Run-DMC – King Of Rock

Voto: 3,5

In queste ore dense di celebrazioni atte a festeggiare il mezzo secolo di Hip-Hop, i pensieri corrono in direzione dei pionieri e a quegli eroi capaci di scrivere pagine epocali di una Cultura oggi cresciuta a dismisura, ben oltre qualsiasi ragionevole previsione si potesse fare quella sera nel Bronx, quando assieme alla semplice volontà di divertirsi stava inconsciamente nascendo un movimento rivoluzionario. Artisti che per alcuni, nonostante le tante miglia di distanza fisica, hanno caratterizzato l’adolescenza, ovvero quel momento in cui si comincia a formare un gusto personale, cercando quel senso identitario essenziale per comprendere cosa realmente ci emozioni, ci faccia star bene come nient’altro, forgiando ricordi indelebili, che catturano precisi momenti associati alla musica, fissi nei nostri ricordi proprio per la magia così creata.

In quell’agosto del ’73, al 1520 di Sedgwick Avenue, i Run-DMC non c’erano, ma in seguito avrebbero rivestito un ruolo determinante per la diffusione del Rap su scala mondiale. Joseph Simmons, Darryl McDaniels e il compianto Jason Mizell sono icone, di quelle vere: all’apice della fama raggunta, il loro successo è stato devastante, hanno ottenuto traguardi prestigiosi e ben rappresentativi della loro immensa carica carismatica, forti del loro potere d’immagine e di una capacità innata nel trasformare in oro tutto ciò con cui sono venuti a contatto. Prima di essere travolti, loro malgrado, da un ricambio generazionale che possedeva oramai un tasso di talento maggiore del loro, quantomeno in termini di freschezza, le tre leggende di Hollis, Queens, hanno portato l’Hip-Hop nelle abitazioni statunitensi grazie all’inclusione nella rotazione di MTV, poi l’hanno condotto in giro per il globo, l’hanno fatto schizzare in alto nelle classifiche di vendita, hanno contribuito in maniera imprescindibile alla conoscenza della Cultura, alla sua simbolizzazione visiva, a fissare nella mente di tutti l’associazione spontanea della loro musica alle tute Adidas, alle sneakers, al boom-box portato sulla spalla, agli occhialoni e ai giganteschi catenoni d’oro, non ultimo a quel deejay intento a graffiare vinili mischiando suoni provenienti da ogni dove, lasciando a un uomo solo il compito di sostituirsi a un intero complesso.

I presupposti dei contenuti di “King Of Rock” nascono esattamente da qui. E’ un disco che ostenta un’indistruttibile sicurezza di sfondare, di essere quanto di meglio ci fosse in giro, di saper oltrepassare non solo i confini geografici, ma anche quelli musicali, creando un Crossover destinato a mischiare nel migliore dei modi il Rap alle chitarre elettriche, progenie di una mescolanza che avrebbe in seguito costruito la fortuna di tantissimi altri artisti che verso i Run-DMC rimaranno per sempre debitori, avendo infilato un percorso già abbondantemente spianato. Il senso rivoluzionario di questo loro secondo album non risiede tanto nella cifra stilistica, quanto nella potenza del messaggio propagato e nel connubio tra generi: Darryl e Joe non hanno mai rappresentato la fascia più complessa del liricismo, ma il loro rimare pulito e tutto sommato semplice (per quanto, ai tempi, al top della gamma) emanava un senso di onnipotenza grazie a una presenza scenica di altissimo livello, una chimica perfetta nell’interazione con le rime; oltre a ciò, schieravano un Jam Master Jay in grado di elevare al quadrato il ruolo del disk jockey, portandolo dalle retrovie del palco a elemento essenziale dello show alla pari di chi teneva il microfono in mano, contribuendo a creare una macchina sostanzialmente perfetta a livello interattivo.

Aspetto ancora più importante, il lavoro era la diretta testimonianza che il Rap non si stava semplicemente compiacendo per la sua inattesa espansione, ma chiedeva giustizia a gran voce, osando un confronto diretto coi generi più popolari. E qui entra in gioco un’autentica pietra miliare, la titletrack, uno dei brani ancora oggi più forti del repertorio dei tre, condensato di autoindulgenza spinta ai livelli estremi dello spirito competitivo insito nella Cultura, una pretesa di attenzione che trasmetteva una fortissima necessità di emersione e riconoscimento, una ricerca di rispetto eretta, come da tradizione, sulla sua diretta mancanza. Chi faceva o si sentiva parte di un movimento considerato inferiore agli altri, non poteva che esaltarsi di fronte a un attacco che non manca certo di provocare brividi cutanei a trentotto anni dalla pubblicazione originaria, un punto esclamativo di proporzioni epocali che sfidava il mainstream guardandolo direttamente negli occhi, ponendosi, tra una schitarrata e l’altra dello stesso Eddie Martinez che già aveva abilmente volteggiato su “Rock Box”, nell’atteggiamento di chi, ora, poteva permettersi di fare la voce grossa. Il messaggio era chiarissimo e Run, DMC e JMJ lo stavano urlando anche per conto dei colleghi meno in vista, con tutta la veemenza che possedevano in corpo: siamo qui, siamo reali, non ci interessa dei vostri idoli e – come pure attestato dal leggendario videoclip abbinato al pezzo – stiamo per conquistare la vostra scena.

Se da un lato l’aura sovrastante manifestata dal singolo bastava di per sé a rendere tutto il disco un pezzo da collezione, dall’altro il medesimo non è tra i titoli di allora che siano invecchiati nel modo migliore. Tanto è vero che proprio i brani di fusione col Rock risultino ancora memorabili nonostante l’età, quanto c’è da registrare una parziale ma significativa mancanza d’innovazione nei confronti del materiale che la band aveva già proposto all’esordio. “Can You Rock It Like This” è infatti una scarica d’energia ricca di rime dal testosterone alto, un sunto del senso di sicurezza fornito dalle conseguenze della propria fama punteggiato da una ritmica travolgente e un’entrata in scena delle chitarre che non lascia certo inermi. Tra i passaggi migliori risulta essere pure “You’re Blind”, nella quale la strumentazione crea un’atmosfera più lineare ma non meno solida, per una predica rivolta ai falsi atteggiamenti di chi nega a se stesso di non aver combinato nulla nella vita. Tutto sommato, funziona pure la commistione sonora di “Roots, Rap, Reggae”, una canzone di poche pretese (se non quelle di far adeguatamente fruttare la collaborazione tra il gruppo e un artista allora di successo come Yellowman), probabilmente un tantino fuori dagli schemi per la consueta verve dei Run-DMC, ma che se non altro varia l’andamento generale del lavoro.

Pezzi come “Jam-Master Jammin'”, passo sostanzialmente obbligato come da usanze dell’epoca, risultano invece meccanici nella struttura, pur con gli indovinati inserti di chitarra misti a scratch e le carine sovrapposizioni di rime che celebrano chi sta dietro ai piatti; le batterie programmate, i bassi sintetizzati e i colpi di rullante di “You Talk Too Much” – invettiva contro le malelingue – ricordano molto ciò che l’indimenticato Larry Smith aveva già precedentemente prodotto per Whodini e Fat Boys; episodi come “It’s Not Funny” si direzionano infine verso il riciclo nudo e crudo, tant’è che il supplizio uditivo fornito dal quel campione vocale ripetuto all’infinito si aggrava nel momento stesso in cui ci si accorge che l’uso generale della strumentazione sia un ricalco mal riuscito di “It’s Like That” – senza contare l’utilizzo di un concept sinistramente simile a quello di “Hard Times”. Smith chiude tuttavia in bellezza, fornendo il suono quasi incantevole per far risplendere la superlativa “Darryl And Joe” (terza parte della serie Krush-Groove) al calar del sipario, motivando i rapper a macinare altre barre autoreferenziali che paiono porli in un immaginario premonitorio di un futuro radioso e colmo di numerosi altri passi essenziali, come effettivamente sarebbe stato.

“King Of Rock” non sarà mai ricordato come il miglior disco dei Run-DMC, eppure il suo fascino è fuori discussione, in particolare per quanto concerne la rappresentazione di un punto fermo, quello in corrispondenza del quale il Rap ha deciso che non intendeva essere relegato ancora alla Disco o ai block party, preferendo diventare finalmente grande. Tale è diventato e molti dei meriti vanno appunto assegnati anche a lavori come questo, che la loro epoca l’hanno segnata imprimendo solchi profondi nel terreno, grazie a un’entità di insostituibile rilevanza e interamente marchiata dalla mitica Hollis Crew.

Tracklist

Run-DMC – King Of Rock (Profile Records 1985)

  1. Rock The House
  2. King Of Rock
  3. You Talk Too Much
  4. Jam-Master Jammin’
  5. Roots, Rap, Reggae [Feat. Yellowman]
  6. Can You Rock It Like This
  7. You’re Blind
  8. It’s Not Funny
  9. Darryl And Joe (Krush-Groove 3)

Beatz

All tracks produced by Larry Smith and Russell Simmons except tracks #3 and #4 with the assistant production by Roddey Hui

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