Intervista a Napal, co-autore di “Crash Kid – a Hip Hop legacy” (20/10/2019)

Un volume come “Crash Kid – a Hip Hop legacy” è un unicum per l’Hip-Hop italiano. Non soltanto per l’imponenza del formato (l’ago della bilancia indica circa 1,300 chilogrammi), quanto piuttosto per la capacità di documentare con oggettività la storia che racconta. Diversamente dalla maggior parte dei libri che tentano di ricostruire il complesso processo di metabolizzazione della Cultura Hip-Hop nel contesto nazionale, spesso compilatori e didascalici, il lavoro di Marcello (Napal) Saolini e Ben (Samba) Matundu è infatti una testimonianza diretta di quel periodo, inquadrato attraverso una lente privilegiata, non deformante, ovvero l’archivio personale di Massimo (Crash Kid) Colonna, pioniere indiscusso e artista mai dimenticato da breaker e semplici appassionati. Grazie a un comparto fotografico sontuoso, unico nel suo genere, “A Hip Hop legacy” dà voce all’entusiasmo di un gruppo di ragazzi che – neppure maggiorenni – accoglievano le discipline come uno stile di vita vero e proprio, assimilando il valore della sfida e influenzandosi reciprocamente. Il contributo di Crash Kid, fondatore della crew Passo sul Tempo, si rivelerà decisivo nella diffusione di un linguaggio oggi penetrato in contesti per l’epoca inimmaginabili: traducendo una passione viscerale, travolgente, in una carriera consacrata dalla memorabile vittoria della Battle Of The Year 1995, Massimo è presto diventato il fulcro di una scena in formazione, che cominciava a uscire allo scoperto in una realtà diffidente, ingessata, eppure a suo modo incuriosita da un fenomeno sbocciato nel decennio precedente tra le strade di New York e in seguito irradiatosi in ogni angolo del globo terracqueo. Ferme restando le enormi differenze sociali esistenti tra la capitale italiana e la metropoli statunitense per eccellenza, quelle evoluzioni in Galleria Colonna (oggi Galleria Alberto Sordi), i primi concerti di rilievo e infine gli Zulu Party contribuirono a ridurre quei quasi settemila chilometri di distanza; passaggio chiave che è appunto al centro di “Crash Kid – a Hip Hop legacy”, presentato lo scorso week-end nella bella cornice di Palazzo Velli, nel cuore di Trastevere. Di seguito la nostra intervista a Napal, writer fin dal 1986, compagno di crew di Crash Kid e a sua volta figura di riferimento per l’allora nascente Hip-Hop italiano.

Bra: la prima domanda è scontata. Da chi nasce l’idea per “Crash Kid – a Hip Hop legacy”, che ha richiesto più di un anno di ricerche e lavoro?
Napal: il tutto in realtà è durato due anni, perché io e Ben, assieme a Nicola Scavalli che è il grafico, volevamo essere soddisfatti al mille per cento di ogni aspetto. Il progetto nasce quando, nel 2015, abbiamo fatto The Jam 2 celebrando Crash Kid, un bellissimo evento con tutte e quattro le discipline unite, occasione che mi ha permesso di tornare in contatto con i familiari di Massimo, che non vedevo da una vita. Un giorno la sorella mi chiama e mi dice che aveva trovato del materiale, l’archivio fotografico di Massimo con gli scatti delle jam, le feste e gli Zulu Party, un tesoro che noi immaginavamo fosse andato perso; invece era tutto lì in una casa di campagna, in soffitta: scatole piene di foto, di sketch, di cose sue… Quando poi sono andato a vedere tutto m’è preso un mezzo colpo, perché dopo più di vent’anni non pensavo di recuperare così tanta roba. E’ stato un salto nel passato! Va da sé che il contenuto delle scatole era in parte danneggiato, c’era muffa sui negativi, alcune foto erano rovinate, però per fortuna io ho lavorato anche come fotografo e addetto alla post-produzione digitale, quindi sapevo come procedere al restauro. Da lì, una volta recuperato e pulito il materiale, abbiamo cercato di dare un filo logico e anche cronologico al tutto, perciò con Ben abbiamo contattato gli amici del tempo, le persone che magari sono presenti nelle foto, le quali risalgono ai primi anni ottanta e arrivano fino alle jam italiane più importanti, gli Zulu Party, le competizioni all’estero. Massimo ha viaggiato molto, era uno dei primi a spostarsi in Svizzera, in Germania, negli Stati Uniti, aveva allacciato una rete di conoscenze che al tempo credo nessuno potesse vantare. Porte che si sono aperte grazie a un talento enorme, se pensiamo che negli anni novanta gli unici italiani che hanno vinto competizioni all’estero sono lui, Next One e Kid Head – pur vantando tanti breaker fortissimi. Loro erano l’eccellenza e aggiungo che Massimo è stato anche un writer fondamentale per Roma, tra i primi a dipingere i treni: sapeva dov’erano i depositi e si portava dietro tutti. Crash era un breaker formidabile, conosceva chiunque, frequentava i writer, quindi faceva da collante, era una guida. E’ così che arrivò a creare The Jam 1 nel novantadue, un evento storico con tutti i migliori b-boy del tempo, i writer più forti, gente che veniva da fuori… Aveva una visione già molto matura, soprattutto per la sua età. Io stesso, nonostante fossimo amici e in crew assieme, documentandomi per il libro ho scoperto una quantità di cose che neppure immaginavo. Anche perché parliamo di un’era precedente all’avvento di internet: i contatti si facevano andando materialmente in una città, beccando la gente, stando lì a ballare; eppure nessuno lo faceva come lui.

B: il supporto di una casa editrice come Drago, esperta in pubblicazioni riguardanti arte e cultura contemporanea, quando arriva?
N: è stato Ben a coinvolgere Drago, dato che aveva già lavorato con loro in altri progetti. Quando l’editore ha visto il materiale si è mostrato subito interessato, ha capito il valore storico che c’era dietro a un lavoro del genere, oltre all’omaggio per una figura che per noi era anzitutto un caro amico. Come autori, non potevamo chiedere di meglio: c’è stata subito una comunione d’intenti, abbiamo messo in chiaro le nostre aspettative sul libro, perché volevamo che sprizzasse Hip-Hop da tutti i pori, e loro ci hanno seguito e aiutato in ogni momento. Abbiamo lavorato benissimo assieme.

B: il volume incrocia un momento storico di transizione per l’Hip-Hop italiano, a volte irriconoscente verso origini e pionieri. Queste 320 pagine sono più per chi ricorda con nostalgia quegli anni, o per chi di quegli anni non sa nulla e intende porvi rimedio?
N: tutte le testimonianze sono di persone che hanno vissuto quell’epoca, ma il libro si propone di tramandare ciò che è stato fatto. Un pischello che oggi si avvicina all’Hip-Hop trova una quantità di materiale sul web talmente ampia che forse fa fatica a capire da dove viene cosa e come si è evoluto il tutto; dal libro e dalla storia personale di Massimo, noi cerchiamo di ricostruire l’arrivo dell’Hip-Hop in Italia, citiamo i protagonisti di quella micro-realtà per capire come poi si sia arrivato a mc’s quali Danno e Masito, a dj come Baro e via via a tutta la scena che conosciamo. Documentiamo ad esempio il primo concerto a Roma dei Run-DMC dell’ottantotto, si respira quel clima, ci sono le prime stazioni dipinte, si percepisce la trasformazione di quella che in origine era una sottocultura snobbata da tutti – prima che spazzasse ogni cosa come uno tsunami!

B: a prescindere da quelli artistici, tra i tanti meriti di Crash Kid – lo accennavi prima – c’è sicuramente quello di aver creato un ponte di comunicazione tra l’Italia e gli Stati Uniti, ponendo le basi per la successiva esplosione del movimento su tutto il territorio nazionale. In quei frangenti, c’era consapevolezza di ciò che stava per nascere?
N: no, assolutamente no. Nessuno poteva immaginarlo – e lo stesso mi dicono i writer della vecchia scuola, degli anni settanta, quando ne discutiamo. C’era magari un vago sogno, si sperava che questa cosa durasse, crescesse, ma nulla più. Stiamo parlando di un movimento di giovanissimi: io ho cominciato a fare graffiti a dieci anni, quelli più grandi di me, i miei miti, ne avevano diciassette, diciotto. Un disco come “Paid In Full”, Rakim lo firma a diciannove anni! Eravamo tutti ragazzi, presi poco sul serio dalle generazioni più grandi, magari legate al Rock e altri codici; noi da quest’altro lato parlavamo di urbanità, di portare l’arte in mezzo alla strada, di discipline. E invece l’Hip-Hop è stato un movimento culturale che ha attraversato la danza, la pittura, la fotografia, il cinema con Spike Lee, il teatro con comici come Dave Chappelle, la moda; ma al tempo l’utopia massima era solo quella di appartenere a qualcosa che speravamo le persone avrebbero almeno compreso. Oggi però sappiamo che il writing è il primo movimento artistico in assoluto creato da adolescenti per altri adolescenti: chi allora aveva cinquant’anni non ha avvertito la portata di questa cosa, ma le generazioni successive sì, ci si sono riconosciute senza difficoltà.

B: per la realizzazione del libro avete avuto modo di confrontarvi con diverse persone che hanno conosciuto Massimo. Che ritratto ne emerge, dal punto di vista umano?
N: le testimonianze raccolte, anche se sconnesse tra loro, creano il ritratto collettivo di una persona estremamente solare, positiva, che amava stare in mezzo agli altri e aiutare il prossimo. Massimo aveva sposato davvero il credo della Zulu Nation, non era una costruzione artificiosa: era la sua natura. Questa cosa emerge dai ricordi e dai racconti di tutti. In chi l’ha conosciuto, il libro suscita sicuramente un misto di emozioni, perché da un lato c’è l’omaggio a un amico che non c’è più, dall’altro questa testimonianza di grande divertimento, di anni davvero magici, senza barriere. Andavi a una jam, allacciavi delle sintonie e a distanza di tanti anni quelle amicizie sono ancora vive; forse la ragione è che abbiamo vissuto qualcosa di molto particolare, di speciale. E’ difficile da spiegare.

B: molti di questi contributi arrivano da figure che hanno avuto il privilegio di frequentare – artisticamente parlando – Crash Kid, da Ice One a Deemo, passando per Amir, il Colle der Fomento, Master Freeze, Sharp, Dj Stile… Perché la memoria di un ragazzo che è morto a soli ventisei anni è ancora così viva?
N: io ricordo sempre con affetto tutti gli amici che ho perso, però Massimo è stato unico. Non ho più incontrato nessuno come lui. Non era solo il writer, il breaker, l’artista, era una persona che si spaccava in quattro per gli altri, disponibile, generosa. E’ la verità. Magari una sera conosceva dei b-boy per strada, appena arrivati in città, e per lui erano subito dei fratelli, li ospitava a casa, li aiutava in ogni modo. Massimo era così e credo sia per questo che lo ricordano ancora tutti. Ecco perché questo libro gli era dovuto.

B: guardando il comparto fotografico che avete raccolto, a colpire è soprattutto lo sguardo di chi è stato ripreso; i sorrisi dei protagonisti, lo stupore di chi osserva le evoluzioni dei breaker, l’orgoglio di chi si sente parte di qualcosa che stava succedendo proprio in quel momento. Quanto manca, a questo movimento, l’ingenuità e l’entusiasmo di chi viveva quell’esperienza senza sovrastrutture, per pura e genuina passione?
N: è complesso come argomento. In quegli anni non c’era nessuna pretesa di farne un lavoro, era appunto passione e basta, mentre quando cominciano a subentrare delle dinamiche economiche, professionali, inevitabilmente qualcosa cambia. Però non significa che tutto si rovini. Le cose sono diverse, ma non per forza in senso negativo; io vedo ancora oggi esempi positivi nella scena, che per fortuna non si è esaurita. Lo vedo anche sulla mia pelle: da ragazzo avevo una spensieratezza che certo non posso avere a quarantatré anni, non immaginavo di finire nei musei e che questa cosa cominciata per divertimento potesse diventare la mia vita di tutti i giorni. Semplicemente ci sono dei pro e dei contro, come in tutto.

B: ballare per strada, scrivere il proprio nome su un muro, in generale entrare a far parte dell’Hip-Hop, a metà degli anni ottanta era una scelta che aveva implicitamente dei connotati politici?
N: politici sì, ma nel senso che era una presa di posizione. Io ho conosciuto l’Hip-Hop in Australia, prima di trasferirmi, ed essendo madrelingua inglese ho capito subito di cosa si trattava. Il primo disco che ho comprato era “Hey You” della Rock Steady Crew, divertente, per ballare, ma già se pensiamo a “The Message” o a “Renegades Of Funk” – quindi tutti pezzi contemporanei – riconosciamo presto il messaggio di denuncia che c’è dietro. Si faceva riferimento alle rivolte nere, alle sommosse, alle ingiustizie sociali; è nella natura dell’Hip-Hop, basti pensare da dove viene. Stiamo parlando del Bronx, di un’America razzista, di un mondo che boicottava i rapper – nei suoi primi anni, MTV non mandava in onda video Hip-Hop… Chi guardava “Wild Style”, al di là dei graffiti e tutto il resto, vedeva cos’era quella realtà, i ghetti, la miseria; così per “Style Wars”. Perciò anche un ragazzino dell’epoca come me sentiva per forza di cose questo collegamento. L’Hip-Hop è nato per dare voce a chi non ne aveva; e quando si capì questa cosa, si è fatto di tutto per smorzarne la portata e metterlo a tacere. Perché superava barriere sociali e razziali attraverso l’aggregazione, giudicando le persone solo in base a cosa sapevano fare artisticamente.

B: cosa rimane, nell’Hip-Hop italiano di oggi, dell’esempio e dell’approccio di Crash Kid?
N: guarda, si tende sempre a dire l’Hip-Hop non è più quello di una volta; per me, invece, siamo ancora in un momento positivo. Sento produzioni che non mi fanno avere nostalgia del passato, proprio perché ne conservano lo spirito. Di recente mi sono complimentato con un ragazzo molto giovane, si chiama Er Drago, l’ho sentito e secondo me fa Hip-Hop come si deve (si riferisce al brano “Basalto”, su una produzione di Ice One – ndBra), esprimendo concetti seri, che hanno un significato concreto. E’ vero che tanta gente ascolta cose mainstream, immondizia, ma questa roba è sempre esistita: ai miei tempi c’erano MC Hammer e Vanilla Ice, eppure se ti volevi documentare, se facevi un minimo sforzo di ricerca, trovavi l’Hip-Hop vero. E sarà sempre così: l’Hip-Hop te lo devi andare a cercare.

B: altro da dire?
N: sì. Peace, unity, love and having fun!