Vinnie Paz – All Are Guests In The House Of God

Voto: 4

Arriviamo leggermente lunghi rispetto alla tabella di marcia, ma eccoci qui, pronti a commentare l’oramai canonica uscita annuale di Vinnie Paz, a riconferma di una cadenza che il tempo ha provato di poter essere plasmata a nostro favore in una piacevole abitudine. The Sicilian Shooter pare infatti ancora distante dall’appendere i guantoni al chiodo, perseguendo nel deliziare la nutrita fanbase di una presenza che, nell’ultimo quadriennio, si è rivelata particolarmente svizzera. L’asserzione, come di consueto, giunge accompagnata da tutte le avvertenze del caso: parliamo pur sempre di una figura che mai si è interessata alle opinioni esterne, non intendendo snaturarsi o pervenire con manierismi che non si materializzino nella forma di un uno-due ben assestato alla mascella.

Avventurarsi nel reperire particolari novità in un’attitudine ben nota rappresenta dunque una conclamata perdita di tempo e risorse; tuttavia, se l’offerta continua a catalizzare questo tipo di interesse, nonostante non sia distinta da una particolare varietà, alcuni fondamenti debbono pur sussistere. A capo delle ragioni per le quali si è diffuso il pensiero che un anno di Rap non possa definirsi completo se privato del contributo del Pazmanian Devil, porremmo senza esiti quell’innata capacità di realizzare album d’alta categoria manifatturiera, senz’altro il più oggettivo degli argomenti di discussione, perché poi è chiaro che si debba fare un patto con l’attrattiva individuale che il personaggio emana grazie alla sua singolarità, più che sufficiente nel colmarne i limiti. Non sarà l’asso degno di una all-time top ten, potrà suscitare sensazioni differenti a seconda delle esigenze, ma lo inseriremmo a occhi chiusi in una qualsiasi Hall Of Fame del Rap, a corredo di un’aura sostanzialmente intoccabile nella reputazione grazie alla longeva militanza in quei tanti plotoni – a volte sciolti, a volte riassemblati con soldati magari diversi – che hanno lottato con lodevole fierezza contro l’Hip-Hop all’acqua di rose, contribuendo a fare dell’underground una sicura casa comune nella preservazione dei crismi più sacri della nostra amata artform.

All Are Guests In The House Of God” potrà pure rappresentare un nuovo capitolo della stessa storia, ma né in passato, né tantomeno oggi, con nove testimonianze soliste a fungere da controprova, viene meno quell’impellente necessità di inserire il nuovo arrivato nella collezione personale, perché in fin dei conti Vinnie Paz non ha mai deluso, tradito, voltato le spalle tanto a se stesso quanto a chi lo segue, ed è ancora capace di produrre un’ora di musica da gustare tutta d’un fiato, lasciando intatto quel senso di stupore. Ciò che risiede nelle velleità dell’italiano da Philadelphia sarà anche circoscritto a determinati confini, ma la sua chiave vincente è rappresentata esattamente da quella semplice sistematicità: ciò che fa, continua a farlo benissimo. Tutto il resto è una pura ed esclusiva questione di gusto soggettivo.

Vi sono pure degli aspetti secondari, ma ugualmente importanti, da considerare nella valutazione di quest’ultimo lavoro di casa Luvinieri. Anzitutto, si riscontra un ritorno a uno stato di sostanziale no-skip, aspetto che aveva lievemente pesato su alcuni dei giudizi che si possono ripescare sotto la lettera V del nostro repertorio alfabetico, un segno di maggior oculatezza nella pulizia del materiale in eccesso, sia per la minimale presenza di beat che non stanno al passo con gli altri, sia nella progredita selezione di contributi esterni, asciugati dai vari tirapiedi e arricchiti sempre più da un panorama che riunisce sotto lo stesso arcobaleno una positiva combinazione tra pilastri della golden age e alcuni tra i maggiori luminari lirici della scena odierna, altro elemento fisso – ma più funzionale rispetto a episodi del passato – nella costruzione del fascino che gravita sul prodotto finito.

Per il resto, si è sempre lì. Ma vi si rimane volentieri, se il risultato è pienamente confacente alle attese. Al di là di una struttura metrica a tratti migliore per come Vinnie utilizzi più spesso multiliner talvolta composte da un numero maggiore di sillabe combacianti, posizionandole nelle fodere della barra anziché accontentarsi del solito giochino collocato alla fine delle stesse, il fogliame dell’insalata tematica non è certo differente dalle altre raccolte. Superfluo dirlo, i riferimenti navigano verso un mare di citazioni mafiose, oniriche, religiose, sataniche, sanguinarie (le armi restano sempre indispensabili alla costituzione del menù giornaliero) e non di rado è necessario affidarsi alla barra di ricerca di Google per capirne di più, per quanto non sempre si trovi un senso concettuale chiaro, associando tali termini a un puro ingrossamento del senso di minaccia che i testi desiderano puntualmente trasmettere.

La differenza viene allora tracciata dall’atteggiamento inscalfibile (seppure permeato da una sempre percettibile e sottovalutata sensibilità: vedasi la splendida decisione di affidare al compianto Blacastan l’ultima strofa del disco), dall’inconfondibile raucedine della tonalità vocale, dalla presenza carismatica, nonché dal pieno controllo del viaggio, puntando sulla straordinaria efficienza produttiva – contiamo quattordici soldati e tuttavia l’album suona come un agglomerato unico – e su una diversificazione ambientale determinante, esemplificata tanto dall’innegabilmente prezioso contributo degli ospiti, quanto dalle puntatine Trap di “La Pulga” e “Swift Chancellor”, le quali si inseriscono adeguatamente in un contesto spiccatamente hardcore, risultando piacevoli.

Sarebbero tanti i passaggi da citare, proviamo a riassumerle in sintesi: potenti, come consuetudine vuole, i due singoli “Koresh Babylon” e “2000 Shot Barrage”, col primo a proporre una strumentale melodica, quasi sinistra nell’abbinamento all’inquietudine delle similitudini liriche, e il secondo a presentare una composizione di stampo più tradizionale ma comunque roccioso, consono a uno scritto che intreccia Marte e Salomone mentre omaggia Philly con gli shout-out (grandiosa, in particolare, la citazione dei C.E.B.). “Impaler” – tra le migliori scorribande dell’attore principale – e “Slow March To The Burial” costituiscono la prova di un’evidente crescita per Vic Grimes, che tira fuori finalmente la personalità per dare luogo a infettivi e squisiti montaggi di sample, godendo pure dell’assist di un incontenibile Ransom (<<I spill the blood right at Jesus and write with it/now every verse I utter got Christ in it>>); le elucubrazioni horror di Paz si concatenano molto bene alla vocalità intimidatoria di Timbo King sul piano sghembo di “Yemeni Telephone Number”, così come la tensione eretta in compagnia di Freeway nell’ottima “Oil Drums”. Buonissimo è altresì il paio di episodi procurato da Stu Bangas, in particolare “Peace Means Violence”, con quei violini ad affettare un’aria nella quale Saigon incastra rime di pregio senza nemmeno sforzarsi troppo; Danny Caiazzo estrae un campione fenomenale per “Balla Ejj”, con piano e cantato di sapore sudamericano; vincente è infine l’abbinamento con gli Smif-N-Wessun – in particolare quando il Generale fa scattare tutti sull’attenti – su una “Nero Caesar” allestita con flauti e canti religiosi, mentre Vinnie estrarre rime dal cassetto dei ricordi che riesumano pure la nostra di infanzia (<<Headshot and ya brain bleedin’/I’m comin’ with a giant like Bobby ‘The Brain’ Heenan>>).

Poco altro c’è da aggiungere mentre si certifica l’ennesimo knock-out tecnico sganciato dal riverito Vinnie Paz, se non un’ultima riflessione sul numero di colleghi capaci, oggigiorno, di confezionare in quattordici anni una traiettoria anche solo simile a questa – e ci limitiamo alla dimensione solista – per proporzione qualitativa e quantitativa. Nel caso non vi venisse in mente nessuno, sappiate che siamo in difficoltà anche noi. Chapeau.

Tracklist

Vinnie Paz – All Are Guests In The House Of God (Iron Tusk Music 2023)

  1. Drug Church
  2. Oil Drums [Feat. Freeway]
  3. Koresh Babylon
  4. The Jungle Is A Shapeshifter [Feat. Trxstworthy]
  5. 2000 Shot Barrage (Return Of Hell’s Messenger)
  6. Nero Caesar [Feat. Smif-N-Wessun]
  7. Impaler
  8. Swift Chancellor
  9. Slow March To The Burial [Feat. Ransom]
  10. Peace Means Violence [Feat. Saigon]
  11. Terry Funk Ain’t Wear No Mouthpiece
  12. Yemeni Telephone Number [Feat. Timbo King]
  13. Balla Ejj
  14. Beausoleil Wiretaps [Feat. Lord Goat and Ill Bill]
  15. Praise The Witch [Feat. Young Zee]
  16. La Pulga
  17. Valentino Dueling Gloves
  18. Murder Is An Artform [Feat. Tha God Fahim and Blacastan]

Beatz

  • K-Nite 13: 1
  • Leaf Dog: 2, 17
  • Giallo Point: 3
  • Wino Willy and Obscur8: 4
  • C-Lance: 5, 12, 18
  • Farmabeats: 6
  • Vic Grimes: 7, 9
  • Dj Dister: 8
  • Stu Bangas: 10, 11
  • Danny Caiazzo: 13
  • phDbeats: 14
  • Eyeke Tyson: 15
  • Young Bangas: 16

Scratch

  • Dj 7L: 7, 11
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