Phill Most Chill and Djar One – Deal With It
A volte, al fine di scuotere un po’ l’apatia, è necessario tornare indietro nel tempo per darsi la carica. Passo obbligatorio, in particolare quando poco o nulla riesce a smuovere l’interesse in un determinato settore, sensazione che nel campo della musica può giungere di frequente. Attenzione, però: non si tratta affatto di un sistematico lamento per dei particolari aspetti dimenticati, o perché una volta era tutto meglio e oggi è quasi tutto ridondante; prodotti che vanno dal buono all’ottimo se ne reperiscono ancora, basta avere la volontà di scovarli, perché alla fine funziona tutto come sempre: i grossi mezzi di comunicazione propineranno la musica che conviene di più, la massa si accoda perché conta solo apparire uguali agli altri e farsi vedere in linea con le tendenze del momento, troppo spesso – infine – chi meriterebbe una maggior esposizione mediatica è costretto ad accontentarsi delle briciole, col talento che diventa un fattore da considerarsi oramai estinto.
Quali sono i metodi per sbrogliare questo schema? Le risposte sono a nostro parere due: o si osa sperimentando, tentando di ridefinire i confini di un determinato genere, oppure se ne rispolverano gli elementi più caratteristici e li si adattano alla modernità, mantenendo saldo l’humus culturale d’origine, senza copiare, ricalcare, risultare inadeguati. L’ultima offerta di Phill Most Chill, che per l’occasione troviamo abbinato al produttore francese Djar One quale ennesima dimostrazione che l’asse U.S.A./Europa ha ben inteso come preservare le radici culturali dell’Hip-Hop, riflette esattamente la seconda alternativa, ma lo fa in maniera diametralmente opposta alla nutrita schiera di revivalisti della golden age che va alla ricerca del taglio del campione alla Premier o del fat beat in tessitura newyorkese. Le decisioni esecutive riportano in auge un Rap spedito sia nelle ritmiche che nelle metriche, puntando l’evidenziatore sulle qualità tanto del maestro di cerimonia quanto del beatmaker, andando quindi a richiamare quanto fu in voga negli anni ottanta più che nei novanta, tracciando una netta linea di demarcazione tra ciò che si usa omaggiare nella consuetudine odierna e il recupero di una tradizione che è a tutti gli effetti andata persa, forse perché ritenuta a errore superata.
Phill, che nonostante sia semi-sconosciuto non è certo un novellino, presenta peraltro credenziali idonee a questo tipo di progetto, avendo vissuto in prima persona l’ascesa del movimento – tracce della sua attività in studio risalgono al 1988 – e contribuito in maniera significativa alla causa pur senza pubblicare un cospicuo numero di dischi (ha un passato da dj, beatmaker e giornalista), accettando con umiltà di essere tagliato fuori dalla legge dei grandi numeri pur essendo consapevole di potersi definire un vero mc. E, dato che il livello di sopportazione dell’utente in cerca di autenticità tende a deragliare fin troppo spesso, considerato l’eccessivo numero di proposte che offendono l’intelligenza di chi la musica la vive, seziona, studia e comprende nei significati più profondi, capita che anche un prodotto realizzato ispirandosi al vecchio risulti dannatamente fresco, com’è esattamente il caso di “Deal Wit It“, il quale non ha bisogno di imitare nessuno, ma solo di circostanziare la classe di chi l’ha realizzato.
Per ogni artista che ce l’ha fatta – sui meriti o meno, è meglio non intavolare la discussione, pena farsi nervosi senza che occorra – ce ne sono decine e decine che hanno dovuto accantonare le loro aspirazioni, è proprio attorno a questa tematica che l’album fa girare i propri intenti, i quali ci piacciono al pari del senso etico e morale espresso, nonché dalla totale scrematura di futili pose e materiale di scarto. A farci trarre le conclusioni ci pensano liriche e beat, del tutto spogliati della necessità di esibire materialismi per delineare una (presunta) categoria superiore, sferrando piuttosto l’attacco con concretezza asciutta, intelligente e soprattutto oggettiva, proponendo un Rap la cui peculiarità principale è il semplice essere fatto come scritto in un manuale che sembra giacere disperso chissà dove. Grazie a voce ferma e sicura, timbrica dotata della giusta profondità per risultare carismatica, capacità di divorare accoppiamenti multipli di sillabe mantenendo comprensibile ogni parola, Phill affronta l’essere veri e sottovalutati – quando non addirittura ignorati – con lucida maturità, senza inscenare piagnistei contro un destino avverso e ingiusto né scagliarsi in eccesso contro gli altri per guadagnare punti facili, partendo da un presupposto tanto semplice quanto curioso. La linea di basso dominante ed essenziale di “Born To Rock” parrebbe giungere proprio a conclusioni di questo tipo; e chissà se quel <<some livin’ like a plant>> sia mai subliminalmente accusatoria verso colleghi d’un tempo, cancellati per sempre dalla mancanza di spirito di sopravvivenza nel gioco.
Il punto fermo è la coscienza di essere davvero forte e di non farsi alcun problema se tale messaggio non perviene a terzi, spazzando il pensiero altrui come fosse fastidiosa polvere sul tavolo, concentrandosi invece sull’esibizione di abilità, originalità e costante energia. Una volta che il treno lascia la stazione, non conosce infatti fermate intermedie. Il modo di porsi è maturo e allergico ai tradizionali luoghi comuni dello star system: in fin dei conti, si è pur sempre artefici del proprio futuro, come ben espresso dalla titletrack, quindi meglio trattare l’argomento con saggezza e – perché no? – tirando fuori i campanelli natalizi dal sacco dei ricordi della vecchia scuola senza che la decisione abbia necessariamente un tratto vetusto. La furbizia sta infatti nel creare quei collegamenti storici atti a delineare il vissuto culturale da mischiare all’attualità, tant’è che tra le deliziose leccate di chitarra di “I Get Phunky” si citano Nice & Smooth come pure il sottosopra, scaricando il vagone sillabico su idee equilibrate, prospetticamente contrastanti con qualsiasi ideologia troppo spinta verso il virile. In fondo, anche se a qualcuno piace il rapper introspettivo e ad altri quello tecnico, al pubblico piace sempre di più quello col catenone più grosso degli altri, messaggio che “Ill Rhymin’” spedisce con determinata solerzia, chiedendosi al contempo perché mai non ci si prenda il tempo di analizzare la difficoltà con cui è stata scritta una strofa.
Se non altro, qualcuno si è accorto che di tanto in tanto una lezione stilistica vada tenuta, nel mezzo di scratch senza pietà, assonanze rapide e complesse che coprono di ridicolo gli odierni farfugli, solo rime precise e costruite con ingegno, come “Back To Rhymes” indica centrando peraltro l’obiettivo in pieno. Sarà il perfetto taglio del sample, la drum vivace, la musicalità del ritornello, fatto sta che Phill e Djar sanno benissimo come intrattenere grazie a trovate genuine e ghiotte, accendendo l’entusiasmo con pezzi tremendamente Funky come “Doin’ The Most” – sensazionale il giro di chitarra che fa da motore al pezzo – oppure fornendo ottime dimostrazioni competitive sulla frenetica “Ascension”. Il concetto di rime a vortice tenderà magari a ripetersi verso la conclusione, ma ciò non impedisce di scoppiare il botto con un fotofinish tutto in sprint, un flow scoppiettante e semplice voglia di creare belle sensazioni proponendo dell’ottima musica, creando uno standard qualitativo di cui l’Industria, purtroppo, non tiene più conto.
Tracklist
Phill Most Chill and Djar One – Deal With It (Beats House Records 2025)
- I Get Phunky
- Back 2 Rhymes
- Deal With It
- Born To Rock
- Ill Rhymin’
- Doin’ The Most
- Figure It Out
- Ascension
- Hell Yeah
- Whirldwind Vortex
- Let Yourself Go
Beatz
All tracks produced by Djar One
Scratch
All scratches by Djar One
Mistadave
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