Public Enemy – Fear Of A Black Planet

Voto: 5

Molto è cambiato da quell’aria di primavera che per la prima volta avvolgeva quelli che sarebbero stati i fantastici anni novanta, periodo nel quale l’Hip-Hop si apprestava a lasciare per sempre le sue umili origini partendo per un lungo viaggio attorno al mondo, facendo conoscenza con tanti nuovi appassionati e unendoli tra loro con un filo d’acciaio, sotto il segno della fratellanza e della lotta contro i soprusi. Il Rap da festa era stato momentaneamente accantonato, preso a calci nel sedere dall’ondata Gangsta promossa dalle minacciose strade della California e dalla necessità della collettività afroamericana di proseguire e approfondire ancora la conoscenza di sé, capire le proprie origini, denunciare le differenze, emergere e trovare un adeguato collocamento all’interno di una società discriminatoria. Uno spunto nato dalla frangia più coscienziosa e militante di quella scienza chiamata doppia H.

Trent’anni or sono, i Public Enemy ci avevano visto lunghissimo e avevano tentato di impartire delle lezioni che ancora non applichiamo, se alla fin fine vincono sempre i potenti e l’importante è abbassare la testa, obbedendo come degli automi passivi. Nonostante qualche progresso sia stato compiuto e molte barriere culturali siano state abbattute con successo, la paura del pianeta nero raffigurato mentre emana la leggendaria icona del b-boy nel mirino lì nel fronte copertina di uno dei dischi più importanti della storia della musica è ancora tra noi, viva e vegeta, alimentata dalla chiusura mentale e dall’ignoranza.

“Fear Of A Black Planet” usciva il 10 aprile del 1990, erigendo il terzo pilastro dell’illustre carriera di un gruppo dall’immagine forte, organizzata e militarizzata, trascinato da un uomo nato con la stoffa del leader e cresciuto studiando gli ideali delle Black Panthers, Chuck D, un rivoluzionario che stava dando voce alle frustrazioni della propria comunità scoprendo verità scomode che l’America benpensante bramava di censurare quanto prima. Un genio intellettivo che si fondeva alla perfezione con la sregolatezza portata in dote dal mattacchione Flavor Flav per il contrasto che due personalità così opposte sono sempre state in grado di creare; con le abilità ai piatti di Terminator X, uno che la bocca non l’ha mai aperta in pubblico ma ha parlato – e molto chiaro – attraverso mixer e ruote d’acciaio, puntellando l’organizzato caos sonoro della Bomb Squad; e con il problematico Professor Griff, che proprio in quel periodo aveva creato non pochi grattacapi al gruppo per via di non edulcorate dichiarazioni antisemite alla stampa, preparandosi a vivere il suo temporaneo esilio trovandosi privato del suo incarico di Minister Of Information e capo delle S1W’s, la crew corredata di basco, tuta mimetica e armi di plastica, un allestimento che giocava un ruolo determinante nella presenza scenica del collettivo.

“Fear Of A Black Planet” riprende lì dove terminava “It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back”, ampliandone vedute e orizzonti; e ancora oggi, nell’opinione di chi scrive, non si sono mai visti due dischi consecutivi di questo livello realizzativo e impatto sociale. Due anni prima, i Public Enemy erano le Pantere Nere dell’Hip-Hop, il principale canale comunicativo delle classi sociali poste ai margini; la rivoluzione non era certo terminata lì e, contrariamente al passato, sarebbe finita anche in televisione, soprattutto nel momento in cui il gruppo avrebbe anticipato l’uscita dell’album con uno dei suoi singoli più conosciuti, “Fight The Power”, il cui video era stato girato un anno prima – sempre in aprile – seguendo le direttive di Spike Lee, che aveva chiesto a Chuck e soci di poter inserire un loro pezzo inedito all’interno della colonna sonora del film “Do The Right Thing”. La clip, che ebbe una buona esposizione anche in Italia, simulava una rivolta razziale a Brooklyn unendo le tematiche della pellicola di Lee e gli intenti del nuovo disco dei Public Enemy, sottolineando che l’America nera era stanca di ascoltare altre baggianate, eleggendo dunque un portavoce che non provasse alcun timore nel trasmettere il suo pensiero esattamente per quello che era.

Coraggio che permise ai testi di Chuck D di andare oltre nella sua filosofia, senza fermarsi alla rivoluzione fine a se stessa. Una maturazione sfociata in passi tanto determinanti quanto pericolosi, tutti affrontati con una prospettiva più – appunto – planetaria: “Pollywanacracka” andava ad affrontare la visione di un mondo ripopolato dalla mescolanza tra bianchi e neri, un argomento che definire per l’epoca tabù non rende propriamente l’idea, brillantemente svolto peraltro anche nella titletrack; “Anti-Nigger Machine” aveva un titolo assai provocatorio, ma che rendeva essenzialmente l’idea della realtà di una situazione che per certi versi possiamo traslare anche ai giorni nostri, insinuandosi nella testa dell’ascoltatore come un serpente letale seguendo i ritmi di una musica rumorosa e misteriosa, cercando ansiosamente un segnale radio che finalmente arrivi e spari la verità senza preoccuparsi delle conseguenze; “Brothers Gonna Work It Out” era un promemoria per i fratelli e le sorelle, promettendo che ognuno, a tempo debito, arriverà a conoscere la sua verità scoprendo il proprio valore e dimenticando di provenire da un popolo oppresso – quindi di essere, come disse Chuck all’epoca, superbad.

Una vera e propria guerra a 33 giri, condotta sotto il segno della rivolta verso lo stereotipo, il senso d’inferiorità ed emarginazione sociale, per la quale ci si avvalse di numerosi marchingegni esplosivi piazzati a seconda del bersaglio da colpire. Da qui la consapevolezza dell’importanza storica di numerosi altri brani fondamentali come “Burn Hollywood Burn”, una collaborazione irripetibile per un’epoca nella quale i featuring in sostanza non esistevano e che mise sullo stesso piano boicottante un Ice Cube appena uscito dalle traversie finanziarie con gli N.W.A., pronto all’esplosivo esordio proprio sotto le cure della Bomb Squad, e soprattutto Big Daddy Kane, autentico stilista delle rime conosciuto in ambiti più autoindulgenti ma che qui metteva a disposizione l’innato talento per una causa comune, un passo allo scoperto per lui fino a quel momento inedito.

Impossibile, poi, dimenticare l’incessante “Welcome To The Terrordome”, che aveva il potere di far sentire concretamente la minaccia che l’America bianca stava per ricevere dritta in faccia, la recriminazione di “Who Stole The Soul?”, il personale Funk targato Enemy e promosso in “Power To The People” o la minimalista ma incendiaria “B Side Wins Again”, spettacolare analogia che poteva valere tanto per le radio opposte alla promozione di un certo tipo di musica quanto per le differenze razziali. E di certo, nella situazione in cui siamo, Flavor Flav si sarà fatto una sonora risata delle sue pensando alle due strofe scritte per “911 Is A Joke” e correlandole all’attuale pandemia globale, scoprendo la piaga dell’assistenza sanitaria americana in un brano impostato in maniera comica, ma con un tragico sottofondo di realtà che trent’anni dopo ha mietuto ancora troppe vittime, un conteggio tristemente aperto.

Molto è cambiato, si diceva; qualcosa per fortuna in meglio. Eppure l’ombra di quel “…Black Planet” continua a incombere pericolosamente sulla supremazia bianca. Il messaggio dei Public Enemy è stato lanciato tre decadi fa ma porta ancora con sé la freschezza di quella primavera: la paura del diverso è ancora qui, viva, talmente terrificante da spingere a cercare di nuovo la strada della supremazia, alzando altri muri contro chi ha bisogno di aiuto. Sentire Chuck manifestare il proprio disappunto (<<’cause no man is God, and God put us all here/but this system has no wisdom, the Devil split us in pairs/and taught us white is good, black is bad/and black and white is still too bad>>) purtroppo suona ancora molto attuale; ma non per questo ci si deve arrendere. I Public Enemy, pur non essendo più ciò che furono, sono sempre qui, oggi come trent’anni fa. E lottano ancora. Perciò se il Rap può permettersi di essere ciò che è, lo deve anche al loro coraggio di manifestare un pensiero avverso pur partendo da una posizione di presunta inferiorità: tantissimi artisti hanno trovato la strada già tracciata proprio per merito di dischi come “Fear Of A Black Planet”.

Un lascito lusinghiero, per un colossale pezzo di storia della musica ribelle. Quella che di pause non vuol nemmeno sentirne parlare.

Tracklist

Public Enemy – Fear Of A Black Planet (Def Jam Recordings 1989)

  1. Contract On The World Love Jam
  2. Brothers Gonna Work It Out
  3. 911 Is A Joke
  4. Incident At 66.6 FM
  5. Welcome To The Terrordome
  6. Meet The G That Killed Me
  7. Pollywanacracka
  8. Anti-Nigger Machine
  9. Burn Hollywood Burn [Feat. Big Daddy Kane and Ice Cube]
  10. Power To The People
  11. Who Stole The Soul?
  12. Fear Of A Black Planet
  13. Revolutionary Generation
  14. Can’t Do Nuttin’ For Ya Man
  15. Reggie Jax
  16. Leave This Off Your Fuckin’ Charts
  17. B Side Wins Again
  18. War At 33 1/3
  19. Final Countdown Of The Collision Between Us And The Damned
  20. Fight The Power

Beatz

All tracks produced by The Bomb Squad

Scratch

All scratches by Terminator X and Wizard K-Jee

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