Intervista ai Groovenauti (Novembre 2009)

Bra: anzitutto, complimenti, perché “Beauty industries” è un progetto molto originale, che mischia con equilibrio media differenti (musica, narrazione e disegno). Nell’Hip-Hop italiano, qualcosa del genere succedeva solo in “Numero 47” degli Artificial Kid, perciò comincio col chiedervi com’è nata la collaborazione con Elia Tomaselli e in che modo si è svolta la realizzazione del disco.
Psycho: “Beauty industries” nasce dalla voglia di pensare ai nostri progetti in maniera transmediale, com’è sempre stato per noi fin dall’inizio. Unire musica, Rap, recitazione, scrittura e sfruttare media diversi per promuovere il nostro lavoro, ma soprattutto per renderlo più completo e globale è sempre stato il nostro intento. Da qui, la scelta di collaborare con Elia, il nostro fumettista di fiducia nonché amico di vecchissima data, fin dal nostro primo disco, “Hiphopatronik” del 2005, nel tentativo di unire disegno e musica, di far prendere forma a entrambi reciprocamente e di portare avanti una strada già tracciata anni prima con la realizzazione di un fumetto underground, “Moloc”, che ci vide muovere i primi passi nel mondo dell’autoproduzione. Ironia della sorte, il nostro progetto più riuscito in questo senso è proprio “Beauty industries”, che però non è tratto da un fumetto di Elia, bensì dall’omonima graphic novel dell’artista Ausonia.

B: parliamo dell’ingresso nel gruppo di Tekem, già bassista per Beatrice Antolini, e il passaggio, rispetto a “OverKill”, a un uso più accentuato di sonorità Indie ed Elettroniche. Quanto riuscite ancora a considerarvi una realtà Hip-Hop? E se fino al vostro disco precedente il riferimento alla Def Jux (ma non solo a loro) era molto marcato, oggi i Groovenauti a chi ritengono di essere più vicini?
P: personalmente, ho sempre inteso l’Hip-Hop come un non-genere, un laboratorio di generi in cui mescolare, sperimentare, sottrarre e aggiungere a piacimento. Non sono mai riuscito a identificarmi con un’estetica o un atteggiamento preciso, a volte imposto. Il Rap non rappresenta altro che un linguaggio, forse il più modellabile musicalmente parlando, ed è fondamentalmente un mezzo di comunicazione potentissimo che non va sottovalutato e svilito come invece accade oggi nel mainstream, ma anche nel nostro underground. Diciamo che non mi sento assolutamente Hip-Hop nel senso che molti attribuiscono oggi a quest’espressione. Per quanto riguarda le somiglianze artistico/stilistiche, El-P, Dälek, Mike Patton, Anti-Pop Consortium rimangono i modelli da seguire, ma non sono che alcune delle voci che compongono la stratificazione della nostra musica. Ispirarsi, metabolizzare, interiorizzare e creare qualcosa di proprio rimane l’intento primario. In questo senso, i concetti di vicinanza e lontananza perdono i loro contorni definiti.
Tekem: c’è un concetto molto interessante che cito da Nataninez e che ci ha spinto a trovare nuove direzioni. L’Hip-Hop (e la musica Rap in genere) si è sempre nutrito di altra musica e la sua forza comunicativa scaturisce dal calderone eclettico che viene a crearsi, quando l’Hip-Hop comincerà, e a mio avviso ha già cominciato a farlo da tempo, a nutrirsi di se stesso, ad autocitarsi e ad autocelebrarsi, finirà con il fagocitarsi. Ecco il perché della ricerca di elementi non propri dell’Hip-Hop ed ecco perché si potrebbe avere la presunzione, che ovviamente non abbiamo, di essere tra i pochi ad aver mantenuto quello spirito evolutivo che l’Hip-Hop ha avuto per tutta la durata degli anni ’80 e ’90.
Max Producer: mi fa piacere tu abbia notato quest’ulteriore passo, o perlomeno il nostro tentativo di sfidare nuovamente il genere da cui proveniamo per riuscire a sfruttare al meglio la sua vera natura di non-genere; io mi sento Hip-Hop per questo motivo. Se invece mi parli di Hip-Hop come cornice precostituita, come musica che parla di sé e con sé, non mi ci sento dentro. Io mi sento vicino a chi vuol credere che le cornici limitino l’apertura alla creatività.

B: “Beauty industries” si allontana dai canoni classici dell’Hip-Hop anche per quel che riguarda il Rap, Psycho lavora più sulle immagini che sulla semplice quadratura delle strofe, le voci diventano spesso materia musicale da trattare in fase di produzione come ogni altro strumento e i cori caratterizzano diverse tracce (ad esempio in “Vita artificiale”). E’ una scelta dettata dalle esigenze compositive di “Beauty industries” o si tratta di un tassello in più nella costruzione della vostra identità?
P: la voce è uno strumento, comporre senza considerare questo concetto significa rinunciare a lavorare su un elemento che può arricchire moltissimo l’atmosfera generale di un pezzo. Lavorare anche sulle voci per Max è normale quanto lo è suonare un synth.
T: è stato un naturale processo di evoluzione/apertura dettato dal desiderio di sfruttare più mezzi comunicativi, credendo sia nella forza della parola che nelle suggestioni musicali. C’è anche una voglia di fondo di abbattere i cliché e le chiusure di genere, più ampio è lo spettro d’azione maggiori sono le possibilità di arrivare all’ascoltatore. Non penso ci siano delle esigenze compositive, se non quelle tematiche, è stimolante lasciarsi trasportare dalla composizione stessa, lasciando che sia in qualche modo il percorso a determinare l’obiettivo. Ci sono immagini, suggestioni, direzioni, propulsioni che cerchiamo di imprimere, qualsiasi sia il mezzo necessario per farlo.
M: Il nostro lavoro non è tanto frutto di esigenze compositive, quanto del naturale sviluppo di un tema, in questo caso dettatoci dalle tavole di Ausonia. Raramente pensiamo allo scheletro di un brano prima di crearlo, tutto nasce in progress. Si tratta di automatismo, più che di pianificazione. Ovviamente ci sono delle basi, ma non crediamo nelle forzature.

B: “Beauty industries” è stato presentato al Lucca Comics 2009 e verrà distribuito anche nelle fumetterie italiane. Tenendo presente quanto detto sul vostro non essere un gruppo propriamente Hip-Hop, che genere di risposte avete incontrato in un pubblico spesso così eterogeneo?
P: l’aspetto frustrante della nostra musica è quella di non avere un pubblico definito. Il b-boy medio è tendenzialmente spaventato dall’ascolto di suoni più legati al mondo dell’Elettronica che a quelli della black music, come lo è da testi che non toccano assolutamente temi autocelebrativi, di affermazione personale o di strada; ma la scena Rap è pur sempre quella da cui proveniamo, per cui in qualche modo bisogna cercare di muoversi all’interno della sua placenta e bucarla lì dov’è possibile, quando se ne presenta l’opportunità. “Beauty industries” rappresenta una di queste opportunità: arrivare a un pubblico eterogeneo e diversificato, ma accomunato teoricamente dalla predisposizione per la ricerca e per la vicinanza a temi fantastico/fumettistici. Il canale distributivo al quale Pan Distribuzione ci permette di accedere è un passo avanti nello sfondamento di certe logiche costrittive.

B: più in generale, come si svolgerà la promozione del disco? Avete girato anche un video (“Economia post-industriale“), a che genere di piattaforma vi rivolgerete?
P: Lucca Comics 2009, Anteprima (il catalogo mensile di Pan da cui il disco è ordinabile), MySpace, YouTube e Facebook sono i canali che stiamo cercando di sfruttare al meglio per la promozione. Crediamo molto nel supporto video, a cui abbiamo dedicato particolare attenzione realizzando appunto il videoclip di “Economia post-industriale” in quel di Trento. Suonare tanto in giro rimane comunque l’obiettivo per una promozione più completa. Forse quando la scena si evolverà musicalmente sarà più semplice, “Numero 47” in questo senso ci dà qualche speranza.

B: nella vostra musica si percepiscono chiaramente alcune influenze provenienti dalla letteratura (le distopie), dal cinema (in “OverKill” citavate apertamente Lynch e Cronenberg), ora anche dal fumetto. Si tratta di una prassi meno comune di quanto potrebbe sembrare, anche perché spesso nell’Hip-Hop i riferimenti sono pretestuosi, buttati lì a mo’ di citazione; voi invece utilizzate tutto ciò come un humus, una sostanza organica da cui trarre idee e ispirazioni: raccontateci quest’aspetto.
P: hai beccato in pieno uno degli aspetti credo cruciali della nostra musica! La nostra è quella che Zygmunt Bauman definirebbe cultura ibrida: la ricerca della propria identità nella libertà stessa da identità assegnate e statiche, nella licenza di sfidare e ignorare quei tipi di etichette o stigmi culturali. Se nei nostri testi e nella nostra musica esistono delle citazioni, è perché ciò che citiamo fa parte di noi, della nostra individualità. I rimandi quindi possono non essere espliciti, bensì espressione creativa e naturale di ciò che ci compone.
M: l’eccesso di citazionismo non è che la perdita del linguaggio stesso. Credo che Psycho e Tekem, come Nataninez, siano in grado di assimilare ispirazioni/influenze e di renderle proprie, nel miglior modo possibile. Come del resto accade a me per le musiche che produco e suono.

B: in “Beauty industries”, così come nelle tavole di Ausonia, saltano subito all’occhio alcuni temi centrali, ovvero la critica all’industrializzazione (nel senso Taylor/Fordista del termine) e lo stato di alienazione in cui versa l’essere umano. Si tratta di sfumature presenti già in “OverKill”, ciò risponde quindi a una vostra particolare sensibilità verso questo genere di tematiche? Avete mai provato a misurarvi con argomenti di respiro diverso?
P: ritengo gli argomenti trattati in “OverKill” e in “Beauty Indusries” gli unici possibili in questo momento storico di decadenza ideologica e morale.
T: si tratta di una presa di coscienza delle problematiche di essere l’uomo moderno. Stiamo vivendo il ribaltamento dei valori e la spinta sempre più violenta del progresso, che è diventato una sorta di organismo irrazionale che divora senza valutazione di costi-benefici. Stiamo semplicemente dando voce a quello che ci sta succedendo.

B: voi siete originari di Cavalese, un piccolo paese in provincia di Trento, la vostra musica ha però tinte molto urbane, in un certo senso ricorda più gli scenari sgranati della Londra di “1984” che gli splendidi boschi della Magnifica Comunità di Fiemme. Gli ambienti in cui siete cresciuti che ruolo hanno avuto sul vostro fare musica e sulle influenze musicali che più vi caratterizzano?
P: domanda favolosa… E’ quella che ogni tanto mi pongo anche io. Credo che la distanza dall’epicentro delle cose permetta una visione più critica e personale per una mente allenata. Il nostro vivere in una provincia al di fuori dei grandi centri urbani (salvo le esperienze universitarie), lontani da qualsiasi scena musicale, immagino ci abbia permesso di interpretare la musica in un modo estremamente personale e senza preconcetti o strade tracciate da seguire. Mettici che in Val di Fiemme è praticamente sempre inverno e le giornate durano poco e potrai capire facilmente il perché di certe atmosfere oscure nella nostra musica.
T: di sicuro crescere in piccole comunità accresce la voglia di evadere, di cercare stimoli esterni. Sono comunque troppe le variabili e le condizioni che portano alla formazione dell’individuo per poterne identificare la più significativa. Ormai vivo da dieci anni a Bologna e le esperienze e le collaborazioni dell’ultimo decennio hanno contribuito non poco al mio sviluppo musicale, anche se maggiormente rilevanti sono state le persone piuttosto che i luoghi o i fattori per così dire ambientali. Insomma, è un enorme puzzle dove ogni pezzo è fondamentale.

B: ricordate qualche evento in particolare, magari da bambini, che vi ha spinto a voler diventare dei musicisti?
P: ricordo solo che nello stereo di mia madre girava a palla Michael Jackson… Sarà partita da lì la passione per la musica e cultura black? Mah…
T: un vecchio giradischi che suonava musica classica e una chitarra giocattolo, questi sono stati gli ingredienti base. “Live At Wembley” dei Queen ha fatto poi il resto.
M: sicuramente “He Got Game” dei Public Enemy nell’autoradio dello zio, il giradischi della nonna, il rumore dell’aspirapolvere.

B: quanto tempo dedicate agli impegni musicali e, soprattutto, ritenete che ciò sia sufficiente per raggiungere gli obiettivi che vi siete prefissati?
P: sempre troppo poco per quelli che sono gli obiettivi…
T: nell’ultimo periodo è il mio principiale impiego e lavoro, quindi 24 ore su 24 al netto dei bisogni fisiologici. Se non dovesse essere sufficiente, sarà solo un problema di intensità e qualità.
M: agli impegni musicali dedichiamo il maggior tempo libero a disposizione, che delle volte è sufficiente, delle altre è veramente poco. Vivendo in tre luoghi diversi per motivi lavorativi e di studio, risulta poco facile vedersi, ma il confronto e lo scambio di idee avviene costantemente; la nostra volontà di creare e di sfogarci riesce a esprimersi molto bene quando nei week end ci si trova in studio. Non si molla.

B: Max, puoi descriverci il tuo modo di produrre? Che macchine possiedi, in che proporzione utilizzi parti campionate, se hai compiuto degli studi in particolare e via dicendo.
M: non possiedo molta strumentazione. Un MacBook Pro, tastiera midi, drum machine, un piccolo synth Korg. Ho diversi software, il principale sequencer ed editor è Logic Pro 9, con cui peraltro registriamo. Molte cose me le sono potute permettere grazie ai piccoli guadagni dei primi demo e “OverKill”; questo per farti capire che investiamo tutto ciò che abbiamo per il gruppo. Per quanto riguarda le mie composizioni, suono tutto da me. Di campionato ci sono le singole parti di batteria, che comunque ri-suono, ma soprattutto effetti, voci e quant’altro possa divenire condimento utile per un mio brano. Non ho seguito studi.

B: l’aspetto live, invece, come lo gestite?
P: cerchiamo di integrare l’utilizzo di strumenti analogici e digitali suonati live e di scostarci il più possibile dal classico concerto Rap. Ricercare una dimensione teatrale in cui riuscire a ricreare certe atmosfere del disco rimane il sogno nel cassetto…
T: ci sono grosse novità in cantiere. Anche per quanto riguarda il live stiamo cercando di spingerci oltre, l’obiettivo è quello di portare sul palco una band che suoni live al 100%, lasciando più spazio a interpretazione e improvvisazione musicale. I synth e le tastiere saranno suonati dal vivo così come parte dei beat, fino all’introduzione di una vera e propria sezione ritmica con basso e batteria. L’idea è quella di portare sul palco parte del processo creativo.
M: il sogno sarebbe quello di riuscire a integrare una parte video al live suonato. Intanto l’obiettivo è quello di cui ha parlato Tekem: coinvolgere più musicisti e ri-arrangiare i brani per non rendere il live una mera riproduzione del disco.

B: vi ho chiesto qualcosa che proprio non volevate dire o non vi ho chiesto qualcosa che volevate proprio dire?
P: vorrei aggiungere che la speranza di vedere anche in Italia l’espandersi di una scena musicale al confine tra Hip-Hop ed Elettronica è sempre viva, ma dovrebbe cambiare l’atteggiamento generale e l’approccio all’ascolto di chi vive in prima persona l’Hip-Hop italiano. Cito gli amici Lato Oscuro della Costa, Uoki Toki, Delitto Perfetto e Koki come quelli che sento far parte di una scena di confine che sta nascendo dal basso e che invito a tenere d’occhio.

B: chiudiamo andando sul classico. “Beauty industries” è fuori, cosa vi aspettate dal disco? Cosa farete nei prossimi mesi? C’è spazio per un po’ di riposo? Avete già qualche idea per la prossima avventura dei Groovenauti?
P: mi aspetto di raggiungere quante più persone possibili, realisticamente parlando, e di far capire loro che c’è un modo diverso di fare Rap anche in Italia, che la sperimentazione è possibile e che la musica non ha confini o temi predeterminati. Un’aspettativa che è più un obiettivo e che porteremo avanti anche con il prossimo progetto in cantiere, dedicato al maestro del distopico Philip K. Dick.
M: le produzioni dei Groovenauti si interrompono solitamente nel momento in cui il disco dev’essere stampato e successivamente spinto. Questo vuol dire che non c’è mai riposo. Ora si lavora al progetto Dick e magari non da soli, chi può saperlo?

B: grazie per la vostra disponibilità.
Groovenauti: grazie per l’intervista, un bellissimo segnale che quanto stiamo facendo ha un senso!