Intervista a Ice One (15/12/2018)

Sul lungomare di Ostia c’è un nitido cielo azzurro, tonalità che ben si addice al freddo di un sabato pomeriggio che promette l’arrivo di temperature finalmente invernali. Raggiungo Ice One a casa sua, dove scoprirò che mi attende anche Cal, per una lunga chiacchierata su una carriera pressoché unica nel panorama Hip-Hop italiano, considerati i tantissimi anni di attività e la diversità di progetti realizzati, in veste solista e non. Ne ricaverò quasi due ore di ricordi e considerazioni che tento di condensare nell’intervista che vi apprestate a leggere, fermo restando che non basterebbe un intero libro per riassumere un bagaglio di esperienze così fitto – e speriamo che al Seba venga appunto voglia di scriverlo, prima o poi, quel libro…

Bra: assieme a pochi altri, tu sei senza ombra di dubbio un pioniere dell’Hip-Hop italiano, uno di quelli che ha studiato le discipline, le ha praticate ed era lì quando le cose stavano per succedere. Raccontaci proprio di quei primissimi anni, di quando e come incroci la Cultura e di quello che scatta dentro te, all’epoca poco più che adolescente.
Ice One: io ho masticato musica fin da piccolo, essendo i miei zii, mio padre e mia madre dei grandi ascoltatori. Mi ritrovavo di conseguenza tra le mani i loro 45 giri, da James Brown e Nancy Sinatra fino a cose italiane, tant’è che quando ho avuto a che fare con la cultura musicale avevo già delle basi di partenza solide. Comincio quindi a fare il dj attorno ai sedici anni e piano piano nella mia vita entra questo suono nuovo, lo scratch, che forse è la prima cosa arrivata dell’Hip-Hop; nello stesso periodo scopro anche i graffiti, ricordo che nel ‘79 andai con mia madre a una mostra qui a Roma, alla Galleria La Medusa di Via Margutta, dove esponevano Phase 2, Rammellzee e non ricordo chi altri: lì rimasi davvero abbagliato, c’erano varie cose che mi colpivano e che non sapevo essere elementi costituenti di questa Cultura, poi quando è arrivato tutto assieme ho capito che c’era qualcosa, un legame. Mi piaceva non a caso anche il Rap, che da noi compare nello stesso periodo perché c’erano musicisti che già lo facevano in italiano, anche se c’è chi si arroga il diritto di dire che l’ha fatto per primo: non è vero, erano robe commerciali e imitative ma esistevano, come Pino D’Angiò che magari senza consapevolezza faceva cose un po’ alla Kurtis Blow, pezzi party che in America andavano già da qualche anno. La mia valigetta comincia a riempirsi sempre più di Rap e a un certo punto i proprietari dei locali, gli amici e le persone che mi stimavano mi fanno notare che stavo facendo cose molto particolari, che stavo imboccando una strada precisa: io ne presi consapevolezza e cominciai a fare solo serate Hip-Hop. Eravamo pochissimi ma il numero si stava allargando, dato che nei primi anni ottanta arrivano i vari film – “Beat Street”, “Breakin’”, ma anche “Flashdance” – ed esplode il fenomeno della Breakdance, si crea una polarità d’attrazione maggiore e quelli che avevano iniziato come me trovano una biosfera nuova nella quale potersi muovere, un pubblico. Tutti ballavano, è stato un fenomeno nazionale come lo è stato lo skateboard, per dire; magari i livelli acrobatici degli americani li hanno raggiunti in pochi e di conseguenza c’è stato un punto di rottura in cui il fenomeno è passato di moda, però in quel momento si può dire che la Breakdance sia proprio esplosa, tanto che le televisioni nazionali erano piene di questa cosa: c’era un programma come Sotto le Stelle il sabato sera, lo giravano a Napoli, con persone che venivano dalle basi militari N.A.T.O. e quindi facevano Breakdance, ballavano Hip-Hop, Electro Funk… Forse aveva un po’ l’effetto del circo in TV, però era in sintonia coi tempi e piaceva, era figo. Passa il tempo e comincia a consolidarsi uno zoccolo duro, abbiamo aperto una strada, avuto contatti con artisti americani – nonostante i pochi mezzi a disposizione – e in una città grande come Roma si riuscivano anche a trovare le riviste di settore americane e inglesi; io ad esempio leggevo Blues and Soul, che parlava anche di Hip-Hop e generi affini, ma perfino Rockstar aveva delle recensioni interessanti, le faceva Roberto D’Agostino, quello di Dagospia, e devo ammettere che ho comprato diverse uscite che consigliava lui.

B: dare concretezza a questa passione che cresceva dentro e attorno a te non dev’essere stato facile, immagino. Eppure a metà degli anni ottanta pubblichi i tuoi primi singoli e in seguito formi i Power Mc’s con Duke Montana e Julie P: considerato il territorio inesplorato che vi circondava e l’incoscienza dei vent’anni, quali ambizioni vi guidavano?
I: guarda, in realtà molti avevano già concretizzato qualcosa coi nastri. Magari ne avevano venduti cento, duecento, ma le discografie ufficiali non ne tengono conto; però di gente che provava a incidere ce n’era ed è giusto ricordarlo. Probabilmente il primo disco registrato da qualcuno che era parte del giro è un pezzo mio e di Eolo, con cui collaboravo all’epoca, un Rap su una produzione di Paolo Del Prete con la produzione esecutiva di Frank Rinaldi un po’ Disco e un po’ Elettronica, voleva fare una cosa diversa, un remix, e ci ha coinvolto – io curai anche la batteria e gli scratch. Era il 1987 e ricordo che mi chiamavano tutti, volevano sapere com’eravamo riusciti a farlo, sbalorditi; l’anno dopo replichiamo e così cominciano a uscire le prime cose, Power Mc’s e via dicendo. E in una follia verticalistica, da pischelli, il nostro riferimento era il mercato internazionale: ci sono i Run-DMC? Bene, noi dobbiamo diventare i Run-DMC italiani! Però chiaramente non c’era la stessa sostanza, eravamo dei ragazzini e per di più non era ancora tutto aggregato, non c’era una scena; la fantasia era comunque di viverci, per cui abbiamo lavorato per mettere da parte l’aspetto dilettantistico e seguire la scia di dischi che vendevano milioni di copie. Perché a me i discorsi da talebani non piacciono: se fai musica commerciale e la fai bene, sei degno di rispetto; fai underground e lo fai bene, sei degno di rispetto uguale.

B: nei primi anni novanta ci si muoveva soprattutto nel perimetro dei Centri Sociali, con le posse, e l’Hip-Hop aveva spesso una connotazione politica. Era un contesto in cui ti sentivi a tuo agio o lo ritenevi limitante, in ambito artistico?
I: diciamo che in quel periodo emerge una scena secondaria e abbiamo due realtà in aperto conflitto, perché la scena più radicale, quella nata prima, vede il Rap politicizzato come una distorsione negativa dell’Hip-Hop, che ha sempre avuto un messaggio di tipo sociale, non per forza politico. Invece c’era chi metteva in primo piano la politica, veicolando magari messaggi importanti ma attraverso un punto di vista troppo specifico. Intendiamoci: io i Centri li frequentavo, tuttavia non mi piaceva quel tipo di Rap, mi sembrava una copia – fatta pure male – dei Public Enemy, senza lo stile che avevano loro.
B: al netto di ciò, non credi si sia persa un’occasione allontanandosi da un ambiente che aveva delle aderenze naturali con l’Hip-Hop? In fondo il Rap è divertimento, colore, ma è anche critica del razzismo, racconto di una quotidianità non sempre felice…
I: io ho visto il Centro Sociale come un grande luogo in cui si potevano fare grandi cose. La musica Hip-Hop, anche se non fa sempre comodo dirlo, contiene di per sé dei messaggi razzisti; gli stessi Public Enemy, eletti in quel contesto come il grande esempio da seguire, sono dei Five Percenters, setta che faceva riferimento a un loro leader, Elijah Muhammad, il quale aveva scritto che erano veri uomini solo il cinque per cento della popolazione e che gli altri erano dei demoni… Discorso che può valere anche per Rakim, Brand Nubian, X Clan e così via. Per cui mi viene da pensare che nei Centri Sociali l’Hip-Hop veniva letto secondo presupposti e paragoni che non avevano capito bene neppure loro. Per converso, la Francia ci dava esempi come IAM e Suprême NTM, che facevano musica da classifica con un contenuto sociale ma senza rompere tanto i coglioni, perché avevano percepito che la destra si annidava anche nelle case popolari e non c’era più un’identificazione precisa tra sinistra e proletariato. Cosa che in Italia vediamo con chiarezza ancora oggi.

B: in quel periodo conosci tre ragazzi un po’ più piccoli di te, il Danno, la Beffa e il Piotta, coi quali nasce il gruppo Taverna Ottavo Colle – non a caso ritroviamo tutti e tre nel primo disco che porta il tuo nome in copertina, “B-boy maniaco”. Che aria si respirava a Roma?
I: era un ambiente già molto diverso rispetto a un paio d’anni prima. Si era delineata questa frattura tra le posse, che avevano determinato quasi un’invasione di Rap italiano fatto per lo più malissimo, e tutti gli altri, i quali cercavano di capire come facevano Hip-Hop gli americani, ispirandosi ai gruppi che stavano uscendo allora – i Cypress Hill, gli House Of Pain… C’è stato un seguito differente. E durante una serata che si chiamava The Jam, al Palladium, insieme a Luca De Gennaro ci siamo ritrovati davanti questo quartetto – il Piotta non c’era – formato da Primo, Grandi Numeri, Masito (allora Beffa) e Danno: salgono sul palco e gli diamo subito il nome Facce da Culo, perché si erano presentati volendo fare del Rap ma non avevano nessun pezzo loro. Proprio delle belle facce da culo… E niente, rimaniamo che avremmo fatto delle cose assieme e come sappiamo la cosa porterà alla nascita del Colle der Fomento; che fa un po’ ridere perché è lo stesso acronimo di Facce da Culo ma al contrario. Da lì arriva anche il concetto della Taverna Ottavo Colle, idea che se non ricordo male venne al Piotta; in origine io dovevo essere solo il produttore, invece divento anche il dj e abbiamo cominciato a girare per i live, ne abbiamo fatti molti e a differenza di altri abbiamo creato un sound tutto nostro.

B: il 1996 è per te un anno fondamentale. Produci “Odio pieno” e lanci uno dei tuoi alias, Dj Sensei, pubblicando “Crescendo: the dark side of Funk”. Non voglio farti le solite domande sull’uno e sull’altro, però sono curioso di capire quante anime musicali convivessero dentro te già in quel frangente: il primo è scuro, abbastanza omogeneo nelle atmosfere, il secondo raccoglie sfumature molto diverse tra loro, ci sono i pezzi per i b-boy, il Trip Hop, la Jungle, la Library. Vorrei sapere in che misura questo tuo modo di intendere la produzione musicale, passando da Ice One a Dj Sensei fino a Electro Disciples, dipende dal tuo essere un collezionista di vinili e quindi un amante della musica tutta.
I: parte tutto dall’essere un musicista. Io ho studiato pianoforte, ho fatto gli esami di composizione e quello che m’interessava era fare musica, punto. L’idea dell’album di Dj Sensei nasce, come molte cose che faccio, da un sentimento di presa per il culo, in quel caso verso i discografici e i giornalisti che parlavano di Trip Hop o di Jungle senza averne una conoscenza tecnica, oltre al classico approccio artistico: uscivano molti dischi di Trip Hop, qualcosa di Jungle, e io decido di fare un disco di Elettronica, senza l’Elettronica. Anche la roba suonata, in “Crescendo”, arriva da sample, mentre per assurdo qualche synth magari l’ho usato in “Odio pieno”. Diciamo che a me piace raccogliere le sfide e il risultato è che Dj Sensei è stato suonato molto anche all’estero; pensa che una volta ci arrivarono dei falsi, delle copie pirata, fatte in Nepal! Quello è un disco in cui ho messo una filosofia sonora che andava dai mantra al campione di “Ramaya” di Afric Simone, che è quasi una cosa da giostre. L’idea era appunto quella di decontestualizzare tutto e dargli una veste nuova, una cosa molto sperimentale che in Italia nessuno si azzardava a fare, perché erano tutti dentro determinati binari e logiche discografiche. Io invece ho avuto la fortuna di lavorare con Irma Records, che ha sempre creduto in progetti che pur non producendo introiti enormi non andavano mai in perdita e venivano apprezzati da un certo tipo di pubblico. Per assurdo, il secondo album come Dj Sensei (“Let your mind be music” – ndBra) è un pelo più simpatichello e infatti alla Irma mi hanno detto che era meglio pubblicarlo con qualcun altro – perciò è uscito per BMG.

B: a mio avviso questo è stato un tema poco evidenziato quando è uscito “Scienza doppia H”. Mi spiego: nello spazio di tre anni porti il sound del Colle da tutt’altra parte, cambiano la pasta dei campioni e il timbro dei breakbeat, salgono i bpm, omaggi la musica Electro; non volevate ripetervi o il discorso è più complesso?
I: ammettere che un album come “Scienza doppia H” potesse avere qualcosa di rivoluzionario faceva paura, perché spostava l’ago della bilancia. E noi di questa cosa ne siamo sempre stati consapevoli: non ci siamo fatti i viaggi in testa, sentiti i geni della situazione, ma sapevamo cosa avevamo fatto. Il risultato lo vedi quando continuano a ristampare questi dischi e vanno a ruba. E mi perdonerete l’arroganza, ma quando faccio musica tengo sempre conto del passato, del presente e del futuro, miro all’eternità – ce provo. Ci sono cose che rimangono e cose che non rimangono, quello dovrebbe essere il metro di giudizio.
B: questo bisogno di spaziare in direzioni diverse, di rivoluzionare alcune certezze, è tra le ragioni che hanno portato te e il Colle a prendere strade diverse in un momento che vi vedeva tra le realtà di riferimento dell’Hip-Hop italiano?
I: al di là di tematiche molto personali che ovviamente ci teniamo per noi, quello è stato un periodo un po’ particolare per tutti e si può dire che non viaggiavamo alla stessa velocità. Lo dico senza rinnegare niente: io sono parte della storia del Colle e sono fiero di quei due album, che sono rimasti nella musica italiana tutta, in un periodo in cui la sfida era conquistare posizioni e territori, non come oggi che bisogna mantenere quelle posizioni e ci si può adagiare sugli allori. Andavamo a velocità differenti e per evitare di arrivare a un punto in cui non avrei più sentito la spontaneità della cosa, rischiando invece di sentire il peso dell’artificialità (cosa che appunto non era ancora successa), ho preferito continuare per conto mio, sempre tenendo presente che stavo attraversando un periodo difficile a livello personale, anche a livello di salute. Ma poi da lì sviluppo anche la mia filosofia musicale, perché facendo Dj Sensei, lavorando su progetti Electro, capisco che a me piace di tanto in tanto ripartire da zero, evitare la cristallizzazione delle idee, l’automitizzazione, dato che il gioco dopo un po’ si rompe. Sarà che vengo dalle arti marziali e quindi ho lavorato molto sul concetto di fluidità: essere come l’acqua, adattabile alle situazioni. Questa cosa l’ho sperimentata soprattutto in quel periodo e conta che lascio il Colle, decido di non fare un altro album con gli Assalti Frontali, Frankie Hi-NRG ha un comportamento un po’ particolare, senza recriminazioni, ognuno ha i suoi…e insomma la gente mi diceva ma sei pazzo, molli tre business così?! No regà, non è un problema perché tanto ne faccio altri. Perché non dovrei mettermi in gioco? E poi non mollavo tre business, semplicemente permettevo a me e a loro di crescere ulteriormente, senza essere l’uno la limitazione degli altri.

B: filosofia a parte, il tuo approccio è legato anche a una conoscenza tecnica, potremmo dire accademica, del suono e delle macchine. Secondo te la tendenza a utilizzare il PC come unico strumento, dalla fase di sampling alla programmazione dei beat, toglie alla produzione musicale una parte consistente del suo piacere?
I: ti dirò che nel tempo è cambiato anche quello. Io usavo l’MPC dell’Akai e, devo essere onesto, un buon 30% di come suonavano le mie cose dipendeva dallo strumento; però a un certo punto ho avuto bisogno di trovare qualcosa di flat che permettesse a me di arrivare a quel suono lì, sennò nei crediti accanto al nome Ice One avrei dovuto mettere Akai MPC. E’ cosi che ho iniziato l’ennesima rivoluzione e per un pezzo ora utilizzo tutto quello che serve, posso usare Reason o un altro software, ma soprattutto ho scelto di non prendere più un campione che mi piace e metterlo lì così com’è, bensì di smontarlo adeguatamente e fare con quel suono la musica che ho pensato, che ho inventato io. Se voglio fare un certo tipo di scala mi trovo le singole note, gioco sulle tonalità e le suono. Non voglio più sentirmi stretto nel loop: se sei un compositore, cosa che ho messo in pratica anche nei lavori di Dj Sensei, devi fare la tua musica. A un certo punto è arrivato il momento di cimentarsi con qualcosa di più grande, con la ciccia vera. Non mi pongo limiti, campiono da tutto, anche da vinile ma non per forza. L’Hip-Hop è libertà. Le regole vanno bene nello studio, perciò se vuoi fare il beatmaker io ti dico di studiare la musica – sennò sei solo uno che smanetta; però devi sentirti libero di comporre come ti pare.

B: questa libertà la ritroviamo in “Medicina buona”, l’album de La Comitiva – anche se il gruppo appariva già in “B-boy maniaco”…
I: …infatti La Comitiva nasce cinque/sei anni prima in una serata a Il Locale, quando ci dicono che il gruppo che doveva suonare non sarebbe venuto e così ci chiedono il favore di dargli una mano con una jam session. Un gruppo improvvisato, io, Riccardo Sinigallia, Francesco Zampaglione, David Nerattini, Dj Stile, il maestro d’orchestra Massimo Nunzi e non mi ricordo se si aggiunse anche qualcun altro, forse Federico Zampaglione ma non ne sono sicuro; il proprietario ci portò un tavolino rotondo pieno di bocce di vino stappate, cominciammo a bere a tutto spiano e non è che ricordiamo con esattezza quello che è successo, è stato un freestyle continuo da cui però uscì un pezzo che si chiamava “Sto sui miei piedi”. Nel pubblico c’era il presidente della Virgin che si avvicinò e ci disse domani quando v’è passata la sbornia vediamoci… Noi andammo, tutti in ritardissimo, e lui ci prese lo studio di Peter e Paul Micioni e ci diede una settimana di tempo per registrare quanti più pezzi possibili. Andiamo, facciamo grosso modo i pezzi che poi sono finiti nell’album e gli portiamo il DAT: lui ascoltandolo rimane un po’ così e ci fa lo so che vi pare una stronzata, però rivediamoci tra cinque anni perché ‘sta roba sta avanti. Nel ’99 infatti ci chiama perché vuole pubblicarlo – anche se chiaramente io un paio di cose me le ero portate in “B-boy maniaco” – e noi gli diciamo ‘sti cazzi, ci dai altri soldi e lo registriamo da capo, perché nel frattempo eravamo cambiati noi e la nostra musica.
B: era molto diverso da “Medicina buona”?
I: era più acustico. Ma prima o poi uscirà. Facemmo quindi l’album che poi avete ascoltato e anche lì la sensazione fu che avesse rotto un po’ le scatole a qualcuno, per cui a un certo punto è sparito, la Virgin ha deciso di cancellarlo anche se era stato passato abbastanza. Così le recensioni del tempo, che erano positive ma sembrava le avessero scritte col culo stretto, come se avessero paura di sbagliare qualcosa. Non voglio alimentare la tesi cospirazionista, ma qualcosa non tornava. Per dire: Elisa non voleva più comparire come featuring ma solo tra gli autori, noi provammo anche a chiamarla però sparì; poi è un disco che non si sa bene di chi sia, nessuno trova il contratto, ecc… Prima o poi facciamo una stampa bootleg in vinile e chi se ne frega.

B: hai prodotto brani per diverse generazioni di mc’s, da Frankie Hi-NRG, La Pina, Gente Guasta, fino a Kento, Roggy Luciano e Lord Madness. Non sei mai stato, tuttavia, un prezzemolino del beatmaking, uno di quei produttori che presenziano contemporaneamente su dieci dischi diversi; come mai?
I: perché non m’interessa esserlo. E con diversi personaggi con cui ho fatto dischi so che non lavorerò più: per me conta molto il lato umano e la veridicità delle persone. Non ti nascondo che nel periodo di “Quelli che benpensano” ho ricevuto, tramite Frankie, anche proposte indecenti; ad esempio: ti diamo un sacco di milioni per fare un pezzo per il Papa, perché all’epoca Papa Wojtyla aveva fatto un CD con le sue poesie e cercavano delle basi. Io però ho delle idee mie, una mia coerenza, quindi ficcatevi nel culo quei soldi. Quando sto nella musica mi ci perdo, vivo in quella sincerità lì; poi sono un essere umano e avrò fatto i miei sbagli, ma con la musica non ci gioco.

B: forse non a caso dal duemila in avanti la tua presenza si fa meno fitta. Tra “Metamorfosi di liriche” con Malaisa e “Latte & sangue” con Don Diegoh trascorrono quasi quindici anni nei quali l’Hip-Hop italiano cambia volto e protagonisti più volte: come mai un intervallo così lungo?
I: in realtà in quegli anni comincio a lavorare molto sul free download, perché mi sembrava una novità interessante. Avevo fatto un sacco di roba, l’ho anche venduta bene e mi hanno sostenuto, perciò mi sono detto che era arrivato il momento di sostenere la gente che aveva sostenuto me. Chiaramente se cerchi tra i dati di vendita non mi trovi, ma visitando i vari Soundcloud e MySpace dell’epoca trovi pezzi scaricati e seguiti con ottimi risultati. Ho fatto ad esempio “Rocktron riddim project” al cui interno c’erano Roggy Luciano, un gruppo Rock sperimentale come i Fluydo; ho fatto un remix per Buckshot del Boot Camp Clik e Sadat X; ho fatto dei remix per Alea; ho remixato un paio di pezzi per Cristopher Anton, leader degli Information Society… Tutta roba che è girata gratuitamente sul web. Diciamo che in quel periodo lì ho deciso di seminare, non di raccogliere. Fermo restando che l’Hip-Hop si stava evolvendo in una maniera che non mi piaceva, proponendo messaggi che non sento miei.

B: veniamo al presente, ovvero a “Iniezione musicale” e al duo Cal-Ice. Come nasce questa collaborazione e cosa ha spinto te e Cal a realizzare un disco assieme?
I: guarda, nella mia vita ho chiesto pochissime volte a qualcuno di collaborare con me e nel suo caso è successo. In una data al CPA di Firenze del tour ufficiale di “Latte & sangue” eravamo al banchetto del merchandising e incontriamo lei, che stava aspettando Don Diegoh per farsi firmare il vinile; abbiamo iniziato a chiacchierare ed è emerso che amava la musica, suonava degli strumenti, cantava e soprattutto faceva Rap, girando tra jam e contest. La dinamica precisa non la ricordo nelle virgole, fatto sta che le chiesi un demo e siccome non aveva ancora registrato niente le proposi, scherzando, di cantarmi qualcosa; lei iniziò uno standard Jazz e io rimasi impressionato, a maggior ragione considerando che aveva passato una serata sotto il palco a sgolarsi. Per cui le dissi ti produco un album; nel senso: se non aveva nessuno l’avrei prodotto io, se era già al lavoro con qualcuno le avrei dato una mano a pubblicarlo, perché non mi andava di alterare una sinergia magari già esistente. Cominciamo a mandarci cose, le diedi una base, lei ci mise un po’ a scrivere e mi girò due versioni di un pezzo, poi da lì più che a collaborare avviammo una co-produzione, perché avendo delle conoscenze da musicista, suonando il violino e il sax, sapendo come usare lo strumento voce, l’approccio lavorativo è stato differente rispetto ad altre esperienze. E nel frattempo mettiamo a punto questo metodo attraverso un remix, quello per i Banana Spliff (si riferisce al 7’’ “XVI round/Colpo grosso” – ndBra): invece che unire a-cappella e strumentale abbiamo voluto dare un po’ di colore al pezzo e c’è venuto in mente di usare il sax, lei l’ha suonato e abbiamo registrato col telefonino per dargli un suono più vintage, alla Pete Rock.

B: l’album ha un’anima abbastanza libera, fuori dal tempo. Avete consapevolmente deciso di evitare qualsiasi similitudine con l’Hip-Hop italiano di oggi?
Cal: siamo partiti con l’idea di creare un disco, un suono, che potesse spaziare in tutti i lati della nostra creatività. Quindi due strofe invece che allungare troppo il discorso, non me la capeggio nel senso che non parlo di me tutto il tempo e non faccio citazioni troppo autoreferenziali. Diciamo che la chiave è nel titolo, “Iniezione musicale”: volevamo trovare qualcosa che potesse risultare nostro all’interno di una scena che effettivamente manca un po’ di originalità in sé. I testi sono venuti prima, dopo e parallelamente, ci siamo concentrati molto sull’intera produzione, che è davvero curata. Io canto fin da quando sono piccola, ma ho sempre ascoltato diversi generi musicali: arrivo al Jazz più che altro per gusto personale, perché mi permetteva di avere dei binari meno rigidi, e ho suonato il violino perché volevo avvicinarmi alla composizione, per avere uno strumento di accompagnamento per la voce. Alla fine lo suono per sei anni, perché dopo aver terminato le scuole medie – dove avevo cominciato – continuo gli studi per conto mio con insegnanti privati, frequento il Liceo Artistico e accumulo esperienze di live painting, pittura e situazioni collaterali che mi davano la possibilità di conoscere un certo tipo di ambiente diciamo underground. Poi trasferendomi a Bologna trovo delle situazioni ideali in cui esprimermi, tra jam, open mic e competizioni di slam poetry, coltivando finalmente anche la scrittura e arrivando all’Hip-Hop, che ascoltavo già dalle superiori. Mi metto in gioco, ecco.

B: credi che questo background consenta al disco di raggiungere un pubblico non esclusivamente Hip-Hop?
C: noi puntiamo alla comunicazione di quello che abbiamo messo nella musica. Più rive può toccare, meglio è. Di sicuro io c’ho messo dentro tutto quello che volevo dire, per cui è un bel pacchetto. E di pari passo la musica.
I: è come nel video di “(You Gotta) Fight For Your Right (To Party)” dei Beastie Boys, dove c’è la festa a casa e vedi il gruppetto di Punk, quelli vestiti Hip-Hop… A noi non ce ne frega niente, ci piace l’Hip-Hop, facciamo musica Hip-Hop, però il nostro ascoltatore può essere chiunque intenda ascoltarci. Non siamo dei colonizzatori, però bisogna relazionarsi con un mondo che di fatto è enorme; anzi, l’idea della conquista di nuove anime da portare a questo modo di vivere la musica un po’ ci affascina. Io ho una storia artistica molto lunga e questo è un gradino importante del mio percorso, nel senso che me lo sento fortemente addosso: quello che posso dire è che non sono mai stato un estremista, se non contro le cose fatte male, fatte senza cuore.

B: com’è stato accolto l’album?
C: stiamo ricevendo buoni feedback. Sia, appunto, da chi è dentro l’Hip-Hop e magari rivede in quello che abbiamo fatto un sound che gli piace ma fresco, sia da chi ne è fuori.
I: considera che abbiamo cominciato a fare serate ancor prima di avere il disco, perché avevamo registrato “Inizia così”, l’ultima traccia nella scaletta di “Iniezione musicale”, e ho cominciato a suonarla durante i dj set, in particolare una sera a Molfetta, trovando subito una risposta positiva manco fosse una cosa già conosciuta. Dopodiché mi invitano al Chiringuito qui a Roma, dove si teneva il Welcome 2 The Jungle estivo, e lì succede la stessa cosa. Hanno cominciato quindi a chiamarci per dei live pur non essendoci ancora l’album, girando parecchio e trovando subito un bell’interesse attorno al progetto. E’ stata una cosa magica, a maggior ragione perché abbiamo solo fatto quello che ci piaceva fare.

B: nel frattempo è uscito “Adversus”. Cos’hai pensato, ascoltandolo?
I: quando l’ho ascoltato sono stato molto contento per loro. E’ un album diverso dal solito, più da ascolto che d’impatto, con una precisa dichiarazione d’intenti e un lavoro che la rispetta in pieno. E’ fatto per le persone che hanno seguito il Colle negli anni, tenendo però conto del fatto che anche loro sono cresciute; una scelta molto dignitosa, è un album poco slogan e molto mantra.
B: se non sbaglio, inizialmente era prevista anche la tua partecipazione. Poi come sappiamo il gruppo ha deciso di rivedere alcune scelte e affidare la quasi totalità dei beat a Dj Craim.
I: Craim si è caricato un grande mostro sulle spalle, considerato che molte cose erano già pronte cinque anni fa e che si doveva confrontare con della roba tosta, dei macigni. Ha fatto un grandissimo lavoro. Io al tempo gli avevo mandato delle tracce da ascoltare e ne era stata scelta una, ma non c’era niente di deciso e di comune accordo non se n’è fatto niente. Magari verrà recuperata in un prossimo futuro, non lo so. Con il Danno lavorerò sempre con piacere, è un fratello per me.

B: avresti mai immaginato di essere ancora in attività a 52 anni? Ovvero: hai sempre e comunque visto te stesso, professionalmente parlando, nel mondo della musica?
I: per arrivare a vivere di musica ho dovuto affrontare dei periodi di transizione e qualche volta mi è balenata la domanda se smettere o meno, ma è durata tipo un secondo, sparita. So che la musica mi sosterrà fino all’ultimo giorno della mia vita e che io sosterrò lei per sempre.

Foto di Ice One: Alessandro Levati.