Vinnie Paz – The Pain Collector
Le molteplici vesti di frontman mantenute nel quadro delle ben note realtà per le quali Vinnie Paz ha indomitamente prestato servizio da oltre vent’anni non gli hanno certo impedito il ritaglio di una fruttuosa carriera solista, strada percorsa con ritardo rispetto agli esordi con Jedi Mind Tricks e Army Of The Pharaohs, ma in ogni caso attività assai prolifica e puntuale, con quattro album e un EP a contraddistinguere indelebilmente otto sostanziosi anni di registrazioni. Nello svolgersi di tale periodo, il siculo della Pennsylvania ha proposto e sviluppato uno stile coscienziosamente incorruttibile e stilisticamente immutabile, marchiato a fuoco da dannazione, malefiche sghignazzate, spitting di pura raucedine, sempreverdi minacce destinate a chiunque sia raffigurabile quale nemico, nonché disquisizioni su teorie cospirative, religioni e politica, il tutto accuratamente cosparso col solito, generoso dosaggio di sadica violenza.
Dato che le caratteristiche appena menzionate costituiscono l’ossatura di “The Pain Collector”, è piuttosto facile evincere che l’ultimo prodotto di casa Pazienza non sia particolarmente differente dai suoi predecessori – perlomeno dal punto di vista concettuale; una considerazione contrappesata più che adeguatamente dalla confermata presenza di tutti quegli elementi in grado, come si dice, di fare la differenza. Oggi come in passato non ci sono innovazioni metriche da urlo né rime appaiate nella stessa barra che siano più lunghe d’un paio di sillabe, le corrispondenze sonore sono rigorosamente piazzate alla fine di ciascuna sentenza e sviluppate in coppie, quartine e multiliner che non deviano dalla loro rigida struttura; tutti aspetti che vanno sottolineati per dovere di cronaca, non certo per togliere un solo milligrammo di consistenza a un disco che – al contrario – ne offre a tonnellate. Nel giudizio, del tutto personale, entra difatti in gioco l’essere fan di un determinato tipo di Hip-Hop, lo stesso che Vincenzino propone orgogliosamente da anni attraverso un’attitudine dura come un macigno, tirando dritto per la sua strada con noncuranza verso i giudizi altrui, rifiutando sistematicamente tutti quei compromessi che lui stesso ama sgretolare impietosamente e mantenendo intatto il grande fascino di quanto sa offrire grazie alla grande energia delle sue prestazioni, l’indubbio carisma e non ultimo il suo sempre eccellente fiuto nel selezionare i beat.
“The Pain Collector” è infatti il consueto agglomerato di magma incandescente, ma sa utilizzare ragionevolezza e sentimento quando servono, concedendosi un paio di puntatine verso la modernità (vedasi l’inedito flow a fuoco rapido di “Hollow Light Severed Sun”) senza snaturare la propria essenza. I fan di vecchia data saranno più che felici di sottoporre i propri padiglioni auricolari a prove avvinghianti, soffocanti, degne degli Heavy Metal Kings (“Dualtow Night Eagle”), come pure a prodotti allucinogeni, in grado di far fermentare l’immaginazione ritrovandosi in solitudine rinchiusi in un oscuro cimitero circondato da tenebre e rituali terrificanti, stappando l’ennesima ottima bottiglia offerta da Muggs in un’annata per lui assolutamente strepitosa (“Floating Goat”). Pezzi come “Hashem On A Pentagram” – forte di una produzione che sembra estratta dal primo capitolo targato Czarface – fanno intuire la presenza di Ill Bill dalla sola lettura del titolo, altri come “Gasmask” picchiano piacevolmente duro mettendo alla prova cuffie e casse permettendosi un inusuale ritornello in spanglish, “Requiem For Black Benjy In 2 Parts”, infine, vive – come da indicazioni – di due metà sorreggendosi su una coppia di beat di certificata qualità, ponendo inaspettatamente in evidenza l’ottima prestazione di un Crimeapple certamente più impressionante di Tha God Fahim, nonostante ci saremmo attesi esattamente il contrario.
L’esercizio della forza bruta non impedisce comunque di guardarsi dentro, riflettere, mostrare quella che solo in apparenza può essere considerata debolezza. “God’s Shadow”, baciata in fronte dall’ottimo sfondo realizzato da Mr. Green, è un energico episodio di retrospettiva sulla propria vita e sulla propria carriera; “Gracious” evoca il trionfo del protagonista sulla sua passata immaturità, lasciandosi cadere tra le braccia di un’atmosfera che ricorda molto un musical grazie al ritornello che pare cantato da un gruppo di pin-up (<<when I was younger I was everything I hated I swear/I thought the world was out to get me in a state of despair/just an egotistical asshole, my faith was impaired/I always was complainin’ and I always was the victim/it never was my fault and it always was the system/you think the world owe you something, you wrong>>) – coppia di episodi determinante nel bilanciare efficacemente le parti crude del disco. E zio Vinnie non sarà il king dello storytelling, ma per l’ennesima occasione in carriera dimostra di saperci fare molto bene con pezzi come “Cold In Philadelphia”, nei quali ci sono anima, cuore e due storie d’intolleranza e paura del diverso che s’intrecciano attorno a elementi distintivi della sua stessa esistenza tirando in ballo Sicilia, Philly e islamismo in un sol colpo, dando luogo alla traccia più memorabile dell’intero lotto.
All’interno di tanta bellezza, incappiamo nella scelta di esporre “Blood On My Hands” come primo singolo, probabilmente perché tra tanti beat di valore questo è uno dei pochissimi a risultare davvero generico, lasciando al vigore espositivo del testo il compito di salvare la situazione, così come può risultare frustrante la scarsa fantasia di “Necklace Of Heads”, base insolitamente inconsistente di Oh No appesantita da un ritornello per nulla creativo; fortunatamente nulla che intacchi la validità complessiva di un album il cui desiderio di ascolto cresce a ogni successiva sessione. Tentare di togliersi dalla testa episodi come “Sundae Bloody Sundae”, traccia contraddistinta dall’utilizzo della metafora, è difatti uno sforzo perfettamente vano, perché il livello d’infettività di certe strumentali è semplicemente troppo alto e riporta alla mente geniali selezioni del passato quali “Aristotle’s Dilemma”, “Crime Library” o “Beautiful Love”.
L’innovazione è certamente basilare per l’evoluzione di qualsiasi cosa ed è nostra abitudine sottolinearlo tra queste righe, tuttavia a nostro parere è altrettanto importante il mantenimento di un certo tipo di tradizione, a patto che non diventi fine a se stessa. Vinnie Paz potrà anche risultare monotono, questione di gusti, ma non per questo va confuso come un artista limitato; anzi, il comprovato talento è ancora una volta adeguatamente dimostrato per tutta la durata di questi nuovi solchi, qualità che si abbinano a un’integrità non acquistabile ad alcun prezzo e a una linea granitica sempre condivisibile, stoica nel prendere simbolicamente a sberle tutta quell’ignoranza che la massa tendere a confondere e spacciare come Hip-Hop. Data la nota passione pugilistica del Nostro, non resta che prendere coscienza dell’ennesimo knockout messo a segno da un personaggio che attira magneticamente il sostegno della sua affezionata fan base, in mezzo alla quale ci inseriamo più che volentieri.
Tracklist
Vinnie Paz – The Pain Collector (Enemy Soil 2018)
- Winter Soldier
- Necklace Of Heads
- Gasmask
- Sundae Bloody Sundae
- Jail Cell Recipes
- Tongan Death Grip [Feat. Reef The Lost Cauze]
- God’s Shadow
- Dualtow Night Eagle
- Blood On My Hands
- Floating Goat
- Byzantine Jewelry
- Requiem For Black Benjy In 2 Parts [Feat. Crimeapple and Tha God Fahim]
- Pray For Sleep
- Hashem On A Pentagram [Feat. Ill Bill and Goretex]
- Masked Stickups
- Hollow Light Severed Sun
- Cold In Philadelphia
- Gracious
- A Power Governments Cannot Suppress
Beatz
- Stu Bangas: 1, 6, 12
- Oh No: 2
- C-Lance and Rob Viktum: 3
- Scott Stallone and Vinnie Paz: 4, 17, 18
- Dj Skizz and Marco Polo: 5
- Mr. Green: 7
- Giallo Point: 8
- Vic Grimes: 9
- Dj Muggs: 10
- Bronze Nazareth: 11
- C-Lance: 13, 19
- Nick Jackelson: 14
- MenaceTheDj: 15
- Ish Quintero: 16
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