Willie Peyote – Sindrome di Toret

Per dirla con Troisi, scusate il ritardo. “Sindrome di Tôret”, quarta uscita solista in poco meno di otto anni per il torinese Willie Peyote, viene infatti pubblicato lo scorso ottobre in scia a una coppia di singoli – “I cani” e “Ottima scusa” – che svelavano subito gli sviluppi di un’attitudine musicale trasversale per sua natura, spingendo un gradino più in alto gli esperimenti intrapresi coi Funk Shui Project e le successive contaminazioni di “Educazione sabauda”. L’attesa, di conseguenza, non è dovuta a una valutazione maturata con insolita lentezza, bensì all’indecisione su dove, come e se collocare l’album nel perimetro dell’Hip-Hop italiano; dubbi, viceversa, non ne abbiamo nell’indicare la densità tematica proposta da Guglielmo come un’eccezione di assoluto valore, essendo il Nostro un rapper atipico anche – e forse soprattutto – su questo versante.

I riferimenti pungenti (“Avanvera”: <<ma il copione funziona e la cravatta s’intona/dovrebbero farvi tacere, Sindona>>), l’atteggiamento provocatorio, il sarcasmo e le umanissime idiosincrasie che spiccano nell’interezza della tracklist sono la cornice di un’operazione in grado di riflettere sulle infinite contraddizioni del presente con notevole lucidità, ricorrendo a situazioni quotidiane che stuzzicano l’estro di un Peyote davvero bravo a raccontare sia la dimensione personale che quella collettiva (magari dovremmo dire generazionale) senza sprofondare mai nel protagonismo più narcisistico o nella retorica di seconda mano. Siate o meno d’accordo con le sue osservazioni, l’mc le sostiene una ad una con trasparenza e ferma sincerità, consegnando all’ascoltatore un disco nel quale chiunque abbia le scatole piene di biografismi (un)real e popstar che sguazzano nel ridicolo riuscirà a calarsi con grande facilità.

Ecco allora che la nausea istigata da luoghi comuni e parole vuote s’incarna nell’introduttiva “Avanvera”, l’avversione per le opinioni surrogate è il combustibile de “I cani” (<<ma mi spiegate perché ogni cosa che fate/quando vi schierate/si trasforma in una gara a squadre?>>), il nozionismo da social e affini viene messo alla berlina in “C’hai ragione tu”, la peggiore italianità è nel mirino di “Metti che domani”, le complicazioni innescate dall’essere un animale sociale emergono ne “Il gioco delle parti” e via a seguire, ché non occorre citarne ognuna. E’ importante, invece, sottolineare le peculiarità stilistiche di una prova che nei suoi quaranta minuti di durata accosta Rap e porzioni cant(icchi)ate in dosi pari, assecondando timbriche di varia provenienza: dal Pop di “C’hai ragione tu” alla Disco di “Metti che domani”, dal raffinato Jazz di “Giusto la metà di me” al Funk/Rock di “Vilipendio”, fino allo Spoken Word di “Vendesi”.

Tutto ciò è reso possibile dal contributo di Luca Romeo (basso), Dario Panza (batteria), Marco Rosito (chitarre) e Marco De Benedittis (tastiere), quartetto base affiancato da Roy Paci, Vito Scavo, Paolo De Angelo Parpaglione, Enrico Allavena, Stefano Piri Colosimo (fiati) e Jolly Mare (sintetizzatori). Kavah e Frank Sativa affidano a loro gli strumenti e ne ricavano un amalgama molto variegato, scandito da groove più melodici che graffianti e alla portata di un pubblico decisamente eterogeneo; scelta che, al netto di ciascun gusto, esprime in maniera compiuta l’anima meticcia che l’autore di “E allora ciao” rivendica da sempre, intrecciando flow ben torniti, arguzia e percorsi parecchio orecchiabili.

Ma – perché un ma era nell’aria fin dalle prime righe della recensione – il discorso non può certo esaurirsi a una conta dei tanti pregi che assegniamo a un lavoro stimolante per le motivazioni appena elencate e, sebbene Willie respinga senza mezzi termini etichette e modelli (“I cani”: <<mi serve un leader d’opinione/che mi dia un’indicazione/sono più Rap o più indie, cazzone?>>), anticipando – con una nota di furbizia – qualsiasi obiezione in merito (“Vilipendio”: <<vuoi fare il complicato ma a chi cazzo la racconti?/’Sta black music italiana è nera come Carlo Conti>>), la questione riemerge in prossimità delle fatidiche conclusioni. Pur condividendo l’assunto secondo cui la buona musica è tale a prescindere dalla sua inclusione o meno entro categorie preesistenti, tocca comunque chiedersi – fermo restando che al protagonista la cosa potrebbe non interessare affatto – quanto un progetto dal carattere così ibrido risponda alle preferenze dell’utenza specializzata (ovvero voi); sul punto fatico a sbilanciarmi, ritenendo la frammentarietà dei registri adottati in “Sindrome di Tôret” un potenziale ostacolo a danno dell’appassionato più oltranzista di Hip-Hop, qui lontano da suoni e formule a lui familiari.

Si tratta, tuttavia, di un rischio calcolato e che siamo sicuri non spaventerà Willie Peyote, svincolatosi da un certo modo di porsi all’interno della scena già in tempi non sospetti. Dal canto nostro, simpatizziamo con un approccio che schiva determinati stereotipi e fornisce valide alternative agli obbrobri che circolano tra radio e web, consapevoli però di una traiettoria artistica che sembra essersi inoltrata al di fuori dell’orbita Hip-Hop.

Tracklist

Willie Peyote – Sindrome di Tôret (451 Records 2017)

  1. Avanvera
  2. I cani
  3. Ottima scusa
  4. C’hai ragione tu [Feat. Dutch Nazari]
  5. Metti che domani
  6. Le chiavi in borsa
  7. Giusto la metà di me
  8. Portapalazzo
  9. Il gioco delle parti
  10. 7 miliardi (skit Giorgio Montanini)
  11. Donna bisestile [Feat. Jolly Mare]
  12. Vilipendio
  13. Vendesi [Feat. Roy Paci]

Beatz

  • Frank Sativa e Kavah: 1
  • Kavah: 2, 3, 12, 13
  • Frank Sativa, Kavah e Willie Peyote: 4
  • Frank Sativa: 5, 7, 8
  • Frank Sativa e Josè Loggia: 6
  • Frank Sativa e Luca Romeo: 9
  • Frank Sativa, Kavah e Jolly Mare: 11