Cypress Hill – Cypress Hill
Il debutto dei Cypress Hill ha oggettivamente influenzato intere generazioni di artisti e fan, per una determinata serie di motivazioni. Chi non conosce “How I Could Just Kill A Man”? Chi non ha mai cantato a squarciagola il ritornello di “Hand On The Pump”? Senza contare il loro ben noto connubio con l’utilizzo della cannabis, per la quale negli anni hanno portato avanti dei veri e propri movimenti pro-legalizzazione, fulcro dei loro show dal vivo. Un altro aspetto molto importante riguarda il loro stile, pervaso dall’utilizzo dello spanglish – linguaggio che, sebbene già esistente, è stato così fatto conoscere a livello planetario sottolineando la forte componente latina del gruppo; né si può dimenticare il potente ascendente avuto nel rendere omogenea una platea che non annoverava solo seguaci di etnia ispanica o afroamericana, ma capace di attirare anche i ragazzini bianchi verso la musica alternativa, un processo fondamentale per l’espansione della Cultura. Aggiungiamo la netta riconoscibilità delle basi Funk di Dj Muggs, uno che gli anni Novanta li ha dominati, la mitica voce nasale di B-Real, il timbro baritonale di Sen Dog, puntellando il tutto con un nutrito numero di classici sempreverdi, ed ecco spiegato il perché l’album sia tra i più rilevanti della storia del nostro genere preferito.
“Cypress Hill”, per quanto la frase sia scontata e ritrita, è uno di quei dischi che non si fanno più, di quelli dove la qualità di ogni singola traccia fa venire i brividi anche a venticinque anni dalla sua pubblicazione, un sentimento alimentato anche dalla natura per certi versi rivoluzionaria del disco, che oltre a sfidare perbenismo e censura a suon di canne dipingeva una realtà violenta allora poco conosciuta (ma già più volte denunciata), un segnale di disagio quotidiano con origini ben radicate nel suolo delle zone più marce di una Los Angeles che forniva ambientazioni e personaggi da trasporre su nastro, peraltro nel bel mezzo del terremoto razziale provocato quello stesso anno dal pestaggio di Rodney King.
La prima parte della scaletta offre mine a volontà, l’uno/due formato da “How I Could Just Kill A Man” e “Hand On The Pump” è persino letale. La prima, fondata sul classico sample dell’ultra-campionata “Tramp” e ancora oggi uno degli inni più celebrati del gruppo, raccoglie tre strofe di violenza urbana dando vita a uno dei pochi temi portanti dell’album, ovvero il traslare l’ambiente criminale realmente vissuto all’interno di un quaderno di rime; la seconda è perfino più infettiva grazie alla genialità di mastro Muggs, che preleva l’inizio di “Duke Of Earl” per ottenerne uno dei campioni vocali più riconoscibili di sempre, montato su una batteria lercia accompagnata da minuscoli pezzettini di trombe Funk o chitarre prelevate per uno o due secondi, il tutto mentre la chimica tra Sen e B-Real genera ottime alternanze e linee memorabili (<<sawed off shotgun, hand on the pump/left hand on a forty, [puffin onna blunt]/pumped my shotgun, [niggas didn’t jump]/lala la la lala la laaaaa>> – ok, adesso torno a sedermi, promesso…).
La natura diretta dell’album non prevede preamboli. L’introduttiva “Pigs”, caratterizzata dal noto e chiassoso sample di chitarra elettrica tagliato ad arte, ingrana subito la quarta individuando immediatamente l’oggetto dell’odio di qualunque abitante del ghetto, schernendolo e minacciandolo, oltre che far emergere tutti i luoghi comuni che lo circondano (<<how about a ham sandwich?>>), ma i messaggi dei Cypress Hill sono ambivalenti, che si tratti di poliziotti o rivali delle gang nemiche il concetto non cambia e il futuro prossimo prevede solo un ben piazzato “Hole In The Head”, altra esemplificazione di Funk sporcato dentro i bidoni della spazzatura e riciclato in chiave Hip-Hop, che tra un’espressione colorita (<<I smell the bacon>>) e un ritornello scemo (<<Scooby Doo y’all>>) presenta un mondo attinente al suo titolo auto-esplicativo parlando di gente che va dentro e fuori di prigione con irrisoria facilità, di rivincita, di vicoli bui ed alte temperature, sfondi ideali per stuzzicare l’immaginario collettivo del criminale ispanico tutto tatuaggi pronto a fare a fette chiunque senza un briciolo di pietà. In fondo è pur sempre una tribe thang, no?
Tra i singoli di capitale importanza citiamo pure il sottovalutato “The Phuncky Feel One”, il pezzo che mise sulla scena il trio e che rappresenta l’essenza del Funk di Muggs, qui diversificato dal break di basso estratto dai mitici The J.B.’s e inserito dopo il ritornello creando una struttura originale, l’interazione tra i due mc’s è ancora ottima e la gestione del flow si adatta molto bene al tempo del beat. La sequenza di trombe e chitarre è la chiave di funzionamento anche di hit minori ma significative come “Light Another”, vero caposaldo delle tematiche del gruppo (<<wanna feel the effects of the high?>>), concetto che viene ripreso più tardi anche da una “Stoned Is The Way Of The Walk” che sembra appunto stordire e dirottare proprio nel bel mezzo di una nuvola di fumo senza più capire in che direzione andare, grazie a una produzione che riesce a rendere extra-funky pure un interludio quale “Something For The Blunted”, nella quale Muggs si diverte a infilare nello stesso impasto Curtis Mayfield e un Busy Bee versione “Wild Style”.
La seconda parte del disco, a parere personale, presenta quel piccolo quantitativo di qualità in meno rispetto alla precedente, forse perché il reparto lirico e le tematiche tendono a stagnare lievemente – ma anche qui non mancano gli episodi rilevanti che ancora oggi fanno muovere con piacere la capoccia. Laddove i testi evidenziano una piccola ma chiara carenza di creatività strutturale – rime quasi sempre a coppie, pochissime soluzioni interne – rimedia Muggs con autentiche bordate come “Real Estate”, per la quale cuoce a puntino una linea di basso eccellente, e “Psycobetabuckdown”, che spezzetta e ricompone la “Acqua Boogie” dei Parliament per dar vita a un beat trascinante, che invita a gettarsi senza esitazioni nel bel mezzo di questo party.
Il finale vede due pezzi assegnati in solitaria a Sen Dog, probabilmente per recuperare lo scompenso di partecipazioni nella parte antecedente a questa (dove in realtà il protagonista principale è sostanzialmente B-Real): “Latin Lingo” è tutt’oggi il pezzo più rappresentativo di Sen, che esegue un ottimo lavoro nel chiudere le rime continuando a passare da un linguaggio all’altro districandosi in un sottofondo di bonghi e campioni vocali, mentre “Tres Equis” offre un bel riff di chitarra in salsa latina per una storiella a luci rosse raccontata completamente in spagnolo.
Ecco, magari “The Funky Cypress Hill Shit” non ci sembra così funky, e la conclusiva “Born To Get Busy” l’abbiamo sempre considerata alla stregua di un inutile riempitivo della scaletta, ma sono letterali quisquilie se consideriamo che l’album il suo quarto di secolo se lo porta appresso in maniera eccellente, fatto confermato dalla heavy rotation che a lunga distanza dall’ultimo ascolto ha invaso l’autoradio del sottoscritto per giorni in vista di questa recensione. E non potrebbe che essere così, dato che stiamo parlando di un album che ha aperto un varco di cubitale importanza per ciò che sarebbe stato l’Hip-Hop in seguito, quando chiunque avrebbe parlato di chronic e compagnia bella potendoselo permettere esclusivamente per merito dei Cypress Hill.
Dal loro avvento l’Hip-Hop non è più stato lo stesso e questo è il miglior complimento che si possa fare al trio e a questo leggendario esordio.
Tracklist
Cypress Hill – Cypress Hill (Columbia 1991)
- Pigs
- How I Could Just Kill A Man
- Hand On The Pump
- Hole In The Head
- Ultraviolet Dreams
- Light Another
- The Phuncky Feel One
- Break It Up
- Real Estate
- Stoned Is The Way Of The Walk
- Psycobetabuckdown
- Something For The Blunted
- Latin Lingo
- The Funky Cypress Hill Shit
- Tres Equis
- Born To Get Busy
Beatz
All tracks produced by Dj Muggs
Scratch
All scratches by Dj Muggs
Mistadave
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