Intervista a Don Diegoh (22/02/2022)

Quando Macro Beats ci ha proposto di intervistare Don Diegoh per l’uscita di “Addio, a domani.”, abbiamo sì risposto positivamente (e ci mancherebbe…), ma specificando che avremmo preferito un incontro de visu, non mediato da schermo o cornetta; perché l’album dell’mc calabrese accorcia la distanza tra artista e ascoltatore mettendo a nudo pensieri e storie molto personali, che richiedono un livello di approfondimento superiore alla media. Ecco, l’obiettivo della nostra chiacchierata consisteva proprio nel trovare delle chiavi di lettura che potessero essere utili all’ascolto, evitando tutte quelle domande di routine cui il più delle volte risponde già da sé il comunicato stampa…

Blema: so che hai letto la nostra recensione e che ti è piaciuta…
Don Diegoh: molto! Davvero bella e puntuale, non solo perché è una recensione positiva, ma perché secondo me ha colto in profondità ciò che volevo venisse colto del disco.
B: “Addio, a domani.” è un progetto insolito. Tanto per fare polemica, non mi è piaciuto come altre testate l’hanno spesso etichettato: un disco d’amore…
DD: infatti non lo è.
B: e tu come lo definiresti?
DD: lo definisco, in poche parole, il disco del risveglio. Mi viene in mente questa frase di De Gregori, perché quando cercavo un nome per l’album volevo chiamarlo “Cardiologia”, che è appunto una sua canzone che parla d’amore e associa al tecnico-scientifico, i movimenti non soltanto muscolari del cuore: <<chi raccoglie conchiglie dopo la mareggiata e il cielo è ancora scuro ma la notte è passata>>. Secondo me questo è un key message del disco, dove in alcuni episodi si raccontano sicuramente cose che fanno parte della sfera sentimentale, ma nella mia visione l’amore è qualcosa che rientra in una struttura cognitiva più ampia, non a sé stante, prende tutto. Una leva per andare più in fondo e parlare di me come individuo, le mie relazioni, la mia intimità…

B: a proposito di intimità, dimmi qualcosa della cover, che credo possa essere interpretata in vari modi dopo aver ascoltato “Addio, a domani.”.
DD: l’immagine di copertina può essere vista come una persona che sta dormendo o che si sta svegliando, però con l’art director Fabrizio Pisani abbiamo voluto cogliere quello che, diciamo, è un colpo di reni: la ragazza si sta alzando, sì, ma da uno stato, una sensazione, che potrebbe essere qualcosa di simile a una reazione alla depressione. Ed è una ragazza perché durante tutto il disco c’è questo dare del tu a una figura che comunque è femminile. Poi è interessante il gioco di luci, perché c’è un contrasto tra chiari e scuri proprio a simboleggiare questo passaggio da uno stato all’altro, come nel titolo: “Addio, a domani.”.
B: l’altra cosa che rimane nel mistero è se sia una persona sola oppure no.
DD: quella in copertina è una persona sola. L’idea iniziale non era quella, volevamo metterle qualcuno di fianco, in piedi, poi abbiamo preferito così e, tra l’altro, si tratta della stessa ragazza con cui abbiamo fatto gli scatti dei primi due estratti, “Sagittario” e “Ladri in casa”.

B: a proposito dello star soli, “Addio…” è un disco che di fatto rinuncia ai featuring.
DD: sì, al microfono ce n’è solo uno, quello di Christian Nife, ma tutti quelli che mi hanno dato una mano li considero dei featuring. Ti faccio un esempio: chi ha fatto gli scatti d’autore sulla fanzine, andando a interpretare in chiave visiva i miei testi, è un featuring, perché aggiunge la sua arte alla mia. Lo stesso vale per chi si è occupato della parte grafica, fino ovviamente ai produttori. “Addio, a domani.” è un disco fatto con tutte le persone che hanno dato il loro contributo, c’è il mio nome in copertina per tutta una serie di ragioni, perché è un disco molto intimo, perché vengo da diversi dischi fatti in combo e qui invece volevo esprimere anzitutto il mio pensiero, però le responsabilità sono divise e lo stesso Macro Marco è parte integrante dell’intero iter lavorativo, sia come supervisione che come contributor in studio. Diciamo che tanta gente c’è stata fin dal primo giorno, mi è stata accanto.

B: che feedback hai avuto – per usare uno slang vecchissimo – dai colleghi della scena? Fare un disco tanto personale non è semplice e, considerato il periodo da cui usciamo (pandemia, isolamento e via dicendo), magari nell’aria c’è più voglia di cazzeggio e divertimento…
DD: in generale ho ricevuto delle bellissime parole, penso a Tormento, Dutch, Claver, Moder… Però la verità è che “Addio, a domani.” non è un disco fatto per avere un certo tipo di endorsement, di risposte da parte di chi fa il mio stesso lavoro. Cerco di spiegare un concetto, sperando di riuscirci: ho scritto questo disco per la gente comune e non per le persone che compongono la scena e l’ho scritto come se stessi scrivendo il mio diario personale, non come se fossi il rapper Don Diegoh. Delle volte quando vai su un palco è un po’ come se entri in scena: metti il cappello, impugni il microfono e lì qualcosa cambia… Che non vuol dire non essere veri, diventare un personaggio, ma in qualche modo ci si maschera; qui non avevo alcuna voglia di farlo.
B: e ritieni di averlo mai fatto in passato?
DD: ritengo di aver mitigato alcune cose, di aver usato delle parole invece che altre, di aver cambiato dei testi in corsa per alcuni album perché non ero pronto a scrivere determinate cose che mi riguardassero. Ma anche la mia visuale. “Disordinata armonia”, ad esempio, è a mio modo di vedere un disco dedicato a un target dai trent’anni in su, che parla molto più al plurale e racconta di vicissitudini che possiamo considerare condivise, di tutti, con nel mezzo, quasi tra le righe, dei riferimenti alla sfera familiare, personale e sentimentale; racconta una precarietà generalizzata, perciò utilizza un linguaggio che è per e di tutti. Per “Addio…” non ho invece fatto nessun ragionamento di questo tipo, è come se avessi scritto ogni pagina a mano libera, senza dover ritornare su ogni elemento del testo: ogni volta che ne ho terminato uno, non mi sono chiesto cosa potesse pensarne l’ascoltatore, perché serviva anzitutto a me farlo.

B: parlavi prima di un disco di rinascita. Da quanti e quali punti di vista?
DD: anzitutto da un punto di vista dello stimolo creativo, dell’ispirazione, della voglia di mettere un paletto differente nella mia musica rispetto al passato. Ma anche in termini di argomentazioni, un disco che parte da una fine, letteralmente, e in qualche modo segna un nuovo inizio, trovando una cura in un contatto con una persona nuova – <<guarire e sparire in un abbraccio>>, come dico in “Spine”. Che è un po’ il pezzo che ha spaccato le cose in due da quando è uscito, nel senso che più la gente l’ha ascoltato, più ha capito in che direzione volevamo andare, cos’avevamo iniziato coi primi due pezzi e che poi, come in un puzzle, si è unito assieme al resto in un solo disco. Quel brano lì, scrivere di quelle cose, spostare l’attenzione da fuori a dentro me, mi ha permesso di parlarmi fino in fondo, di specchiarmi e uscire da tutta una serie di stati e meccanismi. Non ho problemi a dirlo: “Spine” l’ho scritto a Milano, intorno a maggio, in un giorno abbastanza particolare, e quando l’ho terminato sono scoppiato a piangere perché era tutto ciò che avevo bisogno di scrivere in quel momento. Questo è rinascere. Poi è chiaro che oltre alla propria interiorità ci sia una grossa componente esterna. Ci sono le relazioni, le cose vissute negli ultimi due anni, una serie di ricordi del passato che volevo tradurre al presente per dare omogeneità ai testi, una coerenza trovata anche grazie al grande lavoro fatto dagli altri a livello musicale. E la vera sfida è stata quella di affidarsi a produttori diversi ma avere una linea comune nel sound, perché se in passato lavoravo con un determinato produttore che faceva tutti i beat, è chiaro che immaginavo che genere di pattern mi avrebbe proposto; qui invece ho dovuto mettere d’accordo me stesso e tutte le persone coinvolte, trovare una quadratura tra tutto… E non è scontato riuscirci.

B: in base a ciò che hai appena detto, mi è venuta in mente un po’ la quasi sincronicità tra l’uscita del tuo disco e l’ultimo di Aesop Rock con Blockhead, che parla a sua volta di un argomento difficile come il lutto. Chi fa Rap oggi ha meno paura di esporsi a livello così personale?
DD: mah…non che negli anni novanta non ci fossero dischi che comunque affrontavano episodi molto intimi; già Neffa e Kaos, a loro modo, si aprivano abbastanza nei loro testi – e cito giusto i primi due che mi vengono in mente. Sicuramente, col passare degli anni, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo questa cosa ha preso più piede, ma sono casi che non chiamerei vincenti: sono dolorosi. Perché se ascolto un disco di XXXTentacion, ma anche uno degli ultimi due di Marracash, capisco quanto poco sia facile tirare fuori delle cose in una data maniera e dargli anche una forma artistica, dato che si tratta pur sempre di musica. A me è sempre venuto abbastanza spontaneo, vengo da una scuola che utilizza il Rap come uno strumento, come un mezzo invece che un fine, e già all’epoca sono stato folgorato da un disco come “Foto di gruppo” di Bassi Maestro, perché aveva una scrittura molto introspettiva che riusciva a trovare delle immagini uniche, personali; innamoratomi di dischi come quello, nel mio piccolo ho cercato di proseguire su questo solco, aprendomi sempre più. La differenza è che se prima non ero pronto a farlo per un intero disco, non so se stimolato anche dal fatto che l’abbiano fatto altri, ora ho scoperto di esserlo. Ma questo disco ce l’avevo in testa da molti anni, come suoni e parole. Dovevo trovare il momento giusto e il tempo per mettere tutto assieme.

B: quanto c’è di terapeutico in ciò che hai scritto, per te ma non soltanto per te?
DD: dato che l’album è uscito da poche settimane, posso dirti con esattezza che tante persone mi hanno detto di essercisi ritrovate. Va da sé che un disco lo ascolti un po’ in base al mood in cui sei, quindi suppongo che molti cercassero quel tipo di sincerità e di spontaneità che penso di aver messo nei pezzi. Ci sono almeno tre brani nei quali il tu cui mi rivolgo esiste, è presente e c’è quindi una sorta di dedica; negli altri ci sono ovviamente riferimenti reali, concreti, ma l’immagine è un collage, perché per far uscire fuori determinate cose ho avuto bisogno di unire tanti episodi in una storia che non fosse solo ed esclusivamente mia. Il lato terapeutico quindi c’è, in particolare nel durante e nel dopo: mentre scrivi hai bisogno di farlo per te, successivamente speri sia qualcosa di utile per gli altri.

B: la fine di una relazione, che è uno dei temi da cui il disco prende avvio, è appunto come un lutto, un trauma. Tu a un certo punto parli di un microfono in cui non sai più rappare, come se quel cambiamento possa rompere, se così possiamo dire, anche la capacità di esprimersi attraverso l’arte; è ciò che volevi descrivere?
DD: chiariamo che io mi riferisco a qualcosa che in parte è accaduto molto tempo fa, perciò più che i dettagli ho cercato di raccogliere le sensazioni rimaste ed esporle oggi, a trentasette anni. Però sì, un trauma di quel tipo rompe tutto ciò che incontra e infatti il mio non è un piangersi addosso, quanto un modo per raccogliere il meglio di me, ritrovare ricordi, pezzi di completo black-out (penso soprattutto a “2035”), speranze che non è sempre facile vedere… Stare in piedi, è questa forse la leva mentale del disco.

B: e dopo un progetto così, come prosegue il tuo percorso?
DD: quest’anno si celebrano i quindici anni di Macro Beats, quindi c’è anzitutto un lavoro collettivo da portare avanti. E a me piace lavorare assieme, è stimolante e voglio contribuire ai festeggiamenti, costruire qualcosa di bello; poi sono contento anche che il mio sia appunto il primo disco uscito durante quest’anniversario. Nella mia testa ci sono già canzoni da scrivere, sia per me che per altri. Ma più di tutto ho voglia di fare il Rap: questo disco è stato un grosso sfogo e non dico che non possa uscire ancora qualcosa del genere, ma ho proprio voglia di rappare e di farlo in un certo modo.

B: riuscirai a portare un po’ in giro “Addio, a domani.”?
DD: sì, stiamo lavorando su diverse cose e abbiamo in mente dei talk – ne abbiamo appena fatto uno a Roma – per un ascolto collettivo del disco più due chiacchiere sui singoli pezzi, così da privilegiare la parte dei contenuti e condividere il making of del disco. Al tempo stesso stiamo preparando i live da fare con gheesa, che ha prodotto due terzi di “Addio…” e lo conosce molto bene, per cui speriamo si possano fare delle date quanto prima.
B: ce lo auguriamo anche noi!

Foto: Edoardo Lio.

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