Jay-Z – 4:44
Jay-Z è morto. L’ego accecante; la reggia di Bel Air con lo scontrino a otto zeri; le tronfie magnum dorate firmate con l’asso di picche; le esplosioni euforiche di Jean-Michel Basquiat appese a vegliare sul mixer con cui Beyoncé prepara la colazione alla piccola Blue Ivy; i pacchetti azionari multi-milionari di Roc Nation, Aspiro e Armand De Brignac. Tutto seppellito in pochi secondi. Sì, è vero, ogni tanto – istintivamente – gli scappa d’infilare sottobanco quelle due barre messe lì giusto per ricordarci quanto siamo poveri; ma è la prima volta in ventun anni che Jay-Z si presenta di fronte al pubblico disadorno di quell’aura da personaggio della Marvel che l’ha sempre contraddistinto, mostrandosi come un uomo in carne e ossa. Pieno di dubbi e tutt’altro che perfetto.
Perfino quella “Allure” – gioiellino del suo “Black Album” e traccia da lui stesso etichettata come la sua preferita tra le sue opere – in cui rappava <<I’m high off life, fuck it, I’m wasted>>, viene rinnegata sin dai primissimi versi di “4:44″, quando dal pulpito celebra le proprie esequie (<<you got high on the life, that shit drugged you>>) in “Kill Jay-Z”, allestendo quel confessionale eluso per dodici lunghi album (<<cry Jay-Z, we know the pain is real/but you can’t heal what you never reveal>>), tra un giro d’onore e l’altro. Il ritratto che emerge è quello di un Jay del tutto inedito alle classifiche, finalmente libero dalle catene generazionali forgiate durante l’infanzia del padre, ora scomparso (<<that charge of energy set all the Carters back/it took all these years to get to zero in fact>>), a cui il rapper dedica una lettera nella scarna e arida “Adnis” – traccia bonus, ma solo sulla carta – celebrando la loro riconciliazione quale passo fondamentale tra l’uomo che un tempo scrisse “Blue Magic” e quello che oggi tiene tra le proprie braccia Blue Ivy.
<<Nobody wins when the family feuds>>. E proprio la famiglia, in tutte le sue forme, è il concetto polarizzante dell’intera seduta di terapia guidata da No I.D. a cui Shawn si sottopone. “Smile”, pulsante degli stessi battiti di “Love’s In Need Of Love Today” di Stevie Wonder, lo vede impegnato a spalancare l’armadio dei segreti con un flow che, a 47 anni suonati, rimanda a settembre buona parte dei pischelli che occupano a mesi alterni le copertine di XXL. Nella titletrack, capolavoro del produttore di Chicago che edifica un beat maestoso attorno ai vocalizzi Soul di Hannah Williams, Hova sveste definitivamente i panni dell’hustler spietato e scrive – 16 anni dopo! – l’epilogo di una confessione iniziata tra le righe di “Song Cry”. Le finezze linguistiche nell’attacco della seconda strofa della nostalgica “Marcy Me” sono invece un diretto omaggio al quartiere che l’ha visto crescere e formarsi come paroliere, mentre “Family Feud” mette in tavola gli scismi interni alla Cultura Hip-Hop, invitando vecchie e nuove generazioni a sedersi assieme.
E con “The Story Of O.J.” si va oltre. Premesso che ogni passo falso è vietato quando è la voce di Nina Simone – campionata nella sua celebre “Four Women” (summa cum laude per No I.D.) – a concederti il la, qui Jigga si fionda sulla questione razziale rispolverando tutto il proprio repertorio, dalla finezza della citazione nel refrain all’arguzia delle stilettate in baciata (<<y‘all out here still takin’ advances, huh?/Me and my niggas takin’ real chances, uh/y’all on the ‘Gram holdin’ money to your ear/there’s a disconnect, we don’t call that money over here>>). Niente apnee liriche o particolari acrobazie lessicali: lo svolgimento è semplice e lineare, ma in ciò si distingue la mano del Maestro. Ai giovani mc’s in erba: prendere appunti.
Accantonati del tutto lo sfarzo e la vanagloria che impregnavano fino all’ultimo ganglio “Magna Carta… Holy Grail” e “The Blueprint 3”, coi loro singoli pomposi e qualche sofisma lirico di troppo, Jay-Z riduce al minimo comun denominatore la forma del proprio Rap. Svolta inevitabile. Sbloccata quella pulsione interiore che l’ha spinto a vuotare il sacco in mondovisione, la scelta di confezionare il tutto in versi criptici e sibillini avrebbe rappresentato un inaccettabile passo indietro. Perché in fondo “4:44” non è proprio il tredicesimo disco di Jay-Z, quanto piuttosto il primo album di Shawn C. Carter. La sua, sì, è una vera life of Pablo; con le sue trials and tribulations ma per una volta – e qui sta la differenza – anche con un lieto fine.
Tracklist
Jay-Z – 4:44 (Roc Nation 2017)
- Kill Jay-Z
- The Story Of O.J.
- Smile [Feat. Gloria Carter]
- Caught Their Eyes [Feat. Frank Ocean]
- 4:44
- Family Feud [Feat. Beyoncé]
- Bam [Feat. Damian Marley]
- Moonlight
- Marcy Me
- Legacy
- Adnis (Bonus Track)
- Blue’s Freestyle/We Family (Bonus Track) [Feat. Blue Ivy Carter]
- MaNyfaCedGod (Bonus Track) [Feat. James Blake]
Beatz
- No I.D.: 1, 5, 6, 7, 9
- No I.D. with the co-production by Jay-Z: 2, 3, 4, 8, 10, 12
- James Blake with the additional production by No I.D.: 11
- Dominic Maker and James Blake with the additional production by No I.D.: 13
li9uidsnake
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