Chuck D as Mistachuck – We Wreck Stadiums

Voto: 4 +

Nel corso di decenni dedicati a musica e attivismo, Chuck D ha lavorato infaticabilmente per favorire l’emersione di figure afroamericane essenziali alla crescita culturale della propria comunità, denunciando nei confronti della fazione statunitense più conservatrice la pressoché totale mancanza di riconoscimento verso chi nel suo piccolo è stato determinante per lo sviluppo della sua identità in senso lato. La società americana è cambiata molto, si sono compiuti diversi passi in avanti nella ricerca dell’uguaglianza razziale anche se persistono problematiche molto complesse, ma se non altro le numerose voci di protesta che hanno combattuto per acquisire dei diritti hanno finalmente visto risultati chiesti a gran voce sin da quando i Public Enemy appallottolavano l’iconografia bianca come carta straccia, dato che la storia vede già scritta una conduzione presidenziale afroamericana ed è notevolmente cresciuta la sensibilità verso l’intolleranza nei confronti delle minoranze etniche. Interessante, dunque, osservare come alla base del filo conduttore di “We Wreck Stadiums” ci sia una tematica affrontata con modalità inedite rispetto al passato, per quanto la stessa resti di natura commemorativa, sebbene qui priva di accenni a ingiustizie o lotte sociali e intenta all’omaggiare celebrità del baseball d’oltreoceano trattando il racconto in maniera emotiva, nostalgica e – perché no? – pure adrenalinica, dato che i testi sono appositamente allestiti per narrare le gesta di grandissimi eroi del diamante e rispolverare il misticismo di particolari azioni o partite, andando a finalizzare uno dei dischi di maggior spessore di questa primavera.

Uno spessore inatteso, aggiungiamo, non certo per mancanza di fiducia nel leggendario artista, piuttosto per l’evidente discesa di qualità riscontrata nelle più recenti sortite del b-boy al centro del mirino, penalizzate da una produzione oramai distante dal rumore assordante dei tempi dorati e capaci di confezionare colpi di coda che solo saltuariamente hanno riacceso entusiasmi sopiti nei confronti di un’entità verso la quale l’affezione soggettiva non è mai venuta a mancare. L’idea di fondo è vincente, l’esecuzione argomentativa solida, D non sente il trascorrere del tempo e rimane una voce autoritaria, una presenza muscolare e priva di qualsiasi cedimento strutturale, dimostrando una longevità certamente al di fuori dei canoni se paragonata a quella mai goduta da tante altre superstar degli anni ottanta. La produzione, quasi totalmente curata dallo stesso C-Doc che già aveva firmato alcuni tra i beat del deludente “Nothing Is Quick In The Desert” e della sua pasticciata riedizione “What You Gonna Do When The Grid Goes Down?“, è un gran punto di forza dell’operazione, sapendo proporsi in maniera accattivante e riuscendo a dividersi tra il celebrativo, il malinconico e il ruvido, quanto basta per riesumare rimembranze sonore di un passato glorioso. Il coordinamento tra i vari strumenti realizza pattern esaltati dai vari utilizzi della tromba, elemento chiave per rendere pimpante il risultato finale, sostenendo la maggior parte dei pezzi con una nervatura Funk a tratti irresistibile, in particolare quando la sezione ritmica alza i giri e diviene trascinante.

Il rapper si costituisce conduttore ideale nell’illustrazione di istantanee accuratamente conservate in teche dalle quali si inala tutta la mitologia del baseball, ricreando vecchie pellicole azionate dal potere evocativo di rime sottolineate da una verve decisamente rinfrescata. Prima di cominciare la visita guidata, Chuck convoca alcune vecchie glorie del Rap per la titletrack e introduce l’argomento in maniera metaforica, costruendo ingegnose similitudini tra gli Hall Of Famer del Rap e dello sport, creando un’atmosfera elettrica tanto per chi gioca quanto per chi assiste. Il beat volutamente basico è intarsiato su sensazioni old school e, per quanto la resa delle rime non sia comparabile allo stile odierno, è davvero particolare l’effetto provocato dalla congiunzione tra due quinti dei Furious Five e il vocalmente indebolito – ma mai domo nello spirito – Darryl McDaniels, riuscendo a portare a compimento un’intuizione concettuale di rilievo.

Da qui in poi si parte sul serio, con “Warning Track” ad assemblare sopra un giro d’organo le particolari emozioni provate da giocatori e pubblico citando tipiche fasi della partita, infarcendo il testo di tutte quelle tensioni nascenti dall’unicità del momento o dall’importanza di una gara decisiva, magari suggellata da una giocata spettacolare, indimenticabile. Reggie Jackson è il protagonista di una “Towers Of Power” esuberante nelle ritmiche grazie all’azione infettiva dei fiati e al ritornello immediatamente memorizzabile, la dovizia di particolari e l’aggiunta di estratti delle telecronache originali creano un effetto da pelle d’oca ancora maggiore e sembra proprio di assistere al mitico swing con cui la leggenda spedì la pallina addosso alla base dell’impianto di illuminazione nello stadio di Detroit. Il turno in battuta di “The Amazing Willie Mays” coincide con un’altra magnifica gestione della sezione fiati, evidenziando l’abilità nell’orchestrazione generale del beat, caratterizzato da piccoli switch e appena percettibili accorgimenti che catturano inesorabilmente l’orecchio, condendo intelligentemente il tutto col classico slogan con cui fan e media usavano accogliere la star degli allora New York Giants. Chuck lascia quindi spazio al suo stile metrico più conversazionale per lustrare la vetrina di Dave Parker (“The Cobra”), illustrandone i conseguimenti con evidente entusiasmo, e non fa distinzioni nella pigmentazione dei protagonisti, affondando con grinta i denti nell’up-beat di “Can’t Stop The (Charlie) Hustle”, imperniata sui Cincinnati Reds del bianco Pete Rose.

Il leader dei Public Enemy esercita una multidimensionalità sconosciuta, toccando con romanticismo sportivo e poesia pura la magnifica immagine del subentro del cielo stellato al calar del sole, segno che la partita è di quelle importanti, plasmando una “Sun Is Running Out (A Wally Moon Is Coming In)” ove l’organetto solitamente suonato allo stadio pare trasferirsi tra mura ecclesiastiche, tanto sacro pare tutto ciò che vi si respira attorno. “Hard To See My Baseball Cards Move On” è addirittura struggente nel revisionare figurativamente la vecchia collezione di card, i cui protagonisti giocano ora nel ballpark sito al di sopra delle nuvole e le cui immagini scorrono in carrellata man mano che la mestizia del ritornello prosegue il suo cammino. Da qui a passare alle bordate dei tripudi Jazz come “Ferguson Jenkins” è un attimo; ed è persino possibile riassaporare qualche goccia di caos organizzato, se non altro perché “Get It Right” e quella robustezza così ben equilibrata alla delicatezza della porzione suonata riescono a ristabilire un piccolo legame con un nemico pubblico d’altra epoca, a maggior ragione sottotitolando alla stessa maniera dei remix della Bomb Squad.

Doveva essere un gruppo di brevi brani destinati ai promo di MLB.TV, la stazione ufficiale del baseball americano, è invece diventato un documento iconoclastico da promuovere tra le migliori realizzazioni mai offerte dal granitico Mistachuck, qui autore di un giro di mazza inatteso ma dannatamente potente, di quelli che fanno scomparire la pallina all’orizzonte, accompagnata dal rumoroso boato del pubblico.

Tracklist

Chuck D as Mistachuck – We Wreck Stadiums (The SpitSLAM Record Label Group 2023)

  1. We Wreck Stadiums [Feat. Rahiem, Kidd Creole and DMC]
  2. The Cobra
  3. Warning Track
  4. Can’t Stop The (Charlie) Hustle
  5. Hard To See My Baseball Cards Move On
  6. Towers Of Power
  7. Ferguson Jenkins
  8. Get It Right (Polo Grounds Ebbets Field NYCMC Mixx)
  9. The Amazing Willie Mays [Feat. Nabaté Isles]
  10. Sun Is Running Out (A Wally Moon Is Coming In)
  11. ESPN Sunday Night Baseball Theme

Beatz

  • C-Doc: 1, 2, 4, 6, 7
  • C-Doc and JP Hesser: 3, 5, 8, 10
  • C-Doc and Nabaté Isles: 9
  • Gary G-Wiz: 11

Scratch

All scratches by C-Doc

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