Smif-N-Wessun – Infinity
Un po’ c’eravamo cascati, tocca ammetterlo. Avevamo accolto la gradita notizia del ritorno degli Smif-N-Wessun, assenti su lunga distanza da sei anni, con speranza, invogliati da un singolo le cui premesse parevano muoversi in maniera del tutto differente rispetto a quanto ci siamo ritrovati ad ascoltare in seguito. “Elephant In The Room” si era infatti catapultata in rete quale traccia tipicamente sintonica allo stile rude del gruppo, proponendone tutti gli elementi essenziali: un ben confezionato uno/due al microfono, Tek e Steele a completare l’uno le linee dell’altro a conferma di una chimica rimasta efficacemente immutata nei tre decenni trascorsi dal loro leggendario esordio, un beat pimpante, sporco, ben costruito, avvolgente, rimbalzante e duro, proprio come l’attitudine che usa scorrere internamente alle vene del famigerato duo di Brooklyn – o Bucktown, se preferite.
Nella sua essenza di prosieguo di un percorso d’introspezione e crescita naturale già pertinentemente evidenziato in “The All“, “Infinity” presenta una sorta di traguardo di completamento nel raggiungimento della consapevolezza dei due rapper, l’apice di un rinnovo spirituale che da ex guerrieri del ghetto li vede oggi vestire i panni di figure sagge, di riferimento per i più giovani, il che rappresenta un intento ineccepibile e assai apprezzabile, ma che non lascia alcun sentore di quella carica grezza con cui il duo si era fatto largo nella folta concorrenza vigente nella parte centrale degli anni novanta. Tale aspetto “The All” l’aveva almeno parzialmente mantenuto, senza sacrificarlo in eccesso a favore della citata maturazione, pensiero confermato da un’estetica produttiva che già allora si era solo parzialmente ammorbidita, ma aveva reperito soluzioni molto interessanti nel suo far digerire ai fan questa nuova direzione.
La critica non è certo rivolta alle intenzioni, anzi: queste sono lodevoli sotto ogni punto di vista, se si considera la capacità di riuscire a ricavare tesoro dalle proprie esperienze e dagli errori, ponendo il tutto a disposizione di chi è meno navigato e sta vivendo le medesime difficoltà, facendo sì che i testi vengano a possedere anche un concreto e prezioso valore sociale. La stretta di mano collaborativa con 9th Wonder e il suo Soul Council, già assoldati per intagliare la legna impregnata di Soul nel 2019, andava allora a trovare un corretto compromesso tra la patentata fama del gruppo e la necessità di presentarsi al pubblico in maniera differente, sì, ma non del tutto distante da ciò che gli Smif-N-Wessun hanno raffigurato, seppure con risultati alterni, da “Dah Shinin” fino ai giorni odierni, senza necessariamente tranciare quel filo conduttore così importante per la loro eredità.
Se la citata “Elephant…”, per quanto erroneamente, aveva confermato che la formula non sarebbe stata alterata oltre il necessario (il che era un bene), il resto del disco suggerisce invece una metamorfosi nei suoni che cancella quasi in toto la riconoscibilità stilistica dei due, premendo maggiormente verso la direzione desiderata da chi opera alle macchine anziché trovare una giusta mediazione nella natura di ciascun artista coinvolto, togliendo vigore e ciccia da un piatto per il quale ci eravamo immaginati un sapore del tutto diverso. Il problema non riguarda quindi i contenuti lirici e la capacità di saper intrattenere al microfono per la durata di quattordici brani: sia Tek che Steele eseguono il loro buon lavoro come sempre hanno fatto, sviluppando ulteriormente la loro capacità di trattare tematiche profonde, atte a stuzzicare il ragionamento, argomenti senz’altro adatti a chi ha superato la soglia dei cinquant’anni e può permettersi di autoassegnarsi un ruolo comunitario significativo, a maggior ragione dopo essere cresciuto con aspettative di vita nettamente inferiori.
I dubbi, semmai, emergono a livello esecutivo, dato il cospicuo quantitativo di pezzi che suonano vuoti, privi di mordente, o paiono provenire da idee già calcate in passato da 9th Wonder, Khrysis, Nottz e via via gli altri collaboratori che completano il team di produzione, senza contare l’eccessiva tendenza a spingere sul ritornello cantato, scelta che poteva anche essere sopportabile in circostanze limitate, ma è troppo snervante e snaturante in un contesto che, a personale avviso, fallisce nel renderere il dovuto omaggio alla sacralità del vecchio approccio rugged-n-raw. Non c’è nulla da criticare a livello di atteggiamento, se Steele attacca la sua strofa di “Chuuch” con notevole dimestichezza nel flow parlando di concetti condivisibili, l’atmosfera generale della traccia – il basso sintetizzato è bruttino – fa però pensare di essere capitati sul disco di qualcun altro; “Shine” e il suo buffo crossover tra R’n’B anni novanta e piattini alla moda lascia a desiderare non meno del lagnoso contributo di Ralph Tresvant, manco sussistesse la necessità di spedire il gruppo in chissà quale classifica; e non sapremmo decidere se sia questa a essere peggiore di “Namaste” o viceversa, tanto quest’ultima è tristemente tirata a lucido in maniera quasi irrispettosa nei riguardi della carriera stessa dei due celebrati componenti del Boot Camp Clik.
I difetti nella continuità dell’album non sono purtroppo difficili da scovare, demerito di una prima parte di scaletta ove si fatica enormemente a individuare qualcosa di davvero interessante. La titletrack è un singolo sufficiente ma nulla più, ricco di buone intenzioni, celebrativo della longevità, ma edulcorato da sonorità appesantite dall’utilizzo troppo ripetitivo del sample vocale mutuato dal Blastmaster; “Medina”, strumentale assai noiosa, offre se non altro stuzzicanti intrecci attraverso i quali Tek e Steele fanno intravedere quel saper menare le mani (liricamente) come un tempo, Pharoahe Monch tritura incastri di sillabe che è un piacere, eppure siamo lontani dall’annoverare l’episodio tra i punti fermi della scaletta; “Black Eminence” vede tutti i partecipanti sugli scudi grazie a un’affluenza verbale del tutto convincente, per quanto strida sentire il compianto Prodigy parlare di hardcore su un tessuto così delicato e morbido, che poi malaccio magari non è. Ciò che invece riesce a catturare degnamente questa nuova era risiede in passaggi come “Beautiful Trip”, ben allestita con piano e percussioni, tappeto leggero ma più congruo al sottolineare il passaggio evolutivo, come pure “On My Soul”, finalmente con un ritornello coinvolgente e originale, “Heard About Me” è poi uno dei pochi beat che definiremmo azzeccati, con l’ennesimo missile postumo di Sean P composto dai noti giochi a parole invertite che hanno reso esilaranti le sue rime (<<I’m a star in my hood, niggas call me the slum lord/Lord of the slums, peep the gun on the young lords/tie you to a chair and prepare for the gun blow/the finger wave intermission call boss Mutombo>>).
Un peccato, dunque, perché Tek e Steele confermano sistematicamente di possedere una forma lirica ancora rilevante, catalizzante (al contrario del qui partecipe Buckshot…), nonché di sapersi proporre in maniera diametralmente opposta rispetto agli esordi senza perdere la benché minima credibilità. Se la perdono altrove, è per colpa di beat che non fanno totale giustizia agli scopi, con qualche caduta di stile in eccesso; nel complesso, il disco risulta essere insipido, a volte annacquato, lontano anni luce dal vero marchio di fabbrica di una realtà riconosciuta e che tuttavia persevera nell’alternare eccellenza e scivoloni scrivendo un trend sin troppo preciso.
Tracklist
Smif-N-Wessun – Infinity (Bucktown USA Entertainment/Duck Down Music 2025)
- Infinity
- Moses Promises
- Namaste [Feat. Sweata]
- Medina [Feat. Pharoahe Monch]
- Black Eminence [Feat. Prodigy]
- Chuuch [Feat. Jalisa]
- Beautiful Trip
- Enjoy Ya Life
- Shine [Feat. Ralph Tresvant]
- Just Stay! [Feat. Conway The Machine]
- On My Soul [Feat. Buckshot and Yountie Strickland]
- Heard About Me [Feat. Sean Price and Maverick Saber]
- Elephant In The Room
- Bad Guy
Beatz
- Khrysis: 1, 2, 6, 7, 10, 12, 13
- Ka$h: 3
- Sndtrak: 4, 11
- Mu’aath: 5
- 9th Wonder: 8, 9
- Nottz: 14
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