Uptown XO – Culture Over Corporate

Voto: 4

Seppure non ne sia l’esponente più noto, Uptown XO porta sempre la sua Washington D.C. nel cuore chiamandola affettivamente Chocolate City, proprio come amano fare i residenti afroamericani che più di altri hanno caratterizzato i tratti somatici della cittadina e dei luoghi a lei confinanti – il Maryland e la Virginia – formando il triumvirato geografico meglio conosciuto come DMV. Anche senza detenere la fama mediatica delle locali rappresentanze mainstream, onere attualmente spettante a Wale, l’mc si è sempre distinto positivamente sia nella carriera solista che nella prestigiosa militanza underground nel gruppo Diamond District, contribuendo a far crescere un movimento che ha storicamente faticato a emergere a causa dell’ingombrante vicinanza di New York, crescita aiutata dall’onda creativa di quella Low Budget Crew della quale Kev Brown e Oddisee sono i principali esponenti.

Cinque mixtape, un album ufficiale – quel “Colour De Grey” già apprezzato su queste pagine – e ben sei anni trascorsi da quest’ultimo rappresentano tutto ciò che ha preceduto l’uscita di “Culture Over Corporate“, un disco molto concettuale, che si ferma spesso a raffrontare la Washington del passato a quella del presente legando titolo e intenzioni del lavoro a doppio filo. Un’analogia che, nel suo accettare i cambiamenti occorsi, va comunque alla ricerca del vecchio cuore della città, facendolo pulsare ancora nei ricordi di chi certe cose le ha toccate con mano rievocando emozioni create dai punti di riferimento vissuti durante la propria crescita, prima che tutto venisse fisicamente spazzato via da tecnologia e complessi edilizi di lusso.

Interamente prodotto da un Drew Dave già precedentemente a stretto contatto con Uptown e artisti della medesima cerchia come yU e Kenn Starr, “Culture Over Corporate” presenta nove brani compressi in poco più di mezz’ora, compensando la sua esigua durata – in coda a più di qualche brano si trova pure qualche strumentale che non avrebbe sfigurato in altri usi – con contenuti stimolanti, riflessivi e coerenti, espressi da un rapper che già in passato si era ben distinto per la poliedricità del suo flow e per comprovate capacità tecniche. Tali peculiarità vengono qui riproposte con successo per mezzo di un linguaggio svelto ma chiarissimo, una gestione della ripresa del fiato meno rumorosa e una facilità di dizione certamente impressionante quando si arriva a toccare determinate velocità nell’enunciazione di sillabe complesse da abbinare, facendo dei passaggi stretti una delle punte di diamante di tutta l’offerta.

Washington è dunque al centro del palcoscenico, vestendo spoglie sempre differenti. “Intro” ne è una sorta di biglietto da visita con cui l’artista ne vuol essere ambasciatore, raccontandone la storia per renderle giustizia, allontanando i luoghi comuni e condividendo ricordi sopra un loop di voci nere del Soul d’annata ben adagiato su a una batteria accuratamente ripassata con effetti untuosi e il frusciare appena percettibile di un vinile; meccanismi che si alternano alla maggior pulizia di altri episodi. L’identità cittadina emerge grazie a esplicite dediche: “Song 4 CC” e il suo giro di chitarra così carino vogliono adeguatamente glorificare quella Chocolate City in parte minata dal processo di gentrificazione attuato al solo vantaggio dei profitti aziendali e delle solite categorie di benestanti (<<this song is for CC/CC changed over the years became older the years wasn’t easy/I miss the old you but respect what you became/…/that ain’t why you stop fuckin’ with black guys/you still like to hang/Jumbo iced tea, mumbo sauce, three wings/if they ain’t from the city they wouldn’t understand the change>>), stendendo sostanziose metafore su una composizione arricchita della giusta spruzzata di Jazz, perfetta per essere riprodotta dal vivo in un piccolo club locale riproponendo ponderazioni che difficilmente troveranno una risposta adatta a quesiti pesanti come macigni (<<what she gonna do when the real ones are all gone?>>).

Questo metodo di scrittura è appositamente volto a rievocare l’aria di un tempo e momenti come “City Feel” sono altrettanto brillantemente costruiti su multipli riferimenti che permettono al Nostro di giocare a piacimento col titolo, creandovi attorno i necessari collegamenti coi concetti espressi e altresì usandolo per terminare le barre con la giusta assonanza o semplicemente per completare una frase andando a braccetto con il senso di rilassatezza fornito dal comparto musicale.

Si parla di Washington e non ci si potrebbe quindi astenere dall’entrare nel campo sociopolitico americano, oggi quanto mai prolifico per divenire il bersaglio di dardi avvelenati. “Dead Presidents (Pt. 4:44)” si rivolge all’attuale regime non solo trafiggendolo con il doppio senso del ritornello, il testo è una sorta di preghiera rivolta verso l’alto – la fede è una tematica ricorrente nei pezzi – chiedendo una giustizia divina che ponga fine, non importa se nel peggiore dei modi, a una situazione che oggi nega la speranza di un futuro migliore e a una bulla onnipotenza per la quale conta solo lo schiacciamento dei meno abbienti e l’allontanamento del diverso. Capita di conseguenza che la nostalgia lasci il posto allo sfogo, un umore intuibile nell’altrimenti tranquilla espressività della delivery dell’artista, che in “Hit Me Wit Da Hard” troviamo a muso duro impegnato a svuotarsi le scarpe dai sassolini rivendicando il senso di appartenenza della sua comunità alla città, gettando altro acido contro Trump, i suoi muri e le autorità locali, infarcendo il testo con un po’ di strada e consapevolezza di sé, intenzioni espresse sopra una sezione ritmica dall’incedere trionfante.

Più solare e melodica è l’ambientazione elaborata per il singolo “Pimp Harder Pt. 2”, contraddistinto da un coro sopra il quale soffia l’aria di Atlanta. Il metodo di scrittura cala la carta dello storytelling dipingendo le ambizioni di un giovane pappone e concentrando l’inchiostro sulla sua situazione familiare, sulle prime mosse per prepararsi all’introduzione nell’ambiente (<<a real man is able he ain’t know nothing about that/he just wanted some socks and a stable>>), mischiando il forte potere immaginativo a incastri multisillabici di qualità. La coscienza del pezzo è diametralmente opposta – ma in fondo simile – a quella espressa in “The Man”, dedicata agli uomini, ai padri e al senso di responsabilità; e la sensibilità non difetta nemmeno quando l’attitudine diventa più battagliera come accade nella dinamica “Make Noise”, travolgente per come induce a muovere la testa da nord a sud seguendo le vibrazioni di una batteria pesissima e un irresistibile ritornello cantilenato, circostanza nella quale l’attore principale descrive il suo stile confrontandosi senza alterare la sua indole pacifica e fruendo della valida assistenza di un animo affine come quello di yU.

“Northwest Coastin'” offre infine uno dei piatti più squisiti del menu locale, omaggiando con premura il tanto caro go-go nel sample vocale scratchato e prendendo ancora una volta spunto dal concept del disco per esprimere le prime barre (<<they say you can do anything if you focus on it/but I’ve been on my shit, but you know what it is/they say don’t fuck with nobody if it’s no benefit>>), quindi alzando la posta in palio nella seconda parte del brano con abili giochi di sillabe che ben affrontano una variazione tematica stimolante, derivante da un’esperienza trascorsa sul campo.

La lunghezza della recensione, inconsueta per un lavoro di estensione così modesta, riassume adeguatamente la più spiccata peculiarità di “Culture Over Corporate”, ovvero l’essere un disco denso di riflessioni, ricordi, spirito e abilità tecnica, riassunto in uno spazio ristretto nel quale c’è posto solo per ciò che conta davvero: l’essenziale. Lo tenga bene a mente Washington, chiamata ora a contraccambiare adeguatamente i sentimenti di un cantore devoto, il quale si sta prodigando con lodevole impegno nel rafforzare l’identità underground che ferve in una città che non andrebbe ricordata solo perché vi dimora la Casa Bianca.

Tracklist

Uptown XO – Culture Over Corporate (1 Force United 2020)

  1. Intro
  2. Dead Presidents (Pt. 4:44)
  3. Song 4 CC [Feat. Leslie Olabisi]
  4. Hit Me Wit Da Hard
  5. Pimp Harder Pt. 2
  6. City Feel
  7. Make Noise [Feat. yU]
  8. The Man
  9. Northwest Coastin’

Beatz

All tracks produced by Drew Dave

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