Intervista a Meets Vision Art (21/06/2016)

“B:eat! Show me your skills” è un format video a puntate sul beatmaking che guarda sia al passato che al futuro, interagendo con le location scelte per ogni clip. L’obiettivo, grazie all’improvvisazione, è quello di creare una sinergia tra musica, ambiente e tecnologia; l’idea nasce da due realtà differenti, MVAsounds e Televisione Pirata, la prima dedicata alle correlazioni tra musica ed arte, la seconda nata come web TV. Ne abbiamo parlato con Andrea Pilloni, che vive e lavora tra Milano e Verona ma è originario di Sanluri (in provincia di Cagliari), volto e mani dei tre episodi di “B:eat!” pubblicati fino ad ora…

Bra: cominciamo a fare un po’ d’ordine attorno al progetto Meets Vision Art. Raccontaci quando e come nasce e se rappresenta esclusivamente te o va inteso come un piccolo collettivo.
Meets Vision Art: il progetto nasce tempo fa con l’intento di narrare delle storie e superare i limiti imposti dal classico beatmaking legato all’arte del Rap. Tendenza oggi piuttosto diffusa, considerando che sono decisamente numerose le uscite di album strumentali anche di produttori affermati come Big Joe nel panorama nostrano o RJD2 in quello internazionale. L’obiettivo era questo, fare un passo in avanti ed utilizzare la produzione musicale per raccontare qualcosa, poi però l’esperimento ha visto ben presto partecipare numerose figure e già in “Portfolio” erano presenti un attore, un pianista e un chitarrista, c’era molta più composizione e si iniziava anche ad abbinare un’immagine video alla musica…
B: …non a caso ti chiami Meets Vision Art fin da principio.
MVA: sì, infatti il nome può trarre in inganno e c’è chi crede che io faccia video. In realtà è solo un riferimento alle storie di cui ti dicevo, che non sono necessariamente presenti: è un film che puoi immaginare servendoti della musica. Sono cresciuto ascoltando spesso la musica di notte e con determinati brani notavo un coinvolgimento maggiore, ecco perché l’utilizzo delle parole è stato limitato: volevo dare pochi riferimenti e premere sull’aspetto onirico.

B: noi di RapManiacZ abbiamo avuto il piacere di ascoltare uno dei tuoi primi demo, “12 minutes”, e poi proprio l’album “Portfolio”, ma in realtà vanti un numero di esperienze molto variegato. Quali sono i momenti più importanti del percorso che ti porta fino a “B:eat!”, di cui parleremo in seguito?
MVA: le tappe iniziali sono appunto quelle due. In seguito partecipo al festival internazionale Global Futur all’interno dell’installazione Allunaggio Morbido, per la quale ebbi il compito di creare un percorso musicale che facesse da collante tra la video arte dello scozzese Louis Benassi e la pittura dell’inglese Duncan Swann, creando così un unico linguaggio simultaneo tra pittura, fotografia, musica e video. Nel 2010 inizio a collaborare con una compagnia teatrale di Milano per le musiche di uno spettacolo chiamato “Autòs, spazi sottolineati”, da cui nasce anche un piccolo tour in Italia e Svizzera, esperienza che ha implicato un periodo di sperimentazione e una ricerca musicale esasperata incentrata sulle avanguardie contemporanee: sintesi, microfoni a contatto, live performance, tutti suoni originali creati ad hoc per lo spettacolo. Poi c’è la lavorazione di “Six stories about autism”, che ha coinvolto un team decisamente allargato: registi teatrali e cinematografici, danzatrici, musicisti, audio engineers, fotografi e pittori, influenzando tutta la ricerca che ha portato all’album.

B: come beatmaker ti sposti con una certa disinvoltura dal Funk all’Elettronica, dall’analogico al digitale; quanto ti senti legato alla cultura Hip-Hop e come definiresti il tuo genere?
MVA: la cultura Hip-Hop è molto presente in ciò che faccio, perché di musica a quattordici anni ne ascoltavo già tanta ma solo l’Hip-Hop mi ha formato in tutto e per tutto. Da qui nasce la passione per il diggin’ e la ricerca, la conoscenza che mi guida in ogni circostanza, e la tendenza ad utilizzare i campioni; cosa che per molti musicisti può sembrare quasi blasfema – soprattutto ai tempi, oggi anche al conservatorio si studia l’arte del sampling – e che per me fu invece una scoperta potentissima, perché assieme a generi e culture come il Punk dava voce a chi non per forza aveva imparato a comunicare le proprie emozioni attraverso la musica. Chi aveva un messaggio da esprimere, finalmente poteva farlo con poco. In questo modo di fare ho ritrovato il vero fulcro della musica, che spesso non si trova nei grandi studi o nei conservatori, perché alla fine conta ciò che hai da dire e non quello che studi…
B: …di che periodo parliamo?
MVA: ‘95/’96, piena golden age. Ricordo quegli anni con un romanticismo incredibile. Si era veramente in pochi e chiunque portasse un pantalone largo lo guardavi un po’ come a dire quindi anche tu sai? E niente, comincio a conoscere molta musica e fare ricerche, libri di filosofia e pochi libri di scuola, mi chiedevo come cazzo si fa ‘sta roba incredibile? E allora comincio a campionare di tutto, passavo le giornate così e ne viene subito fuori un progetto fuori di testa, che suonava Industrial ma sui quattro quarti Hip-Hop. Ho fatto persino dei brani utilizzando i suoni del sistema operativo Windows 95.

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B: che macchine usi e come le abbini alle diverse fasi produttive?
MVA: non amo circoscrivere la ricerca musicale all’uso di una macchina piuttosto che un’altra. Facendo il sound designer e il tecnico del suono ho sempre ben in mente il suono che voglio raggiungere, le macchine, i software e i microfoni li vedo semplicemente come dei colori differenti che mi aiutano a creare un disegno completo. E l’esperienza di Meets Vision Art non esaurisce il mio percorso musicale – ho lavorato in vari spettacoli teatrali, ho fatto videoclip, musiche per spot, cortometraggi, etc. Semplicemente, io approccio la composizione musicale in questa maniera: attraverso dei lunghi periodi di ricerca in cui qualcosa mi attrae, scavo qui e là, individuo i suoni, capisco il work flow produttivo, lo faccio mio e lo esprimo coi miei mezzi. “Six stories about autism”, ad esempio, è venuto così perché in quel periodo stavo cercando di capire come creare tutti i suoni da me, anche perché i software oramai erano sempre quelli e tutte le robe mi sembravano uguali. In “B:eat!”, invece, ho sentito la necessità di fare qualcosa di più immediato: portare il diggin’ a uno stadio superiore, fare un live con l’armamentario con cui si compone la musica Hip-Hop. Quindi sampler e giradischi per portare una performance altrimenti vista in camera e in studio.

B: “B:eat!” inquadra appunto il beatmaking da un angolo insolito e lo colloca al di fuori dei soliti ambienti, un po’ “Rhythm Roulette” e un po’ video installazione. Come hai sviluppato il concept e a quale pubblico intendi rivolgerti?
MVA: sul pubblico ti dico subito che non è qualcosa su cui rifletto. Nella prospettiva del marketing bisogna farlo, è vero, ma quando si crea qualcosa non si veicola già un progetto – o almeno per me vale così. Non ci penso e ho la possibilità di provare soluzioni nuove. Riguardo al concept, preso in mano l’SP-404 della Roland ho scoperto di poter abbinare un tape delay a dei beat e far interagire le varie sorgenti che andavano – giradischi, walkman, microfono a contatto – dando sfogo sul momento a dei pad lunghi; un viaggio! Che è importante in un territorio come quello Hip-Hop, perché spesso si è schiavi del quattro quarti e non lo si usa in senso narrativo.

B: nel primo episodio sei al mercatino dell’antiquariato di San Zeno, a Verona, e poi su un muretto dove realizzi un beat. L’Hip-Hop si può fare proprio dovunque?
MVA: c’è un antefatto. I ragazzi di Televisione Pirata venivano spesso in studio da me a Verona, collaboravamo alle serate Shame. Mentre improvvisavo col setup base, SP e Handy Trax, abbiamo parlato di dischi e mercatini. Gli ho detto che andavo spesso lì con il giradischi a rompere i coglioni; bene, tutti a dormire a casa mia e la mattina dopo abbiamo girato “Diggin’ in Verona”!
B: cotto e mangiato?
MVA: sì, infatti le immagini sono grezze, mosse… E’ uscito benissimo e da lì abbiamo pensato a un nome, abbiamo chiamato un amico grafico (big up Steve Zanetti!) che ha avuto l’idea dei pad e i potenziometri per il logo, abbiamo riunito tutte le idee. Tornando alla domanda, il concetto è proprio quello di portare l’Hip-Hop in giro per la città, provare a vedere cosa succede interagendo con l’ambiente circostante. La gente non l’abbiamo ripresa ma tutti si giravano, guardavano, non capivano, si chiedevano cosa fosse. Oltre al fatto che ci piaceva mettere in luce angoli di Verona molto belli.

B: nel secondo il fruscio in sottofondo non è un vinile ma la tua barba, le distorsioni sono i fischi di un altoparlante e la cassa è un colpetto sul braccio…
MVA: sì, “Homework dub” è un po’ il frutto di tutti quegli esperimenti di cui ti dicevo prima. Mi serve un suono, una cassa, ho il microfono a contatto e allora me la faccio; e il fruscio del vinile come posso ricrearlo? Sono andato per tentativi, è l’attitudine del rumorista nel mondo del cinema.

B: nel terzo mischi una batteria Jazz, fiati, numerosi effetti e delle percussioni quasi Disco; sei su un terrazzo ma sembra stia per cominciare una jam…
MVA: esatto. Ecco, lì è stato esaltato l’aspetto live vero e proprio: nei primi due abbiamo sfarfallato, vaneggiato, ma poi – quagliando – si suona o non si suona ‘sta merda? E il frutto del percorso è tutto lì, ora sono pronto per esibire live la mia musica…
B: …perciò prevedi uno spettacolo live legato a “B:eat!”?
MVA: sì, ho un live pronto e avrei dovuto esibirmi per la prima all’interno della manifestazione Verona Risuona, però un’operazione alla spalla mi ha impedito di esserci.

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B: le strumentali che ascoltiamo in “B:eat!” verranno raccolte in un disco?
MVA: ho un progetto chiuso – ti do un’anticipazione – e realizzato con le stesse tecniche di “B:eat!”. I miei strumenti sono cilum, giradischi, testine…SP-404, walkman e dei microfoni a contatto; poi piano piano sto rendendo più complesso il setup aggiungendo CDJ ed altro. Saranno radunati diversi beat e molti pad lunghi, realizzati per scelta con mezzi scarsi e di riciclo, creando un approccio che diciamo è lo step successivo al classico sampling e al chop dei campioni.

B: e ci sarà un quarto episodio di “B:eat!”?
MVA: lo stiamo valutando, ma per l’estate ci fermiamo un attimo. In questo momento sto terminando la scelta dei beat da inserire nel progetto di cui dicevo.

B: non ti abbiamo mai visto al fianco di un mc o di un gruppo. Sei e desideri rimanere lontano dalle dinamiche della scena Hip-Hop italiana o hai qualche novità anche in questo senso?
MVA: in realtà ho anche rappato e quando avevo 18 anni ho aperto al Transilvania di Cagliari per Kaos One, Moddi e Trix… Avevo un progetto con un altro ragazzo, qualche pezzo registrato, poi lui si è tirato indietro e in sostanza ho tante cose scritte ma sono andato avanti solo come produttore. Due miei beat sono in un album di un gruppo sardo che si chiama Blatha Fam, erano Riky e Rabi e il primo è poi uscito per Machete con “Everest”. Di recente ho consegnato una serie di beat a un rapper di una crew abbastanza famosa del sassarese – ma per ora non posso dire di più.
B: mi dai lo spunto per chiederti come valuti la scena sarda…
MVA: ne vado orgoglioso. A partire dalla Machete, che ha portato con sé un’aria di freschezza, fino a realtà come quelle Techno, con Claudio PRC e Dusty Kid, o Reggae, con i Train To Roots che hanno oramai oltrepassato i confini nazionali. Per come la vedo io, la Sardegna è un’ottima culla per l’arte e per la musica: qui il tempo scorre un po’ più lentamente, non c’è la frenesia delle metropoli, nascono collaborazioni e ci si incontra. Studiamo tanto, ci prepariamo, si crea tanta arte e con internet ora si riesce ad arrivare anche lontano. Ecco perché poi emergono personaggi come Salmo, che tutti acclamano oggi ma ti posso assicurare che la prima volta in cui lo vidi con gli Skasico al Fabrik di Cagliari – intorno al 2005 – già lasciava percepire un approccio differente, era già proiettato nel futuro.

B: consigliaci tre dischi che bisogna per forza avere, senza limiti di genere.
MVA: ardua…troppo complicato…cazzo… (riflette e risponde con molta lentezza, ndBra) Allora, così su due piedi “Canzoni dell’appartamento” di Morgan…facciamo “A Raver’s Diary” di Dusty Kid…tutte cose, come vedi, con uno storytelling molto forte…infine “Since We Last Spoke” di RJD2.

B: se non ti ho chiesto qualcosa che ci tenevi a dire, fai pure.
MVA: due considerazioni cui tengo. La prima: Meets Vision Art nasce, come detto, come un luogo per radunare più figure artistiche il cui obiettivo è di farsi influenzare reciprocamente. La seconda: Meets Vision Art fa ora parte di un’etichetta, MVAsounds, che ha assunto questa filosofia per pubblicare materiale senza limiti di sorta e a breve verranno annunciate nuove uscite.

…a me non resta che ringraziare Andrea/MVA e suggerirvi di guardare tutti e tre gli episodi di “B:eat!” qui di seguito.