Intervista a Willie Peyote (Maggio 2015)

Blema: Willie, adesso che sei un personaggio conosciuto ti trasferirai a Milano, inizierai a farti foto in centro sparandoti le pose da vero rapper, abbandonerai questo bell’accento torinese prendendo il mio…
Willie Peyote: ma veramente?! No, non credo succederà mai. Torino è abbastanza vicina a Milano per non dovermi trasferire mai!

B: sei molto provocatorio nei testi che scrivi, non si capisce bene però quale sia il tuo rapporto con la scena.
W: non ho un rapporto con la scena. Ho smesso di averlo parecchio tempo fa, nel senso che nei primi anni di carriera ovviamente ho bazzicato la scena per cercare di essere conosciuto e di capire anche come funzionava. Nel 2009/2010 ho concentrato di più la mia attività nel suonare la batteria in un gruppo Rock. Da lì in poi ho frequentato l’ambiente perché magari ogni tanto mi capitava di suonare, ma poco altro. Casualmente ho fatto un disco con Canebullo e ho partecipato, ma così perché partecipava lui, al primo Captain Futuro e il resto è venuto fuori da lì, ma la scena… Praticamente non ho avuto contatti, perlomeno con quella torinese, quella italiana meno ancora.

B: hai fatto il batterista per un gruppo Rock e hanno storia simile altri come Neffa, Salmo… Ma come vi succede, che un giorno prendi, ti alzi e decidi ciao, da oggi sono Hip Hop…?!
W: no, non è andata così! Io ho iniziato da ascoltatore da piccolissimo e mi piaceva il Rap. Poi però vengo da una famiglia di musicisti e i miei mi hanno incentivato a suonare uno strumento, quindi ho iniziato a suonare il basso in gruppo Punk. Quindi ho smesso perché ho incontrato un beatmaker, nel frattempo il gruppo si è sciolto di suo. Avendo incontrato un beatmaker ho cominciato a fare Rap, ma solo perché l’altra cosa era finita, avrò avuto diciannove anni. Poi, casualmente, un gruppo di amici doveva cambiare il batterista e ho deciso d’imparare a suonare la batteria e suonare anche con loro, facendo entrambe le cose. Se domani venisse fuori un progetto figo e avessi tempo per farlo, io suonerei in un gruppo che fa altra roba tutt’ora.

B: quali sono gli artisti a cui ti ispiri? In base alla tua storia verrebbe da nominare i The Roots…
W: …e invece no! Nel senso che li ho ascoltati ma non sono un gruppo che mi ha influenzato. Gli artisti più influenti nel mio breve percorso, oltre a Biggie, sono Eminem, il Fibra di “Turbe giovanili” e a parte Primo e Bean nessun altro italiano, Damon Albarn in tutto quello che ha fatto, gli Arctic Monkeys e tutto l’Indie che ho ascoltato mi ha cambiato molto, i Bluvertigo…

B: hai mai pensato di collaborare, o magari è già in cantiere, con qualcuno di questi gruppi?
W: mi piacerebbe collaborare con Pierpaolo Capovilla, che è la voce del Teatro degli Orrori, mi piacerebbe tantissimo coi Verdena, Fabi, Silvestri, Gazzé, mi piacerebbe, se la smettesse di fumarsi le bottiglie, lavorare con Morgan, Meg e i 99Posse come me li ricordo io, anche se non esistono più così.

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B: Tornando alla scena, sembra che Torino si sia un po’ assopita…
W: …perché sono venuti tutti a Milano!
B: Anche! Ma fra Suite Foundation con gli ATPC, Next Diffusion, Lyricalz, Gate Keepaz eccetera, sembrava che Torino, assieme a Bologna e Roma, fosse uno dei fulcri dell’Hip-Hop. Nel tuo caso, però, hai iniziato dieci anni fa, quando tutto questo fermento già non era forse più così attivo, o no?
W: Ma no! Era una città piuttosto attiva, quando iniziavo io c’erano i primi One Mic che giravano l’Italia in un periodo in cui il Rap non se lo cagava nessuno. Oggi sono tutti e tre affermati in modi diversi, vivono a Milano per forza perché adesso il Rap è nelle etichette discografiche che sono tutte lì. La scena di Torino tutto sommato è ancora attiva, ci sono un sacco di gruppi, un sacco di realtà che però non sono sotto i riflettori, non ci si rende conto di quello che succede ma ci sono migliaia di persone che fanno il Rap a Torino, molte più del necessario come dappertutto. All’epoca, comunque, c’erano anche i Maschi Bianchi dove c’era Pula, i DaGiants, Canebullo, ancora gli ATPC, la Funk Famiglia che poi sono diventati i Poor Man Style, i Duplici di cui Paolito ha mixato e masterizzato l’ultimo EP che abbiamo fatto. Certe cose sono cambiate perché la gente o è diventata famosa o ha smesso perché c’è stato uno spartiacque da quando il Rap è diventato mainstream, o svolti o smetti.

B: E tu da che parte vorresti stare?
W: Io da nessuna delle due. Non mi piace essere figlio di schemi che c’impongono, non sono dell’idea che si debba svoltare a livello di Fedez per fare la musica in Italia, se no Vinicio Capossela avrebbe smesso da un pezzo, capisci?

B: Però non si capisce nemmeno dove ti collochi. Mi spiego meglio: partecipare a concorsi (Genovaxvoi, Captain Futuro), girare video…e i tuoi testi rimangono molto critici verso il mainstream.
W: perché devo essere collocato? Comunque, c’è una critica rivolta al mainstream ma c’è anche una critica rivolta all’underground, critiche rivolte a tutti. Come dice Dj Koma nel disco che uscirà a breve, non me la prendo solo con chi fa musica commerciale perché un disco undergound fatto male suona molto peggio. Io preferirei non fare video, non avere i social network…smetterei di differenziare fra underground e mainstream. Non esistono tematiche underground, esistono modi diversi di spiegarle.

B: Alla domanda che lavoro fai? oggi in molti rispondono il rapper. Tu cosa rispondi?
W: io sono disoccupato. In realtà faccio il musicista, che però non è fare il rapper. Dacché ho iniziato a suonare il basso ma comunque anche prima, il mio sogno era quello di mantenermi facendo musica. Mantenersi non vuol dire essere sempre in televisione, fare la pubblicità alla Sisley, eh. Quello è guadagnare tanti soldi, a me basta molto meno. Di lavoro faccio questo, mi facevo bastare lo stipendio del call center, ora mi faccio bastare quello che guadagno dai live e dai dischi che vendo, se domani guadagnerò più soldi sarà solo meglio. Sono d’accordo con te, è molto inflazionato il concetto di rapper. Se fai il Rap come lo fa Fedez o i Dogo a cinquant’anni è meglio che smetti, secondo me se lo fai come Blitz The Ambassador lo puoi fare fino a ottanta e nessuno ti può dire un cazzo. In Italia non si è ancora visto un rapper credibile, anche se ormai i rapper che piacevano a noi hanno quarant’anni, Tormento esce adesso col disco, Murubutu ha solo minorenni davanti al palco…

B: Qual è il tuo pubblico attuale e il tuo pubblico ideale?
W: il mio pubblico ideale è fortunatamente quello che vedo sotto il mio palco in giro per l’Italia ultimamente, solo un po’ più grande. Ho la fortuna di avere un pubblico molto eterogeneo, quindi ci sono i ragazzini, ci sono universitari, mediamente il mio pubblico è sui venticinque anni, ci sono anche ragazzi della mia età, trentenni. Spesso ai concerti di Funk Shui Project ci sono più donne che uomini. Mi succede che persone che sono sotto al palco mi vengano a dire io non ascolto Rap, però tu mi piaci un sacco. Io faccio Rap in un modo diverso dagli altri perché ascolto roba diversa dagli altri. Ultimamente sto ascoltando l’ultimo dei Verdena insieme a quello di Kendrick.

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B: Cosa deve comunicare il tuo Rap?
W: Un rapper che fa un disco intero senza dire un cazzo e parla solo di Rap o di quanto lui è più bravo a fare Rap degli altri, non aggiunge e non toglie niente al mondo così com’era prima che lui facesse quel disco e quindi non serve a un cazzo. La musica deve dire delle cose e schierarsi. Anche prendere posizione a livello politico. Per quanto Fedez parli come un ragazzino delle superiori a botte di memes, lui ha preso posizione e ha ragione Taiyo nel dire che tutto sommato è meglio di chi posizioni non ne prende. Poi sono d’accordo con la Lucarelli che dice che Fedez è sopravvalutato dalla stampa. Preferisco chi prende posizione, sempre, a me piacciono i Rage Against The Machine e i 99Posse che non hanno mai fatto mistero della loro posizione politica. Io faccio una cosa similare, prendendo meno posizione, però vengo visto come un’artista di sinistra, sono antifascista ma non ho mai detto di essere di sinistra. L’ultimo EP che ho fatto è molto più schierato del disco precedente perché l’ultimo ventennio della politica italiana ha influenzato anche la musica. Se Emis Killa e Fedez sono lì dove sono, è anche perché a fine anni ’80 c’era Drive In! So che è paradossale, ma in realtà non così tanto.

B: Rapper italiani con cui ti piacerebbe collaborare?
W: Per ora quelli che avrei voluto sui miei dischi li ho avuti o li avrò a stretto giro di posta. A me non piace collaborare con persone che non conosco nell’ambito Rap e quindi non saprei dirti. Dutch e Hyst/Taiyo sono due dei miei artisti preferiti e sono molto contento di averci collaborato. Ascolto anche Rap italiano ma non c’è nessuno con cui farei un pezzo, a parte Bean e Caparezza se è annoverabile nella categoria Rap e lo dico apposta ragazzi, rappa molto meglio di tanti di voi.

B: Anticipazioni sul nuovo disco?
W: Non è Rap. Non è così Rap come l’EP. Quasi niente gira con i BPM e col groove tipico del Rap, quasi niente di quello che ho fatto nel disco.
B: guarda che si dice così anche di “Squallor” di Fibra…
W: purtroppo ho avuto modo di sentirlo, mi ha fatto cagare. Il mio disco nuovo non somiglierà a niente che ho fatto fino ad oggi, poi la poetica del Peyote è quella, il nichilismo, il rapporto un po’ cinico con tutto ma non saprei come descriverlo, è un passo avanti secondo me.

B: Un feedback che ti piacerebbe ricevere da un tuo ascoltatore?
W: quello che mi è piaciuto di più, a tutti i livelli, me l’ha detto il cantante del vecchio gruppo di mio padre, che non è un mio fan: dici le cose che avrei sempre voluto dire io ma non sarei mai stato in grado di dirle così. E’ la cosa più bella del mondo. A me basta quella, se io riesco a pagarmi l’affitto, a fare la spesa e a sentirmi dire questa cosa qua da una persona a 1.200 km da casa mia con una vita completamente diversa dalla mia; in qualche modo ascoltando la mia canzone lui ha pensato che parlassi di lui, che cazzo me ne frega di fare lo sponsor alla Sisley, non è quello che mi interessa.

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