Intervista a Speaker Cenzou (12/06/2023)

Vincenzo Artigiano, in arte Speaker Cenzou, classe ‘76, nato e cresciuto a Napoli in pieno centro storico. In attività dai primissimi anni novanta, più che un testimone diretto di tutti i passaggi evolutivi dell’Hip-Hop italiano ne è una delle voci di maggiore autorevolezza, punto di riferimento per – come minimo – l’intera scena campana. Abbiamo avuto l’enorme piacere di raggiungerlo via Zoom per una chiacchierata nella quale, come vi apprestate a leggere, sono stati rievocati i punti salienti di una lunghissima carriera…

Bra: ci sarebbe talmente tanto da chiederti, che è difficile decidere da dove partire. Stiamo sul presente, allora: hai appena rilasciato “House boat”, singolo e video in compagnia di Clementino; come nasce il brano e, domanda inevitabile, si tratta di un primo estratto da qualcosa su cui sei al lavoro?
Speaker Cenzou: il pezzo nasce perché alla base ci sono una grande stima artistica e, ancor prima, un’amicizia vera a livello umano e personale. Avevamo già del materiale assieme, varie cose, e riflettevamo sul fatto che si trattava comunque di robe in cui non eravamo mai solo io e lui, mancava una joint venture Cenzou con Clementino. Quindi abbiamo tirato fuori questa che è una bella bomba, molto Rap e senza compromessi, il nostro piccolo e umile omaggio ai festeggiamenti dei cinquant’anni di Cultura Hip-Hop. La cosa è stata davvero fritta e mangiata, abbiamo registrato, fatto i mix e girato il video in rapida sequenza, perché eravamo presi molto bene. Non ti so dire, invece, se finirà in qualcosa di più grande perché ho moltissimo materiale pronto e in questo momento sto ragionando su come organizzarlo, essendo arrivato alla conclusione che, per un tipo di artista come me, strutturare i progetti come fanno quelli del mainstream non ha senso: in questo momento voglio solo assecondare il mio estro, ecco. Ripeto, c’è sì un parco brani, ma non so ancora dire quando e quali staranno assieme in un disco; per ora, voglio far uscire una serie di pezzi, le altre valutazioni le farò in seguito.
B: in fondo, non hai certo l’urgenza di dimostrare qualcosa a qualcuno, puoi dare priorità – diciamo così – alla libertà creativa.
SC: esatto, ora ho bisogno di questo. Che la mia musica mi assecondi, non il contrario. In passato ho ragionato così: si chiude l’album, si tirano fuori i singoli che facciano da potenziale traino e via dicendo; voglio fare qualcosa di totalmente opposto a come l’ho già fatto. Magari fare un pezzo scritto in una settimana, registrato rapidamente e lanciato così. Anche perché, se la devo dire tutta, nel corso degli anni sono stato molto prolifico, pur avendo pubblicato un decimo di quello che ho prodotto, di conseguenza ho messo da parte molta musica; ora faccio il contrario, non voglio avere cose che prendono polvere negli hard-disk.

B: discograficamente, il tuo esordio ufficiale risale a tondi trent’anni fa, coi 99 Posse. Oggi, col bagaglio di esperienze che ti porti dietro, dove ti collochi in una scena della quale hai visto e vissuto ogni cambiamento e novità? Ovvero, ci sono delle realtà e degli artisti cui ti senti particolarmente affine?
SC: guarda, come wave posso essere vicino a tantissimi artisti, perché c’è qualcosa di loro che mi tocca o per una vicinanza stilistica. Fare uno, due o tre nomi, sarebbe limitante, riduttivo; sono sicuramente fan della musica che mi emoziona, può venire – per capirci – da Kaos come da Geolier e da tutto quello che c’è nel mezzo. In fondo, quando ho cominciato i puristi mi ritenevano troppo da centro sociale e quelli dei centri sociali troppo Hip-Hop, quindi non è una mia scelta, sono abituato a non essere inquadrato con precisione in una categoria e mi sta pure bene così. La ricerca è da sempre il mio pungolo, sentendo il bisogno di trovare una costante rielaborazione di me: vengo da un periodo nel quale per spaccare era necessario distinguersi e non ho mai voluto fare la stessa canzone che fanno già in altri quaranta.

B: per sommi capi, proviamo a muoverci tra le tappe principali del tuo percorso artistico. Cominciamo ovviamente da “Il bambino cattivo”, che esce quando compi vent’anni, e “Malastrada”, di tre anni successivo: col senno di poi, entrambi mettono in evidenza un approccio molto personale, che non segue i gusti altrui e non ha paura di mischiare un po’ le carte in tavola, rivendicando un bagaglio di ascolti che non si esaurisce nell’Hip-Hop. Ti riconosci in questa descrizione e ritieni sia tra i pilastri della tua musica?
SC: assolutamente sì! Sono sempre stato bastardo, meticcio, tra i primi negli anni novanta a fare un featuring con un neomelodico assieme ai 99 Posse: noi unici guest in “Cuore nero” di Franco Ricciardi, io ho scritto per intero un testo e ho lavorato a un paio di arrangiamenti. Per me è stata una cosa molto importante, perché a casa mia i cantanti napoletani venivano ascoltati, erano parte del mio background. I miei nonni mi hanno cresciuto a pane e Sergio Bruni, poi quando ho avuto l’occasione di incontrarlo mi ha detto delle parole molto lusinghiere, un’autentica attestazione di stima per la mia visione di artista.
B: forse, rispetto a ibridi che stanno in piedi a fatica, la canzone tradizionale partenopea ha maggiori punti di contatto con l’Hip-Hop.
SC: prendi il cantato a fronna ‘e limone (canto tradizionale spesso senza musica – ndBra), in un certo qual modo c’è già una sorta di comunicazione, come una battle, uno scambio di battute. Per me fare un’indagine, uno studio, sulle formule popolari più arcaiche, ancestrali, recuperando alcuni elementi che potessero stare nel mio Rap, ha significato dare una forma più originale alle cose che ho fatto.

B: facendo un piccolo salto in avanti, se a inizio duemila mantieni – diciamo così – un profilo basso, il decennio si chiude con la nascita dei Sangue Mostro. Due dischi pubblicati (“L’urdimu tip!!!” e “Cuo-Rap”), tu, Ekspo, Ale Zin e Dj Uncino (O’ Kiatt figura solo nel primo) per una formazione che, per dirla in maniera semplice, guarda allo spirito originario dell’Hip-Hop senza però risultare nostalgica: che periodo è stato quello per te e si tratta di un progetto in stand-by?
SC: sicuramente è stato un momento bellissimo, tanto per me quanto per gli altri membri del gruppo. Venivamo tutti da un momento di buio interiore, l’Hip-Hop stesso ne stava uscendo e, nello stare assieme, abbiamo ritrovato stimoli e creatività nel modo più sano possibile, cercando di vederci nei posti e facendo musica. Personalmente, è stato anche un momento – uno dei tanti – di morte e rinascita artistica; lo è stato in maniera violenta, veemente, che ci ha posizionato anche bene nell’ambito del Rap italiano, perché specialmente con “Cuo-Rap” giravamo, facevamo live e il disco vendeva, nonostante fossimo indipendenti. Anche per questa ragione, Sangue Mostro non è un progetto finito, è un all star team e, quando gli astri sono propizi, anche dopo anni ci si rivede e si fa musica assieme per il piacere di farla. Di certo faremo qualcosa l’anno prossimo per i dieci anni del nostro secondo disco, che è diventato di culto.

B: nel 2018 esce “BC20 director’s cut”, operazione comprendente sia remake di brani selezionati da “Il bambino cattivo” che inediti, con l’ulteriore aggiunta di tantissime voci che ti affiancano. Siamo ben al di là della solita riedizione celebrativa: quando ti guardi indietro, tendi a essere più critico o orgoglioso di ciò che hai fatto e dei risultati ottenuti?
SC: guarda, io sono e sarò sempre la persona più critica e severa quando l’argomento è Speaker Cenzou! Per “BC20” ho voluto porre l’accento sulla dicotomia espressa fin dalla cover, l’anima più allegra, solare, e quella cupa: delle vecchie strofe ho tenuto tutte le metriche originali cambiando però le liriche, è stata un’operazione catartica, un lavoro di terapia col quale ho portato il mio io ventenne a vedere cos’era successo nel frattempo, nel 2016/18, quasi a rispondere oggi al Vincenzo di ieri. Ci tenevo a dire all’ascoltatore che avevo fatto pace con quella parte di me, particolarmente tetra soprattutto nella prima metà del “…bambino cattivo”. Un modo per opporre più speranza alle tenebre del ’96. Il topic era questo: far esprimere il ragazzo di allora, con la maturità dell’uomo che nel frattempo era diventato.

B: accennavamo prima ai featuring. Senza considerare la scena partenopea, che di fatto hai affiancato quasi nella sua totalità, tra gli altri hai collaborato con Neffa, Sottotono, il Danno, Dj Gruff, Ensi, FFiume, Egreen, fino a un veterano come A.G.; a elencarle tutte si farebbe fatica, ma – senza fare un torto a nessuno – ce n’è qualcuna legata a un ricordo o un significato particolare?
SC: sicuramente, quando Neffa mi ha chiamato per “I messaggeri…” è stato come coronare un sogno, essendo di quella generazione che aveva nei Sangue Misto un mito. Essere – come direbbe Roman Reigns – acknowledgiato da un rapper di quel livello in un suo disco degli anni novanta, è stato un riconoscimento enorme per me. Un altro paio non te le posso dire, perché le ho in ballo ora e potrebbero essere i featuring della vita – ma per chi ha letto “#Ammostro” (libro pubblicato nel 2017 – ndB) forse ci sono degli spoiler… Poi ti posso dire che vedere A.G. in studio che ti dà trentadue battute senza prendere carta e penna è una roba che a me, in quanto fan, ha impressionato tantissimo, ho visto proprio in diretta un metodo per comporre che hanno solo gli americani. In generale, io ho sempre creduto nell’incontro, nella collaborazione, nell’inclusività come momento di arricchimento.

B: invertendo la prospettiva, tu sei senza dubbio tra i decani del Rap in napoletano e non è difficile riconoscere il tuo imprinting nella generazione che – assieme a La Famiglia e 13 Bastardi – hai contribuito a formare. Da questo punto di vista, mi sembra che l’ambiente locale conosca e rispetti la propria storia; nella tua percezione, però, quanto è in salute la scena nata all’ombra del Vesuvio?
SC: è un discorso complesso, perché la scena che fa i numeri – chiamiamola mainstream, Urban – è ovviamente in piena salute, ma tutto ciò che non rientra in quella dimensione mi sembra sia quasi agonizzante. Come ho detto qualche giorno fa su Instagram, c’è sempre qualcuno che sbuca all’improvviso e dice che il Rap a Napoli sia nato nel 2006, non conoscendo affatto questa storia e facendo revisionismo, oscurantismo; ma se per me è stato importante capire cosa c’era prima che cominciassi a fare il Rap, oggi lo è il doppio. Ai ragazzi che si approcciano a questo genere e a questa Cultura, informazioni così poco vere non danno l’opportunità di capire da dove vengano le cose, quindi di scegliere e di esprimersi. Il risultato è che vengono meno i contesti e questa parte del panorama fatica a farsi conoscere, a dire la propria e a emergere. Non perché manchino le persone che vogliono farlo e che lo fanno, ma è difficile godere della grandissima esposizione che in questo momento hanno determinati artisti, non si riflette verso quest’altro lato. E infatti, ingiustamente, passano dei messaggi, delle narrazioni, troppo di parte. E’ come quando ti vuoi fare un bel piatto di pasta e al supermercato trovi solo i bucatini: se ti piace una pasta corta, un mezzanello o uno zito spezzato, devi avere la possibilità di trovare tutti i formati sugli scaffali. Per fartela breve, per me è questo che sta accadendo: c’è qualcuno che dice esistono solo i bucatini! – e non mi sta bene.

B: Sodo Studio, il tuo alias da produttore. E’ un capitolo più recente e forse meno noto del tuo cammino, ma non per questo secondario; quando hai avvertito l’esigenza di misurarti anche alle macchine e quali sono i tuoi punti di riferimento nel beatmaking, le ispirazioni più marcate?
SC: te la racconto esattamente com’è andata. Quando sono uscito dalle sessioni di mastering per “Il bambino cattivo”, ero frustrato: non mi piaceva com’era venuto fuori il suono dell’album. Da lì mi sono detto che non poteva andare di nuovo così e perciò avrei dovuto cominciare a fare pure i beat. Se faccio un lavoro per il quale mi faccio un mazzo tanto su un aspetto, poi non posso rimanere deluso dall’altro aspetto, quello che non curo io. Preferisco fare il doppio del lavoro, allora. Il flow è bello? Io scasso? Bene, la musica deve pompare! Sono cose che devono andare assieme, si devono incastrare. Da quel momento, piano piano, ho recuperato le prime macchine e ho cominciato a fare le mie cose. Ovviamente fulminato da Dj Premier ma soprattutto da Pete Rock, fino a quando ho capito che dietro molte delle cose che mi piacevano, come gli A Tribe Called Quest, c’era J Dilla, me lo sono studiato davvero per bene. Ma anche Dr. Dre, se ti devo fare qualche nome, o Erick Sermon… Seguendo una direzione chiara, con tanto Funk e Jazz, però – tornando al discorso di prima – senza mai dimenticare la musica napoletana.

B: tornando invece al Rap, è ovvio che tra lo Speaker Cenzou di “Rigurgito antifascista” e quello di “House boat” ci sia una distanza non da poco, per stile, scrittura e via dicendo. Di costante, però, c’è una tecnica molto solida, che spesso stemperi attraverso l’ironia – va da sé che sto semplificando; scrivere rime – scriverle bene… – per te è un po’ come andare in bicicletta, si impara a farlo e punto, o è sempre necessario stare al passo, esercitarsi e confrontarsi?
SC: per me è sempre stato così, fin dal primo momento ho ritenuto importante sapere cosa facevano gli altri, cosa tiravano fuori, chi faceva cose serie oltreoceano, ascoltare, misurarmi… Per come sono fatto, questo è un lato imprescindibile: era così quando avevo diciott’anni e lo è ancora oggi; anzi, mo’ lo è ancora di più, perché non mi appassiona l’autoreferenzialità della generazione cui appartengo, di chi pensa che, avendo un nome forte, sia sufficiente fare sempre le stesse cose. Essere lì da tanto tempo è un’arma a doppio taglio, devi rimanere allenato o rischi di non essere potente come credi; se poi ti rendi conto che non è più il tuo tempo, che non reggi, è più onesto finirla lì. Se ho fatto qualcosa di positivo nella mia vita, è perché a me stesso ho sempre detto che faccio cagare!

B: l’altro punto fermo della tua musica è il rapporto con la realtà che vivi, con la tua città. La racconti, la omaggi, la fai rivivere nei modi di dire, nei riferimenti ai quartieri popolari… Quanto è presente Napoli nella tua musica?
SC: ti racconto questa cosa che capita a fagiolo… Ieri mi hanno invitato a fare qualche pezzo alla festa del tifo organizzato, un evento promosso dai ragazzi del mio quartiere, quelli con cui sono cresciuto dai tempi delle medie: loro mi riconoscono, mi vedono in qualche modo come un buon esempio. Potevano chiamare chiunque, non c’erano limiti; il fatto che abbiano pensato a me, che conoscano la mia storia, mi riempie davvero di orgoglio e mi ha fatto pensare che, evidentemente, qualcosa di buono in questi anni devo pur averlo fatto, se una realtà di questo tipo non ha voluto solo una voce a loro molto nota come quella di Anthony (giovane cantante neomelodico – ndB), chiamando una figura come me. Poi è venuto anche Clementino e abbiamo fatto per la prima volta live “House boat”: è stato un delirio!
B: a questo punto, memore di un pezzo dei Sangue Mostro intitolato “La curva”, devi dirci che aria si respira da qualche settimana a Napoli.
SC: bellissima! E’ un’altra Rio de Janeiro in festa già da due mesi e mezzo.

B: non posso che salutarti con un’ultima domanda. Progetti per l’estate?
SC: un nuovo singolo, fuori a fine mese. E, dato che per me il Rap è un’espressione dell’anima, sarà un inno alla vita!