Intervista a Rico Herrera (02/03/2019)

Federico Herrera, producer e rapper pisano, è a nostro avviso una figura sottoesposta nel circuito dell’Hip-Hop italiano, titolare di una carriera caratterizzata da profonda coerenza e al tempo stesso enorme versatilità, considerati i differenti impegni in curriculum. In questi mesi è alle prese con la serie “Monthly medicine”, esempio cristallino di un talento forgiato con enorme cura, senza bruciare le tappe e facendo proprie le lezioni dei migliori beatmaker del passato. Abbiamo chiacchierato di questo e altro col diretto interessato…

Bra: cominciamo con un piccolo salto nel passato, dandoti così modo di presentarti come si deve ai lettori. Noi incrociamo il tuo nome per la prima volta grazie al gruppo I Maniaci Dei Dischi, quindi una quindicina di anni fa; raccontaci l’inizio del tuo percorso artistico e l’ingresso in una realtà così atipica – almeno al tempo – per il panorama nostrano.
Herrera: inizio ad avvicinarmi alla cultura Hip-Hop nei primi anni novanta e il primo impatto è col writing, essendo Pisa una città di writer. C’era una bella convention chiamata Panico Totale che ospitava anche figure di carattere internazionale e da ragazzino di undici/dodici anni sono rimasto subito colpito da ‘sta cosa che poi ho saputo chiamarsi Hip-Hop; scopro quindi tutte le varie robe, la breakdance e via dicendo, e da lì son partito. Ho sempre avuto la passione per la musica, ho suonato la batteria da piccolino, ascoltavo i dischi dei miei genitori e giravo nei negozi di vinili con mio fratello più grande; proprio incuriosito dalle copertine che vedevo ho comprato le mie prime cassette e i CD, ricordo in particolare “Down With The King” dei Run-DMC, avvicinandomi di conseguenza alla figura del dj e rendendomi conto che volevo fare proprio quello. Dopo un po’ sono riuscito a mettere assieme tutta l’attrezzatura e mi sono flashato per lo scratch e il turntablism, considerando che erano gli anni di Mix Master Mike e Q-Bert, ma fortunatamente faccio anche la conoscenza del Funk, influenzato magari da ragazzi più grandi di me perché Pisa è una città piccola e si riusciva a stare tutti assieme, dandoci consigli nei negozi e cose così. Per lo stesso motivo scopro anche la Drum’n’Bass – a proposito de I Maniaci Dei Dischi – e comincio a catturare e far mio tutto quello che vedevo in giro, trovando una mia strada. Coi Maniaci mi incrocio appunto per via dello scratch, essendo Fonx un amico dj pisano che mi ha coinvolto in questo progetto; è così che ho avuto modo di partecipare a un disco uscito per Right Tempo e in cui per la verità non è che io abbia fatto molto, essendo stato chiamato in causa soprattutto per le cose dal vivo. Però ero comunque con loro durante tutta la lavorazione e quindi di sicuro è stato un momento fondamentale del mio percorso.

B: la nostra Blema, recensendo “Hey presto!”, scriveva che si trattava di <<un Hip-Hop alla Ninja Tune>>. Era quello il vostro riferimento principale (o uno dei) e cosa rimane oggi nella tua musica di quell’esperienza?
H: rimane molto, perché ne ho ricavato un approccio trasversale. Noi uscivamo da anni di estremismi, diciamo così, che se da un lato avevano salvaguardato la Cultura, dall’altro avevano allontanato parte del pubblico. C’era un senso di stanchezza e si cercavano delle vie d’uscita, un suono di più facile lettura; e forse il Trip Hop, non essendoci i cantati, riusciva ad arrivare a un numero maggiore di persone. Era qualcosa di meno settoriale e si andava appunto dalla Ninja Tune alla Mo’ Wax, passando per varie robe inglesi. Anzi guarda, io spezzo proprio una lancia in favore di questo genere, perché fare dischi strumentali che non fossero House o Dance, prendi ad esempio Dj Krush o Dj Shadow, significa stare avanti, sperimentare cose che magari l’Hip-Hop in senso stretto ha scoperto dopo. Ci si è addentrati in percorsi nuovi, fermo restando che spesso si finisce col dare etichette solo perché occorre creare delle categorie di vendita.

B: sebbene il tuo modo d’intendere l’Hip-Hop sia abbastanza classico, influenzato dalla tradizione e da una certa idea di beatmaking, spazi infatti anche in altri territori – ad esempio l’anno scorso hai pubblicato “Uno EP”, che ha sonorità House. Per un produttore, quanto è importante avere un orecchio aperto e curioso verso la totalità della musica?
H: è basilare ascoltare di tutto, perché è semplicemente impossibile pensare di ascoltare solo due producer e poi riuscire a tirar fuori qualcosa di un minimo originale. E’ come per un musicista, che impiega tanto tempo per imparare a suonare il suo strumento: noi utilizziamo i campionatori e i dischi, quindi bisogna ascoltare molta musica e di diverso tipo. Per forza, non ce n’è.

B: a livello pratico, invece, come si svolge la tua attività di beatmaker e quali macchine utilizzi, dal sampling al risultato finito?
H: classici piatti Technics, mixer Vestax, qualche preamplificatore valvolare per scaldare i sample, poi i classici Akai, ho un 3000, un 2000XL, un 2500, un campionatore a tastiera Ensoniq, ovviamente ho anche vari synth; da un po’ di tempo, però, ho scelto come macchina principale l’MPC 3000. Per anni e a seconda della tipologia di Hip-Hop che facevo sono partito dal vinile per i sample e ho usato qualche tastiera per i bassi, ora che faccio anche altro – House o Dance – e mi capita di lavorare con altre etichette in maniera più professionale ho incrementato l’uso delle tastiere, infatti ho iniziato a prendere delle lezioni per i synth e a volte campiono i miei accordi. Non posso dire di saper suonare, però ho voluto colmare qualche lacuna sulla teoria musicale.

B: chiuso il capitolo Maniaci, ti ritroviamo al fianco dei Sangue Mostro e di Musteeno, ma la tua non è mai stata un’iperpresenza; diciamo che ti sei dosato abbastanza. Come mai? Scelta o necessità?
H: nessuna delle due. Diciamo che questo mondo non è che paghi molto a livello monetario, purtroppo il panorama underground in Italia non ha un vero indotto, un’industria, mancano promoter e discografici, ci sono piccole realtà che fanno uscire cose quasi a livello familiare e con investimenti il più delle volte bassi; quindi mi son buttato più sui dj set, i corsi per dj, ho un piccolo studio in casa dove mixo e registro prodotti di artisti locali. Di conseguenza uscivano meno produzioni perché ero preso da queste cose.

B: la tua carriera solista fa un salto definitivo con la pubblicazione di “Buongiorno EP”, che per la prima volta ti vede ugualmente impegnato ai pad e al microfono. Il luogo comune oggi è quello del rapper che arriva al disco ufficiale senza la necessaria gavetta, tu invece hai atteso tempi piuttosto lunghi; cosa ti ha spinto in questa direzione e, soprattutto, ti ripeterai?
H: diciamo che già con quest’ultimo lavoro assieme a FFiume e Speaker Cenzou (si riferisce a “Monthly medicine #2 – Musica leggera”, ndBra) ci sono delle tracce in cui torno a rappare. In generale ho sempre fatto freestyle con gli amici e scritto cose per divertimento, perciò sono arrivato a un punto in cui mi sono detto sai che c’è? Le robe funzionano, la musica ce l’ho, butto fuori qualcosa senza tante pretese; abbiamo girato un video e in effetti da lì la cosa è andata bene, ho anche portato l’EP in giro con qualche data. A livello temporale, credo che per la nostra generazione (Herrera è un classe ’83, ndBra) andasse tutto più lentamente, si viveva molto l’Hip-Hop per strada e nelle situazioni vere, quindi è possibile che persone come me prima di pubblicare qualcosa abbiano fatto serate per anni e suonato anche tre volte a settimana. Oggi è il contrario, c’è chi senza aver mai fatto un live ha già le sue quattro/cinque canzoni su Spotify, poi arrivano sul palco e tremano di paura… Non voglio fare quello vecchio che dice male del presente, però credo che in passato ci fosse maggiore contatto umano; magari ti faceva perdere del tempo, ma c’era meno superficialità nelle cose.

B: l’EP usciva per Medicine Records, la tua label con cui – venendo al presente – proponi anche la serie in capitoli “Monthly medicine”. Qual è l’idea dietro questo progetto?
H: l’idea è già nel nome. Medicine Records: una roba che fa star bene anzitutto me, una medicina e una valvola di sfogo, ma anche una cura verso l’esterno, perché voglio proporre qualcosa che faccia star bene tutti. Il senso è questo, una medicina buona. L’esigenza, come ti dicevo prima, arriva dall’assenza di label che vogliono investire in promozione; lanciano le cose sui siti di streaming e basta. La situazione, per le cose più di nicchia, è disastrosa, ragion per cui ho deciso di fare per conto mio, avvalendomi comunque di un ufficio stampa e di ragazzi bravi a girare video coi mezzi che hanno. Con un taglio professionale, ma anche la libertà di buttare fuori un beat domani se ne ho voglia, senza aspettare tempi biblici o dar conto a qualcuno.
B: non è un caso l’attenzione che rivolgete al collezionista, con edizioni limitate e formati che vanno dal vinile alla cassetta.
H: esatto. Considera che la nostra prima uscita è una raccolta di beat in vinile e per il futuro vorrei riuscire a fare dei 45 giri. Dove il mercato è piccolo, bisogna puntare su prodotti fatti in un certo modo.

B: i primi due volumi di “Monthly medicine” sono con Dope One, FFiume e il featuring di Speaker Cenzou, coi quali hai evidenti affinità nell’approccio all’Hip-Hop. Raccontaci la lavorazione di entrambe le uscite.
H: allora, con Cenzou ci siamo conosciuti negli anni dei Sangue Mostro, perché durante una gara a Bologna conobbi OLuWong e 2Phast, i quali gli parlarono di me e ci misero in contatto; da lì sono nate amicizia e collaborazioni. Con Ivan (Dope One, ndBra) abbiamo invece condiviso diversi palchi perché gli avevo organizzato alcune date in Toscana e lo accompagnavo ai piatti; in quei giorni, magari la mattina dopo i live, si ascoltavano un po’ di produzioni e i pezzi dell’EP sono nati così. Con FFiume, infine, ci siamo avvicinati perché io sono sempre stato un suo grande fan, gli scrissi per una serata che poi non riuscimmo a fare e rimanemmo in contatto, anche ascoltando l’uno la musica dell’altro; inevitabilmente ci siamo detti vediamoci! e lui è venuto diverse volte da me, siamo andati in giro a comprare dischi e in maniera molto naturale abbiamo registrato quei pezzi lì. C’è sempre stata stima reciproca, avendo FFiume la mia stessa visione su questi temi, è molto attento al Funk, al Jazz, ha la passione del diggin’… Se c’è affinità, anche vivendo lontani, prima o poi ti incontri.

B: per “Musica leggera”, in particolare, avete previsto anche un accurato lavoro sul fronte dei visual, con tre video già fuori. Come mai questa scelta?
H: perché ormai è così che funziona, uno intanto pigia e poi ascolta. Purtroppo siamo arrivati in una fase in cui perfino le vendite digitali sono calate, in favore dello streaming diretto; c’è grande difficoltà e forse il video limita un po’ il problema.
B: e i vostri video sono molto coerenti con la proposta musicale, campionando a loro volta delle immagini.
H: è proprio quella l’idea. Abbiamo dei nostri amici tra Londra e l’Italia che ci danno una mano in questo senso e devo dire che sono bravissimi a cogliere lo spirito dei pezzi.

B: la serie proseguirà con un beat tape dedicato ad Ahmad Jamal, una selezione di remix e un mix Jazz. I volumi complessivi saranno cinque o più?
H: sono uno al mese per un anno, quindi dodici. Per ora avevo già pronte le grafiche di questi cinque e quindi le ho messe online, essendo tra l’altro i primi progetti che mi sono venuti in mente. Ti spiego: ho l’hard disk pieno di roba, dedico diverse ore al giorno alla produzione e a un certo punto mi sono detto ora le devo mettere fuori; perciò, una volta al mese, tutte le cose valide usciranno, magari anche quelle che non ho ancora programmato o assemblato bene.
B: quindi è anche difficile darci delle anticipazioni…
H: eh sì. Posso dirti che per l’uscita con i remix ci saranno delle cose con Pezzone, forse con Giorno Giovanna aka Callister che sta tirando fuori delle robe cattivissime e sicuramente dei pezzi di FFiume, dovrei chiudere tutto nelle prossime settimane. Mancano solo delle finalizzazioni e cose così. Il beat tape di marzo invece è già pronto.

B: toglici una curiosità. “Monthly medicine” omaggia in qualche modo il “Madlib Medicine Show”?
H: sì, diciamo che è molto ispirato a quella roba lì. Anche perché Madlib è senza dubbio una delle mie fonti d’ispirazione più grandi, da inizio duemila in avanti ha dato una ventata di freschezza al beatmaking; lui come J Dilla.

B: a proposito di grandi produttori, la tua esperienza comincia a formarsi nella seconda metà degli anni novanta; quali erano i tuoi produttori di riferimento allora e quali lo sono oggi?
H: nella metà degli anni novanta mi avvicino all’Hip-Hop, quindi non è che fossi già così attento ai singoli produttori. Rivedendo col senno di poi quello che ascoltavo, ti direi sicuramente Jam Master Jay, Pete Rock, Lord Finesse… La New York più classica, insomma. Dal duemila in poi, invece, ho ascoltato tutto, praticamente tutto; da Hi-Tek a J Dilla, poi tutta quell’ondata nuova che ha ridato vita all’Hip-Hop. Personalmente – ed è una cosa che ho ritrovato anche nelle persone con cui ho collaborato – non mi sono mai fermato al mito, al produttore di riferimento; c’è sempre stato un discorso di ricerca, di esplorazione. Le tue preferenze te le fai, è chiaro, ma devi addentrarti più che puoi.

B: spazio libero per te. Dicci pure tutto quello che non ti abbiamo chiesto.
H: mi sembra ci siamo detti tutto, dai. Aggiungo solo che in parallelo alle cose di cui abbiamo parlato uscirò anche con delle etichette non italiane per delle produzioni House.

Il resto – commenti, ricordi e riflessioni sparse tra appassionati di Hip-Hop – esula dai temi dell’intervista e pertanto rimane off the record; salvo un consiglio che Rico indirizza direttamente alle giovani leve: metteteci del vostro, non copiate le cose mainstream solo perché vanno ma trovate una strada che sia vostra. E non possiamo che essere d’accordo con lui.