Omen – Elephant Eyes
Uno dei punti di non ritorno marcati a fuoco nell’evoluzione musicale dell’ultimo decennio si colloca nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre del 2007, quando “Graduation” di Kanye West surclassò alle vendite, sfiorando il disco di platino già alla prima settimana, il terzo disco di un mendace 50 Cent (ricordate la sua scommessa/promessa, vero?), ridisponendo lo scacchiere dell’Hip-Hop in favore di una visione artistica in cui il concetto sintetizzabile in la mia pistola è più grande della tua non costituiva più un asset lirico dominante.
Questo è il filone in cui “Elephant Eyes”, debutto ufficiale di Omen, si inserisce. Due parole per tracciare i contorni del personaggio: Omen, all’anagrafe Damon Coleman, è un artista polivalente, parimenti devoto al microfono quanto al campionatore (uno alla Big K.R.I.T., per intenderci), originario di Chicago e affiliato alla Dreamville Records di J. Cole, che in tempi recenti ha dato con successo (di critica) il la alle carriere soliste dei rapper Bas (“Last Winter”) e Cozz (“Cozz & Effect”); per tutto il resto, lascio che siano le sue stesse parole a ricomporre il puzzle durante l’ascolto. Sulla carta, “Elephant Eye” si presenta come il tipico ritratto, a ritroso, della propria vita. Un soggetto, in termini registici, capace però di elevarsi dall’intrinseco inflazionamento che lo ha avvolto nel corso degli anni in virtù della dinamicità conferita all’impianto narrativo del disco.
L’Omen timido (<<There’s a million words hiding in my silence>>) che possiamo ascoltare mentre esprime le proprie insicurezze in “Motion Picture”, adagiata su una manipolazione di “Way Star” (a cura dello stesso Omen) assai meno algida rispetto alla ben più famosa “Thuggin'” firmata da Madlib, è diametralmente opposto a quello che andrà a prendere la parola nelle battute finali dell’album. Con lo scorrere della tracklist, assistiamo infatti a una costante crescita del protagonista, intento ad affrontare le asperità che hanno costellato il suo percorso fin dai primissimi passi: dall’assenza di un padre in “Father Figure” alla convivenza con ansia e paranoie generate da uno scarso autocontrollo (suo tallone d’Achille) in “Sketches Of Paranoia” (affiancato da un ottimo Bas), passando per le immancabili difficoltà nel rapporto col gentil sesso (“Same Jezebel”, “Sweat It Out”). Passo dopo passo, “Elephant Eyes” raggiunge il suo acme contornato dalla spirale ebano ed avorio di “Big Shadows”, momento in cui, simbolicamente, Omen mette da parte timidezza e paure, scrollandosi di dosso l’ombra di J. Cole (<<Remember Lil Cease? Remember Murphy Lee?/No disrespect is meant, but dawg that ain’t what’s meant for me/big shadows, I think I need more sun>>) e brillando finalmente di luce propria; un passaggio suggellato nella successiva (non a caso) “Things Change”, duetto alla pari in cui i due rispolverano quell’alchimia già ammirata a suo tempo in “The Badness” ed “Enchanted”.
“Elephant Eyes” è un signor debutto, nonché un ottimo motivo per tenere d’occhio Omen e i suoi compagni di scuderia: alla Dreamville Records sembrano avere le idee chiare su quanto ci sia da fare e, soprattutto, su come farlo al meglio.
Tracklist
Omen – Elephant Eyes (Dreamville Records 2015)
- Motion Picture
- LoveDrug [Feat. CJ Hamilton]
- Same Jezebel
- Elephant Eyes
- Father Figure
- Sketches Of Paranoia [Feat. Bas]
- Sweat It Out [Feat. Ari Lennox]
- Foolish Pride
- Big Shadows
- Things Change [Feat. J. Cole]
- Zion
Beatz
- Omen with the co-production by Ron Gilmore: 1, 4, 6, 7, 8, 9
- Omen with the co-production by Ron Gilmore and the additional production by Aaron “J Soul” Richardson: 2, 5
- Ron Gilmore: 3, 10
li9uidsnake
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