Intervista a Sgravo (29/09/2018)

Due veloci premesse. A Roma l’Hip-Hop è vivo – eccome; e Sgravo è un vero e proprio fiume in piena. Occorre tenere a mente entrambe accostandosi all’intervista che abbiamo avuto il piacere di realizzare con l’mc, il quale ci ha raccontato di “Tatanka” e di molto altro con una spontaneità dirompente, come state appunto per leggere…

Bra: considerato che sei un classe ‘84 e “Tatanka” è di fatto il tuo primo progetto ufficiale da solista, mi sembra sensato fare un excursus delle tue esperienze pregresse – che sono davvero tante. In particolare, cominciamo a familiarizzare col tuo nome quando, con Master Joke e Joe Manetta, formi i Carbonara Team, gruppo col quale ti sei esibito principalmente a Roma. Raccontaci di quel periodo e dell’energia che si respirava negli ambienti underground.
Sgravo: se respirava n’sacco d’aria bòna, fratè! Era veramente bello, poi sarà pure il gusto delle prime volte, la cosa dell’ambiente nuovo, considerato che l’Hip-Hop magari non aveva ancora tutta l’utenza che ha oggi, ma quando siamo entrati dentro questa cosa è stato tipo oddio ma davvero esiste ‘sta roba?! E’ stato amore subito. Io e Master Joke abbiamo cominciato nel 2004 circa, ballavo, dipingevo e c’era già quest’amicizia forte con lui, che mi ha fatto scoprire tantissime cose tra cui il Rap. Diciamo anzi che ci siamo ritrovati proprio grazie all’Hip-Hop, perché durante l’adolescenza per le varie cose della vita avevamo un po’ perso i contatti, poi ci siamo ribeccati, ci siamo avvicinati di nuovo, abbiamo cominciato a fare le serate in yard e tutte queste situazioni qua. Inevitabilmente è cominciata anche ‘sta cosa del Rap, perché io avevo bisogno di parlare, di dire la mia, de rompe er cazzo. In quel periodo ero assistente di rete per i non vedenti con l’Unione Italiana Ciechi e con me lavorava Joe Manetta, ci siamo beccati subito: lui mi fa un freestyle su Jessica Rizzo, io ho fatto il beatbox e lì mi sono detto devo farlo pure io. Ho cominciato a provare, andavo a lavoro coi mezzi e scrivevo – tipo Eminem… – tirando fuori tutte le cose che avevo dentro, convertendole in energia positiva, analizzandole e di conseguenza crescendo come persona, perché se scrivi le cose che vivi, le cose che t’hanno cambiato, rappresenti te stesso all’interno di quelle che sono dinamiche universali, permettendo a ognuno di abbracciarle. Cose in cui chiunque può rispecchiarsi. Ecco, il messaggio del Rap e la potenza della scrittura mi hanno affascinato e ci sono andato sotto. Da lì ci siamo ritrovati tutti e tre e abbiamo deciso di formare i Carbonara Team, che nonostante i mezzi limitati hanno avuto il loro momento di esplosione; conta che un blog – Rapgeneration – dopo un anno che avevamo fatto uscire “Tutte a 90!!!”, il nostro primo progetto, mise il disco in free download e nel giro di ventiquattr’ore facemmo più di mille download: io sentivo i pischelli che passavano e cantavano i pezzi nostri, quindi abbiamo capito dove effettivamente poteva portarci un mezzo come internet. Poco dopo siamo venuti in contatto con una realtà di Spinaceto (zona a sud del Grande Raccordo Anulare, ndBra) che si chiamava 29 Crew, amici di Manetta, e la cosa crebbe fino a diventare un collettivo, una trentina di persone, una roba bellissima; e un loro gruppo – DueNoveLeve, ovvero tali Er Boh! e Virus – aveva ‘sto dj che si chiamava FastCut. Con Valerio ci siamo subito presi e sono partite le collaborazioni, i live e l’amicizia, è stato un bel periodo; poi una sera, a un live al centro sociale Auro e Marco di Spinaceto, in mezzo a tutto il casino della serata qualcuno se n’è uscito dicendo che avevo gridato al microfono daje troie: capirai il casino che è partito! Il fatto è che io non avevo detto niente, era successo che i DueNoveLeve s’erano stancati di farci da spalla, che la gente aveva cominciato a identificare i 29 Crew coi Carbonara Team e ‘sta cosa qualcuno non la digeriva, perciò hanno piantato un gran casino. Morale: FastCut li molla, si unisce a noi ed è l’inizio della fine…perché eravamo proprio quattro animali! Facciamo serate, ci facciamo conoscere sempre di più e la prima esperienza grossa è il Da Bomb: facemmo la selezione e arrivammo primi classificati, guadagnandoci l’esibizione all’interno dell’evento. Le cose cominciavano a farsi serie.

B: il secondo step fondamentale della tua carriera, per quanto transitorio, è l’ingresso ne Gli Inquilini. Quanto sei cresciuto, artisticamente parlando, affiancando una realtà che forse per la prima volta ti dava un certo tipo di visibilità?
S: Gli Inquilini avevano aperto un’etichetta, la Street Label Records – grosso modo era il periodo in cui Lord Madness e Kento erano usciti dal gruppo; poco dopo quel Da Bomb ci propongono un contratto come Carbonara Team e cambia tutto: dovevamo andare in studio, seguire le produzioni, crescere nell’utilizzo della voce (abbiamo avuto degli insegnanti di canto per imparare a utilizzare il diaframma) e succede che Joe Manetta non riesce a star dietro a questa cosa. Considera che al tempo io lavoravo in aeroporto, andavo la mattina alle sei, staccavo e andavo in studio fino alle due di notte: non sono ritmi facili. Lui quindi esce dal gruppo e pubblichiamo “Gioventù bruciata”, altro momento veramente figo perché eravamo nei negozi con distribuzione Self, un obiettivo importante. Dopo un paio di mesi, però, Master Joke scapoccia, decide di andarsene a New York e l’album so semo dati forte e chiaro n’faccia, perché non abbiamo potuto fare promozione; di nuovo, allora, io e FastCut ci chiudiamo in studio per un lavoro nostro, dodici pezzi che purtroppo non vedranno mai la luce – e non so nemmeno che fine abbiano fatto i provini – perché veniamo assorbiti da Gli Inquilini: esce “4”, abbiamo un ufficio stampa serio, facciamo le presentazioni dentro le FNAC, i live… E questa volta è Valerio che sbrocca; diciamo che non s’era creata una vera e proprio fusione e noi due ci sentivamo come una realtà a sé all’interno del gruppo. Ricominciamo da zero, indipendenti, ma nel frattempo il mercato era cambiato, i vari Canesecco, Gemitaiz, Suarez – quelli con cui eravamo cresciuti: c’era un locale, Il Paese dei Mostri a Ciampino, dove facevamo una serie di jam – erano entrati in un contesto più grande e noi avevamo bisogno di tornare nel giro. Ripartiamo da “Luna pork”, un mixtape su strumentali edite, e un anno dopo realizziamo “Stato brado”.

B: ovvero siamo al recente passato, quando con Dj FastCut e Devim Beatz dai vita al trio Guastaf3st3.
S: sì, anche se la formazione è cambiata nel tempo. Valerio aveva sgamato ‘sto pischelletto che andava in giro con l’MPC e l’abbiamo coinvolto nel progetto Guastaf3st3, che un po’ anticipava certe cose fatte con la Dubstep: avevamo un cuore molto classico e qualche influenza più Elettronica. In realtà Devim, che voleva fare altre cose, esce presto dal gruppo e già in “Lovell house pt. I” non c’è. Valerio intanto aveva ripreso a fare beat ed era anche – come sempre – alla ricerca di talenti, sentiamo ‘sto Mr. Mine su un pezzo di Brasca (era il tempo della Grimlock Records, nuova entità in cui c’erano Madness, Luci Soffuse, Barracruda) e ci sembra subito qualcosa che sta bene col mio Rap, nonostante la grossa differenza d’età – infatti la cosa è durata solo per le due parti di “Lovell house”. Tra l’altro quello è stato uno dei periodi più belli della mia vita, perché ho preso casa con Valerio e facevamo musica h24. Di lì a poco entriamo anche in Glory Hole: succede a una serata a Perugia nel 2015, c’erano Lord Madness, Brain, Claver e ovviamente Gaz, cui piacque molto il nostro live; ci fa una proposta, troviamo la quadra e nasce l’amore tra noi e l’etichetta, che – sembra un modo di dire ma non lo è – funziona proprio come una grande famiglia.
B: forse è anche per questo che in pochi anni rilasciate molta musica. E a impressionare è in particolare “Lovell house pt. II – Da collabo”, uscita densa di partecipazioni (anche internazionali: ci sono Shabaam Sahdeeq, Kyo Itachi, Majik Most), nonché celebrativa di uno spirito che affonda nel valore della condivisione. Quanto lavoro ha richiesto quest’ultima prova?
S: abbiamo fatto “Da collabo” proprio per questo motivo, perché non c’era connessione tra noi e il resto del mondo. Allora Valerio – detto public relations – ha messo in moto tutta ‘sta rete devastante di contatti e tiriamo fuori un disco enorme con ben novantadue collaborazioni tra mc’s e produttori. E’ stato un lavoro davvero grosso, ci sono voluti quasi tre anni per farlo, mettere assieme tutte quelle capocce, farsi mandare le registrazioni, distribuire bene le partecipazioni, mixare, editare… E’ stato un suicidio e stai sicuro che non lo faremo mai più! O almeno io non lo farò, dato che Valerio ancora continua con “Dead poets”…

B: più o meno in contemporanea pubblichi il mixtape “The Italian bull mastiff vol. 1”, avviandoti così alla fase solista.
S: e non è un fatto casuale, nel senso che dopo “Lovell house pt. II” non ero ispirato a relazionarmi con nessun altro. Io sono uno di compagnia, però quando devo fare il Rap non voglio scendere a compromessi e più collabori più devi farlo, non riuscendo a esprimere al 100% il concetto che hai in testa. “The Italian bull mastiff” è infatti molto di cuore e di rabbia, poco riflessivo e tanto descrittivo.

B: arriviamo quindi a “Tatanka”. Quanto tempo ti è occorso per realizzarlo e da quale bisogno personale nasce il disco?
S: “Tatanka” è una presa di coscienza. Per me la musica ha sempre dovuto avere un messaggio, però a un certo punto ho cominciato a farmi domande su quale dovesse essere il messaggio giusto da dare. La risposta è che io voglio cambiare il mondo. Nel senso: non mi metto su un piedistallo e ti dico fai come me, però il mondo è fatto di persone e le persone possono cambiare, si lasciano influenzare (in positivo come in negativo), io provo a dargli questa possibilità con la musica, attraverso dei mantra, qualcosa che ti entra in testa e diventa un tuo modo di fare nella vita. Con “Tatanka” ho voluto mettere in musica dei mantra motivazionali, darti quella parte di lucidità che ti manca quando sei emotivamente distrutto, quel qualcosa che ti permette di andare avanti. “Tatanka” è il rovescio della medaglia, è un monito per dirti di non guardare solo a ciò che perdi ma anche a quello che hai avuto: ti renderai conto di quanto sei stato fortunato. Niente nella vita resta sempre uguale a sé, non dobbiamo sentirci sempre così legati alle nostre piccolezze e se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo cominciare da noi stessi.
B: e perché proprio tatanka?
S: è lo spirito guida indiano, in lingua nativa si direbbe wakan tanka. Io ho origini indiane, da pelle rossa, dalla parte di mio padre; è per quello che in “Effetto sorpresa” dico <<fossi nato in una tribù navajo avrei vissuto la morte come una transizione di stato/e invece me la pijo ‘nder culo co la cultura occidentale, che insegna a affrontà i lutti sotto medicinale>>. E ritorna quello che ti dicevo a proposito della presa di coscienza, perché in “Tatanka” non è che io dica per forza qualcosa di nuovo, però cerco di ricordare alle persone che occorre avere consapevolezza di quello che siamo e di quello che possiamo fare, smettendola di ispirarci a modelli davvero terra terra. Dovremmo invece guardare a chi ha cambiato il mondo, ricordarci che possiamo essere altro.

B: la tracklist sembra avere una struttura quasi simmetrica, nel senso che i primi pezzi li produce Steven One e i synth prevalgono, nella zona centrale il più coinvolto è Hybrido e si passa a mood molto variabili, infine sale in cattedra Dj FastCut e il timbro diventa più classico. Si tratta di una scelta casuale o c’è una logica precisa?
S: c’è una logica molto precisa. Steven è all’inizio perché ha quel suono più cupo che io associo alla nascita, a un momento che ritengo caratterizzato dal buio. Sei solo, ti formi, cresci nell’oscurità prima di venire alla luce. E’ solo in quel momento che vedi tutto quel che hai attorno, perciò ecco il casino di “Vali x 3” e “Vaffanculo”, poi arriva la presa di coscienza, la maturazione, ti senti parte del mondo e c’è un certo equilibrio. Questo passaggio aveva bisogno di stili tra loro diversi.

B: la varietà di suoni e accenti musicali è appunto una delle caratteristiche più evidenti del disco, tanto che ti misuri anche con tempi diversi dai tradizionali 4/4. Da un punto di vista tecnico, hai adattato il Rap, la scrittura, alle diverse strumentali selezionate, oppure hai sviluppato prima le liriche e poi, di conseguenza, richiesto qualcosa che potesse dar loro di volta in volta la spinta giusta?
S: guarda, “Tatanka” è stato scritto nel tempo; girato, rigirato, rimesso a posto. E la scelta dei suoni è avvenuta in simbiosi con la scrittura, senza un ordine preciso. Volevo riuscire a dire tutto così come ce l’avevo in testa e allora ho scritto il pezzo, scelto il beat, ascoltato il provino, cambiato questo e quello, messo a posto le metriche e finalmente chiuso tutto in una lunga serie di passaggi e incroci.

B: nel secondo estratto, “La bava del cane”, omaggi Primo Brown, con cui in passato hai anche avuto modo di collaborare. Ricordi personali a parte, cosa ti ha lasciato una figura come la sua?
S: Primo m’ha lasciato la vita. Non pensavo che qualcuno potesse darmi un input del genere, fatto sta che non smetterò mai di ringraziare quel giorno in cui abbiamo avuto una conversazione che mi ha cambiato tantissimo. Ma noi prima di essere amici con Primo, lo eravamo con David; il pezzo con lui (si riferisce a “Professional smookerz”, ndBra) lo facciamo dopo quattro/cinque anni di amicizia, di cene, di uscite. Io l’ho incontrato per la prima volta sotto un palco al Gianicolo, dopo che c’eravamo già sentiti per telefono grazie a Dj Nervo della Roma Capoccia Squad: volevo fare un pezzo con Primo e Nervo mi disse non c’è problema, ti do il numero, lo chiami e gli dici che sei amico mio, stai tranquillo perché Primo c’ha n’core grande, a me – credimi – tremavano le dita mentre premevo i tasti sulla tastiera, mi risponde e fa bella Sgravo! Io non ci credevo, ma lui ha cominciato subito: m’ha detto Nervo che mi chiamavi, io sto al Gianicolo, beccamose… E siamo stati un’ora e un quarto a parlare, rapporto che poi si è amplificato nel tempo e tutta l’esperienza trasmessa credo sia il bagaglio culturale più grande che ho ricevuto – anche a livello umano. Mi ha aperto gli occhi, con la sua musica come quando veniva a casa e si faceva un piatto di pasta con me e Valerio, poi andavamo al mare e tornavamo a casa a fare un po’ di Rap. E’ una persona importantissima per me, tra le prime tre assieme a FastCut e Maddy.

B: a questo proposito, in autunno riascolteremo finalmente due gruppi che hanno fatto la storia della Capitale. Credi che Roma abbia bisogno di ritrovare quella centralità nello scacchiere dell’Hip-Hop italiano che forse ha perso?
S: io la vedo così. Il Colle quando fa uscire “Anima e ghiaccio”? 2007? Undici anni e tutti si ricordano i pezzi a memoria. Stesso discorso per i Cor Veleno. Altrove fanno il business ma dopo due mesi nessuno conosce più una rima. Allora non conta la quantità, ma la qualità; la moda passa, quello che rimane significa che merita. Un pezzo del Colle c’ha le palle e er core, infatti resta; “Rockstar” di Sfera Ebbasta la conosci invece perché la senti quando entri nei centri commerciali. Capito qual è la differenza? E allora per me Roma non ha bisogno di riacquistare centralità, perché non l’ha mai persa.

B: tornando al disco, le diciassette tracce sembrano ruotare attorno a un tema comune, un concept magari ampio ma affrontato da diversi punti d’osservazione. In sostanza – penso a “Fuori dal branco”, “Chieditelo” o “Sporco e pulito” – inviti l’ascoltatore ad essere sempre se stesso, a reclamare sempre e comunque il proprio posto nel mondo; come mai quest’argomento?
S: è la riflessione che ti accennavo prima. Il mondo è fatto di persone e se qualcosa va male, significa che è colpa delle persone; e perché le persone fanno andare male il mondo? Perché sono vittime di un’influenza molto negativa. Noi non siamo perfetti, tuttavia potremmo esserlo, ragionando con la nostra testa, imparando a non fare qualcosa che possa andare a discapito del prossimo. E’ la regola basilare. Prendiamo decisioni in base a degli schemi che dovremmo abbandonare, superare, dovremmo farci domande – in particolare su noi stessi. Ed è questo che volevo dire.
B: possiamo applicare il discorso anche all’ambiente musicale? Nel senso: avverti più omologazione o originalità, a prescindere dalle distinzioni tra mainstream e underground?
S: avverto tanta ignoranza. Perché molte volte le persone non vanno oltre il loro naso, di conseguenza non posso che chiamarle ignoranti. Le strade che percorriamo per arrivare ai nostri obiettivi sono infinite e nella musica vale la stessa regola: c’è chi preferisce prenderne una che permette di arrivare all’interno di un determinato contesto replicando le cose che ha fatto qualcun altro. Ma per me la strada più lunga e faticosa è quella che ti consente di arrivare in cima e rimanerci, perché nel frattempo ti sono venuti due coglioni così e un paio di spalle quadrate. Siamo noi che abbiamo una concezione del tempo sbagliata, siamo noi che diamo alla vita un ritmo frenetico, siamo noi che oggi facciamo un pezzo, domani lo mettiamo su YouTube e dopodomani pretendiamo centomila visualizzazioni, anche a costo di comprarle. Capisci che la cosa è malata? Anzi: che noi l’abbiamo resa malata?

B: tu però hai molti contatti con la scena, quindi hai un occhio privilegiato. Se fossi un talent scout, su chi scommetteresti per l’immediato futuro?
S: sinceramente sono un cane a vedere il talento delle persone. Sai perché? Perché nel talento credo poco, credo invece nell’impegno e nelle scelte giuste. La persona di talento, se ha una testa di cazzo non combinerà mai nulla; la persona con poco talento ma tanto cuore, palle, idee chiare e voglia di raggiungere un obiettivo, a quello col talento je farà n’bucio de culo come ‘na capanna. Io vedo tanti pischelletti, giovani rapper con le capacità che non fanno nulla per migliorarsi, per ottenere dei risultati; fermo restando che se mi chiedi su chi scommetterei, ti dico Wiser dato che giriamo assieme e sposa una cifra ‘sta cosa di voler cambiare il mondo con la musica – ed è anche per questo che ci prendiamo bene.

B: ultime domande di rito. Il disco è fuori da un paio di settimane, com’è stato accolto?
S: il disco ha avuto una risposta molto diversa da quella che mi aspettavo, perché la gente non m’ha detto grande fratè, spacca o da paura, ‘na bomba; no, mi dicono grazie. E mi dicono anche perché: perché in quel pezzo hai detto quella cosa, perché ‘sto pezzo m’ha aiutato così… E’ quello che volevo e la dimostrazione che se le cose le fai in un certo modo, puoi contribuire a fare qualcosa di positivo per gli altri. Su Spotify lo ascoltano, le copie fisiche stanno andando via bene, ma la cosa che più mi gratifica e mi rende orgoglioso è questa, sapere che ho dato qualcosa a chi mi ascolta.
B: è in programma un tour?
S: sì, ma non lo farò da solo. Perché come sai io sono un dead poet, con Valerio è nata questa cosa e giriamo tutti assieme, un po’ come una setta. Quindi lui non farà un tour in singolo, Wiser non lo farà e neppure io lo farò, abbiamo messo assieme tutto e il tour di “Tatanka” andrà assieme a quello di “Dead poets”. Siamo una famiglia; e poi a me senza di lui non piace suonare e viceversa.