ci provo anch’io. Però se non sai nemmeno camminare per strada, è meglio che lasci perdere! Credo sia così.

BleMoro ringraziano Dr.What? per l’aiuto (anche se da lontano) nel realizzare l’intervista.

Se non lo conoscete già, abbiamo il grande piacere di presentarvi Irko, un giovane fonico e produttore che, oltre a essere titolare di un noto studio di registrazione, lo Studiobeat, ha recentemente lavorato su un pezzo di “Kingdom Come”, ultimo album di Jay-Z…

Intervista a Irko (Gennaio 2007)

Blema: come e quando nasce lo Studiobeat?
Irko: bella domanda… Lo Studiobeat nasce più o meno nel 2000, quando ero in discoteca dove ho lavorato per un sacco di tempo, il Manhattan a Conegliano. Lì vedevo un sacco di americani della base di Aviano e dicevo ma cazzo, qua è pieno di gente che vuole fare dischi! Poi non era proprio vero, a vederli mi sembrava così e allora ho iniziato a pensare che potessi preparare una struttura mia dove lavorare. Tra l’altro, parallelamente, in quello stesso periodo stavo registrando il mio primo disco come produttore, non come fonico. Al tempo non sapevo niente e mi sono ritrovato nella situazione divertente in cui io ero nello studio – chiamiamolo così, una roba molto casalinga di questo tipo che io pagavo per fare le registrazioni delle voci dei rapper che cantavano sulle mie basi – ma in realtà dovevo dire a questo fonico cosa fare. Mi sono detto mh, sto pagando questo e gli sto dicendo cosa fare della mia roba, c’è qualcosa che non funziona. Allora ho deciso di approfondire l’argomento e, se la vediamo qualche anno dopo, sono qua che faccio il fonico.
B: ti definisci più fonico o produttore?
I: 70% fonico, 30% produttore. In realtà è variabile, dipende dai periodi.

B: iniziamo a parlare della tua attività di produttore e fonico per mc’s italiani. hai lavorato sia coi T.A.P.E., che hanno suoni più mainstream, vicini al tipico Rap italiano, che con Kavemura, che invece ha aspirazioni più Def Jux e Anticon. Tu dove ti ritrovi maggiormente, sia per quanto riguarda le produzioni che per il lavoro da fonico? E rispetto ai tuoi gusti?
I: dunque, Kavemura non l’ho prodotto io, ho solo fatto l’audio. Però è vero che come produzioni ho fatto cose diversissime e non solo per gli italiani, anche per gli americani. Ho fatto un po’ di tutto in realtà. In partenza, ho iniziato a fare robe che piacevano a me e dipendeva dal periodo. Io vengo fuori nella seconda metà degli anni novanta, quando c’era il suono classico della golden age, però poi pian piano ho sempre cercato di evolvermi, per cui una volta ad esempio era il disco South che dovevo fare per gli americani e inizialmente per me è stato un dramma, perché non ne sapevo nulla di quel genere! Poi la roba R’n’B, poi la roba Hip-Hop ma con influenze Jazz, tipo il disco “Ren” che ho fatto insieme a Volo. Oggi posso dire di aver fatto un po’ di tutto, per cui se domani devo fare un disco di Tizio e dopodomani di Caio, sono in grado di farlo, perché come produzioni sono abbastanza versatile.
Moro: quindi alla fine allo Studiobeat può venire chiunque?
I: il discorso dello studio è ancora più ampio, in realtà. Perché per l’audio io sono specializzato in tutta quella che è la musica che chiamo tra virgolette finta, cioè quella in cui ci sono tastiere e simili… Sto prendendo pian piano anche tutto quello che è la musica vera, acustica, strumentale, suonata dal vivo – intendo ovviamente con gli strumenti. Tra gli ultimi dischi che sto facendo proprio in questi giorni, ce n’è uno Rock e uno Roots Reggae, per cui è roba che non c’entra un cazzo con quello che faccio normalmente. Però quello è audio.
M: quello è lavoro, diciamo.
I: sì, è tutto quello che è l’audio. Che comunque è tutto quello su cui punto di più, ultimamente. Io sono un tecnico del suono e voglio fare quello, anche perché non mi vedo a sessant’anni a fare le basi Hip-Hop, mi vedo a sessant’anni a fare l’audio per chiunque sia, quello sì.

B: al di là delle tue esperienze per motivi lavorativi, come hai detto prima, hai spaziato un po’ qua e là nei generi. Di tuo, per quanto riguarda le produzioni Hip-Hop, a chi t’ispiri di più? Produttori che ami, che stimi, con cui sei nato…
I: uno che seguo da sempre è Timbaland, è proprio il mio produttore preferito. Ma poi ce ne sono molti altri, ultimamente mi prendono abbastanza bene Scott Storch, Hi-Tek, Mike Lee Zone, Stizzle, Drema, ce ne sono tanti. Ovviamente anche Timbaland ha fatto delle porcate, per carità, chi non le ha fatte? Come anche i Neptunes hanno fatto di quelle cose magistrali come anche delle cagate pazzesche. E poi ce ne sono tanti che sono a metà tra l’Hip-Hop e altri generi, anche tutto quello che è R’n’B, Soul, Nu Soul o quello che sia.
M: le contaminazioni sono la base, l’Hip-Hop classico oramai non esiste più…
I: è anche normale, siamo nel 2007!

M: c’è molta gente legata alla old school che spesso si fossilizza appunto su quello che c’era una volta. Alla fine siamo della stessa generazione e ci sono tanti che non prendono neanche in considerazione la roba nuova proprio perché dicono che non è più Hip-Hop. Forse non vedono l’evoluzione che c’è. Avere delle radici è giusto, ma credi sia anche giusto cercare delle cose diverse, delle contaminazioni?
I: io ho notato che, quando uno inizia a essere parte di un movimento, soprattutto se musicale, è legato in modo molto forte a ciò che c’era nel momento in cui ha iniziato. In tutte le cose è così. Le nonne dicevano ai miei tempi era così, ai miei tempi questo e quello, che un certo modo di vivere era giusto e via dicendo. Ma chi l’ha detto che è così che va fatto? Dal punto di vista della musica, la noto tantissimo questa cosa. Io ho iniziato a sentirmi parte di un certo movimento in un determinato periodo, quando c’erano certe cose. Ovviamente sono ancora legato a quelle cose, ma sono anche consapevole che si trattava di quindici anni fa. Ai tempi delle medie, i dischi dei Cypress Hill, di Ice Cube, dei Mobb Deep, me li frugavo, veramente me li sono mangiati e oggi non succede che mi mangi un CD così tanto. Però bisogna rendersi conto che le cose cambiano, se no finisci a ragionare come la nonna che parla al passatp. Soprattutto io, che sono un professionista della musica, devo essere assolutamente aggiornato su tutto quello che succede, sempre. Per cui è ovvio che, pur essendo il mio cuore lì, so bene cosa stia succedendo, dove stia andando la musica. Ovvio, certe volte mi piace, certe volte ci vuole un po’ perché mi abitui a determinati suoni, ma è come mettersi un paio di pantaloni nuovi.

B: un artista che c’è sempre stato da quindici anni a questa parte, è proprio Jay-Z, per il quale hai lavorato. Com’è iniziata quest’avventura, come hai avuto il contatto con un personaggio comunque così grande e come ti è sembrata l’esperienza?
I: allora… (è un po’ imbarazzato – ndBleMoro) Cazzo, sì, Jay-Z, che figata! Mi sembra ancora stranissimo che la gente mi chieda se sono io che ho lavorato con lui e che io risponda ah, sì, sono io. La storia vera è che io sono andato a New York, dove ho fatto vari lavori tra cui anche quello. Ovviamente lo sapevo fin dal primo giorno che stavo lavorando su quel pezzo, però ho aspettato un mese e mezzo per dirlo a tutti perché non ero sicuro che venisse fuori il credito! Sai com’è, lavori con studi enormi, compagnie di produzione, manager, etichette, sottoetichette, è un casino, una giungla, per cui non ero sicuro che ci fosse il credito. Quando mi ha chiamato il mio amico B-Money, che è appunto il produttore del pezzo, mi fa guarda che c’è il tuo credito, è tutto a posto. Io ho veramente fatto i salti di gioia per mezz’ora sul letto, oltretutto era mezzanotte, sai per via del fuso orario, e ovviamente telefonai a tutti gridando come un pazzo! Per cui tutt’ora mi sembra stranissimo. Tanto più che c’è il mio credito insieme a quello di Dr. Dre, gente così. Com’è successo il tutto: i clienti del mio studio sono principalmente artisti, produttori, etichette, manager e produttori esecutivi. Uno di questi miei clienti, che è anche mio amico da parecchi anni, appunto B-Money, ha fatto cose molto grosse, ha fatto ad esempio “Hustler’s Ambition” di 50 Cent, il singolo della colonna sonora del film, ha lavorato con J-Lo, ha lavorato con un sacco di gente molto grossa, oltre a far parte della scena underground di New York. In pratica, non è uno di quelli che fa le commercialate maranza, come farei io! Per cui è uno molto figo, ma comunque tranquillissimo. Insomma, ero là e con lui ho registrato con Mic Geronimo e altra gente sempre prodotta da lui, durante quel periodo è saltato fuori che avrebbe dovuto fare questa produzione per Jay-Z, quindi, essendo il suo fonico, gli ho fatto il lavoro. E’ proprio lineare, semplicemente così. Purtroppo non ho incontrato Jay-Z, perché lui era in Australia dove ha registrato il pezzo, per cui abbiamo fatto tutto quello che è il tracking, le preamplificazioni, i premixing… Poi in quel periodo lui era in giro con una roba organizzata da MTV, tra l’altro era venuto anche in Italia. Comunque, ora…cazzo, sono sul disco di Jay-Z!

B: rispetto alla tua strumentazione, cosa ti sei trovato a utilizzare cui non eri abituato?
I: niente, tutto identico. Anzi, tutto più in piccolo in realtà, lo studio dove ho fatto quel pezzo era molto più piccolo rispetto al mio. E poi il lavoro che ho fatto è una roba che faccio tutti i giorni, nessun tipo di numero particolare, anzi. Tra l’altro B-Money lavora con la MPC per cui è come si fa qua.

B: con che strumentazione sei partito e a cosa sei arrivato?
I: in generale, io prendo il best of both worlds, cioè lavoro completamente in analogico finché posso, soltanto il supporto di registrazione è digitale, che è Pro Tools. Lavoro con un sistema TDM, tutto in analogico, la preamplificazione, compressione, effettistica, equalizzazione. Che è come si fa dal vero, tra virgolette.

B: corrono voci che siano in progetto altri lavori con grandi personaggi americani. Se ci puoi dire con chi e se ci puoi dire come nascono queste collaborazioni…
I: dal punto di vista audio, ho due/tre cose in piedi, sì, non voglio dire con chi per scaramanzia, anche perché è veramente tutto per aria, non c’è niente di confermato. Comunque questa volta è R’n’B, non Hip-Hop.
M: con la fidanzata di Jay-Z?
I: eh, purtroppo non è lei, cazzo! Dal punto di vista delle produzioni invece il discorso è molto più ampio, tra poco tornerò negli Stati Uniti sia per l’audio che per le produzioni. Per le produzioni è sempre un po’ un punto di domanda, è molto più difficile dire cosa succederà e cosa no, comunque vediamo. I contatti ci sono, vediamo cosa succede. Caso mai poi ci troviamo e vi offro una birra per festeggiare!

M: parliamo di italiani. Gente che hai sentito e che può avere un futuro, chi ha già fatto robe con te, chi c’è adesso che può nascere, venir fuori?
I: non mi sembra il caso di parlare della gente dello studio, mi sembrerebbe di pomparli. Secondo me, la musica che sta uscendo è un po’ simile a quella degli anni ottanta dell’Hip-Hop in America. Chi ha il contatto più importante viene preso dalle etichettone e avanti così. Questa cosa è un po’ discutibile, in realtà, ma non più di tanto. Probabilmente è anche una cosa naturale, che fa ingrandire il business della musica Hip-Hop in Italia, anche se sappiamo tutti che ha i suoi limiti. Purtroppo mi sono accorto di una cosa: la gente non compra quello che gli piace, ma compra quello che gli altri gli fanno piacere.
M: questo è il ruolo di MTV…
I: non solo di MTV, anche dei vari giornali, delle radio e tutto quanto. Non c’entra che un artista sia bravo o non bravo, non sta in quello, ma in chi decide chi è bravo e chi no, capito? Per cui in realtà l’energia non scaturisce dalla musica, purtroppo, ma dalla vendita della musica stessa. Dire deve vendere di più quello invece che l’altro è sbagliato, perché non dovrebbe funzionare così. Poi bisogna vedere anche come vanno i nuovi sistemi di distribuzione della musica: ad esempio gli ultimi quattro o cinque album che ho fatto in studio, sono usciti tutti su piattaforme digitali, ma non ho ancora messo bene a fuoco la situazione. Io sono uno che compra i dischi, ma non comprerei mai un .mp3, quello no. Però sembra che ci sia movimento in questo nuovo settore, bisogna stare a vedere.

M: alla fine, il mercato degli .mp3 è un mercato che in America va tantissimo. In pratica a cosa serve iTunes? Non serve a metterti la musica nell’iPod, serve a vendere l’.mp3 a un dollaro, è quello il suo reale scopo.
I: come tecnico del suono, ovviamente non amo l’.mp3, perché tutto il lavoro che faccio, o almeno gran parte, se ne va via con la compressione. Per questo motivo, non sono uno che comprerebbe un .mp3. Bisognerà però vedere come evolve il mercato. Come ai tempi erano usciti i Run-DMC con la canzone ebete delle Adidas, che comunque aveva il suo giro, adesso qua probabilmente tirano fuori le cose più catchy, più facili da far cantare allo stadio – per capirci. Poi probabilmente usciranno anche i vari Mos Def. Quindi arriveremo anche agli Eminem e si vedrà.

B: c’è qualche mc italiano che ti piacerebbe produrre?
I: ce ne sono, però mi piacerebbe farlo a modo mio. Per dirti, Fabri mi piace molto come attitudine, però ci sono cose che gli farei cambiare. La musica è fatta per dire cose, se non dici un cazzo a cosa serve? Per fare la colonna sonora di spot televisivi va bene, ma non per la musica Hip-Hop. Se fosse anche una roba cretina tipo muovi il culo in discoteca, almeno stai dicendo qualcosa. Fabri mi sembra un po’ carente da quel punto di vista. Poi è ovvio che ci sono delle scelte, non sto certo dicendo che non sia capace. Mi piacerebbero Ghemon, Tormento, anche Marcio mi piacerebbe produrre, però poi bisogna sempre vedere con che ottica. Comunque, questa gente è tutta capacissima di fare qualunque cosa.
M: a livello di freestyle, ad esempio, proprio Tormento è una roba pazzesca, però anche lui è uno di quelli che quando gli capita, spara delle cazzate… Come fa un’etichetta a produrre personaggi non molto credibili né di gran talento? Perché non tirano fuori personaggi che comunque potrebbero far bene?
I: ci sono delle dinamiche pazzesche dentro le etichette. In questi giorni ne parlavo proprio con degli artisti con cui sto lavorando, che vogliono proporre cose nuove, e la domanda è sempre cazzo, io voglio proporre qualcosa che a loro possa piacere, ma non rientra in quello che faccio io, allora cosa devo fare? In realtà, la cosa bella e allo stesso tempo brutta dell’ambiente della musica è che non ci sono regole, in niente! Però è anche divertente questa specie di gioco…
M: sì, ma il problema rimane. C’è chi fa delle cose per piacere e chi invece le fa perché vuol farle. E secondo me se uno le cose le fa col cuore e col cervello, mettendo assieme le due cose, poi comunque i risultati saltano fuori. Se una cosa la fai soltanto per piacere agli altri, può piacere un mese ma poi non resterà nella memoria.
I: questo è ovvio. Ci sono esempi clamorosi di robe del genere, cioè i vari Eamon, Lumidee… Io che vivo in quest’ambiente da dieci anni, ho visto di quelle cose che dici ma com’è possibile una roba del genere? Eppure è così. E’ anche il bello della musica, per certi versi.

B: shouts!
I: eh, saluto la mamma! No, dai, queste cose sono sempre problematiche perché poi mi dimentico gente che non dovrei. Vi ringrazio dell’intervista e ci aggiorneremo sicuramente prossimamente su tutto.

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