Intervista a Slug (10/04/2023)
Pensando agli Atmosphere, si entra sempre in una dimensione nuova: gustare la loro musica significa aprirsi verso i numerosi rami che possono spuntare di continuo dal grande albero dell’Hip-Hop, le loro sonorità, le numerose contaminazioni, inducono a porli su un piano differente rispetto ai canoni tradizionali della Cultura, della quale hanno sviluppato con sapienza la natura elastica, malleabile, adattabile a essere offerta sotto nuove vesti, anche quando si pensa sia stato inventato tutto e il suo contrario. Sarà per questo che attendo Slug con una certa trepidazione, con un’attenzione ancora maggiore rispetto al solito nel selezionare correttamente le domande da porgli e condensare tutto ciò che vorrei chiedergli nella mezz’ora di tempo che abbiamo. L’ascolto anticipato di “So Many Other Realities Exist Simultaneously“, che uscirà il prossimo 5 maggio come sempre per Rhymesayers, è propedeutico alla preparazione dell’intervista: è come perdersi dolcemente nel mare delle metafore espresse da uno dei rapper di maggior classe che vi siano in circolazione, i testi e le considerazioni proposte sono altamente stuzzicanti per chi ha fatto del ragionamento un’abitudine irrinunciabile e la varietà musicale tessuta da Ant pare persino aver compiuto un ulteriore passo in avanti, a prescindere da quel che la creatività del produttore sia già stata in grado di dimostrare in ventisei anni di Hip-Hop alternativo – qui non in senso negativo. Slug appare sullo schermo del mio PC in perfetto orario, capelli all’indietro, occhiali e baffi, che di recente sono entrati a far parte del suo nuovo look: capisco immediatamente che non è una persona di poche parole. Senza troppi convenevoli, comincia subito a parlare della cosa che gli piace di più, la sua stessa arte, inserendosi spontaneamente nel contesto nel quale volevo indirizzare la nostra chiacchierata…
Mistadave: ciao Slug, come stai?
Slug: direi che va tutto bene. Poi sai, in realtà non è sempre così, ci sono momenti brutti, cose negative, ma va tutto bene nel momento in cui penso che sono vivo, che sono qui a parlare con te, che tu sei vivo, siamo tutti testimoni della pazzia di quest’epoca. Alla fine, la cosa più importante è che siamo qui a guardare, osservare, parlare, fare musica e scrivere di ciò che ci accade, in modo da poter lasciare delle testimonianze concrete di ciò che abbiamo fatto e che queste possano essere d’interesse per chi verrà dopo di noi, quando non ci saremo più.
M: sembra quasi che tu stia introducendo i temi di cui parli in uno dei due singoli che stanno anticipando l’uscita del nuovo album, vale a dire “Okay“…
S: non ci avevo pensato… Ma riflettendoci bene è proprio così. Sai, è divertente perché a volte ti dimentichi dei singoli; nel senso, hai tutto questo processo compositivo alle spalle, l’assemblaggio del disco e tutto ciò che ne segue, il che richiede molto tempo, e quando ripensi al momento in cui hai fatto il pezzo lo vedi già come molto distante nel quadro complessivo. L’utenza, invece, lo sta ascoltando ora. State vedendo anche il video, ma è stato quando l’abbiamo girato – esperienza peraltro molto divertente – che ho effettivamente vissuto quello stato d’animo, fissato quei momenti nei miei ricordi, l’editing, la revisione, per essere sicuro che tutto fosse come doveva essere. Lo stesso vale per l’album, l’ho vissuto tempo fa, nella registrazione, nel missaggio, nel mastering, è qualcosa che ho già messo da parte, dovendomi ogni volta rendere conto che la fruizione per il pubblico vive di un momento traslato in avanti rispetto al nostro. La mia esperienza è già fissata nel tempo, mentre la vostra mi aiuta a crearne una nuova, innescando il processo di visione della nostra musica sotto occhi diversi. E, alla fine, tutto andrà assolutamente bene.
M: è tutto connesso a un passo del brano, dove dici che la maggior parte dei tuoi pensieri è positiva.
S: provo a condurre la mia vita in quel modo, non ci riesco sempre ma ci provo. E ho accentuato questa positività dopo essere diventato padre. Trasmettere comprensione e onestà non è l’unico compito che rivesto nella crescita dei miei figli, voglio anche che il loro futuro emerga da ciò in cui si investono le proprie energie, il che dà vita a un dualismo naturale e salutare, dove si riflette anche l’ottimismo. Il più delle volte, mi sento naturale e sano a livello mentale.
M: ho avuto l’opportunità di ascoltare l’album e mi ha fatto molto pensare a come sia evoluto il sound degli Atmosphere negli anni. Che opinione hai al riguardo?
S: se devo parlare del nostro sound, devo farlo con molta attenzione (sorride – ndMistadave), perché in gran parte è curato da Ant, mentre il mio ruolo è quello di applicare concetti, teorie e contesto a tutto ciò che lui produce. Se devo rispondere da parte di entrambi, posso tranquillamente dire che l’evoluzione del nostro modo di suonare derivi direttamente dalla nostra maturazione come persone, a livello individuale penso di avere parecchie dimensioni in più rispetto a vent’anni fa. Anthony stesso è un musicista molto più polivalente, oggi. Una delle speranze che coltivo, è che la nostra musica possa essere rappresentativa di tutte queste nostre fasi evolutive.
M: in effetti, nel disco si possono notare tantissime influenze diverse a livello sonoro. Ci sono sprazzi di Country, c’è un chiaro omaggio all’Electro di “Planet Rock” (il pezzo è “Talk Talk” – ndM), c’è il Reggae…
S: sì, abbiamo scelto di utilizzare diverse contaminazioni tratte dalla musica con cui siamo cresciuti da ragazzini e che ancora ci piace. Da adolescente volevo fare breakdance a tutti i costi ed ero molto appassionato di Electro, Ant ha cominciato come deejay e di conseguenza quel tipo di suono era parte del suo repertorio iniziale, anche se lui ce l’aveva nel sangue perché, se non ricordo male, anche suo padre era un deejay, quindi per lui gli anni ottanta sono stati un grosso ascendente musicale. Quello che abbiamo tentato di fare è sovrapporre quel tipo di suoni con altri più attuali o di estrazione differente, conseguentemente nel disco puoi trovare il Country, come cose ispirate a Prince, il Funk o, come dicevi tu, il Reggae. Per noi è fondamentale che ogni realizzazione sia una sfida, un codice da decifrare, un puzzle da scomporre e ricomporre, nel nostro esprimerci è determinante il fatto di osare e siamo stati abbastanza fortunati da poterlo fare per un lungo periodo di tempo. L’alternativa di ripeterci e restare in una sorta di loop non ci alletta affatto.
M: c’è il rischio di proporre sempre lo stesso tipo di disco.
S: più che altro, dovrebbe essere la principale preoccupazione di un artista. Il vero rischio è proporre qualcosa di sempre diverso: quando cominci a suonare e trovi un pubblico che ti ascolta, ne sei così grato da non accorgerti che l’utenza stessa diventa l’entità in grado di dettarti la musica che devi proporre per continuare a essere seguito, la tua audience diventa il tuo capo e non vuoi provocare dispiaceri, creando un meccanismo inconscio dal quale è molto difficile uscire. Dovresti invece essere tu, spingendo te stesso oltre i tuoi limiti, a fare altrettanto col tuo pubblico. Se accondiscendi il tuo titolare, non potrai che ripetere la stessa musica all’infinito, la vera sfida è dunque quella di portarlo a desiderare qualcosa di differente, altrimenti non ci sarà crescita artistica. L’obiettivo è far incazzare il tuo capo al punto da spingerlo per andare oltre assieme a te, fargli dire ok, va bene, puoi tenerti il tuo lavoro (ride – ndM).
M: parlando di crescita, penso che gli Atmosphere abbiano sistematicamente raggiunto questo traguardo. L’ultimo disco dimostra il chiaro raggiungimento di un certo tipo di maturità e consapevolezza.
S: apprezzo molto ciò che hai detto! Per tanto tempo nella musica la questione della maturità è stata vista negativamente, perché causa del fatto che un determinato artista non vivesse più sul filo del rasoio, perdendone in fascino e in termini di competizione con tutti quelli che vogliono essere il nuovo. Tanti si chiedevano, una volta persa la motivazione di concorrere a quel tipo di figura, che cosa potesse mai rimanere di una carriera musicale. La maturità è vista come una cosa spaventosa, perché ti fa rendere conto di essere invecchiato, in realtà è qualcosa di naturale, soprattutto quando ti accorgi che il tuo pubblico sta invecchiando assieme a te. Se poi hai il privilegio di essere ascoltato anche da gente molto più giovane, di una generazione diversa, puoi provare sensazioni meravigliose, perché sei abbastanza longevo da riuscire a coinvolgere chi per ovvi motivi potrebbe non comprendere del tutto ciò che dici o che stai attraversando ma salta comunque a bordo supportandoti. Tutti rappresentiamo un piccolo, ma proprio piccolo momento nel tempo, e pensare di poter comunicare con un pubblico che sia al di fuori di casa mia è fantastico. Ci rifletto solo ora perché quand’ero più giovane ero troppo preso a divertirmi, a cogliere il momento di tutto ciò che mi accadeva, non potevo certo possedere la visione che ho oggi. E’ un concetto molto particolare, perché, per fare un esempio banale ma concreto, in questo momento sto parlando con te di qualcosa, ovvero la musica, che mi permette di mantenere la mia famiglia e le mie responsabilità. Oggi comprendo molto meglio la posizione privilegiata che rivesto.
M: il tema della crescita è ricorrente in quest’ultimo lavoro. In particolare, il brano “In My Head” (mentre pronuncio il titolo sorride, come se volesse comunicarmi la particolare affezione a quel pezzo – ndM) parla di ansia e paranoia: come si relazionano queste tematiche con la tua maturazione umana e artistica?
S: penso che la mia ansia e la mia paranoia a volte mi abbiano fatto un favore, nel senso che spesso ho fatto affidamento su questi stati d’animo per trovare una guida dentro di me. Il nostro corpo ha indicatori naturali che ci guidano rispetto a determinate situazioni, mi sono sentito spesso vulnerabile, a disagio, e ho usato ciò per ascoltarmi e di conseguenza trovare una via d’uscita. A volte queste emozioni mi causano un atteggiamento trattenuto, l’ansia mi ha spesso bloccato nel raggiungimento di alcuni obiettivi o nello svolgimento di alcune azioni, tutto è stato complicato dal fatto che sono cresciuto in un’epoca nella quale ammettere di provare ansia non era ben visto. Oggi la società è più trasparente, più comprensiva di questi aspetti, quindi non è più problematico ammettere di vivere un brutto periodo. Mi sento allora più libero di accettare queste emozioni quando arrivano e capire come andare avanti. Nonostante abbia cinquant’anni ho parecchio per cui guardare avanti e cerco di farlo senza quel freno a mano tirato, anche se, per quanto ci abbia lavorato in passato, non ho ancora terminato di farlo. E’ un po’ come la ricerca della felicità, la desideriamo tutti per sempre perché non è un punto cui si arriva e poi ci si ristora, è un viaggio. Ed è il viaggio che conta, non la destinazione – perdonami se dico cose che potresti trovare su quegli adesivi che si mettono sul paraurti (ride – ndM). C’è una strada illuminata e ce n’è una buia, credo che nella vita sia necessario affrontarle entrambe, perché l’ansia esiste, fa parte di noi e non possiamo esserne completamente liberi.
M: quindi, anche se molti dei tuoi momenti sono positivi, ti ritieni essere ancora un’entità in corso di lavorazione?
S: assolutamente sì. Sono ancora qui, in questo mondo, e ogni giorno della mia esistenza è un lavoro in corso d’opera, non so come esprimermi senza sembrare patetico o falsamente profondo, non è mia intenzione, ma credo che la vita sia un continuo progredire. Persino quando tocchi il fondo nei tuoi momenti peggiori o pensi di essere involuto, in realtà sei andato comunque avanti. E sempre avanti si va, finché non si raggiunge la propria destinazione. Verso la quale, adottando un modo di pensare consapevole, possiamo giungere con molta meno resistenza. E’ troppo facile darsi addosso perché non ci si sente bene, è necessario cominciare a pensare che le cattive sensazioni siano comunque un passaggio obbligato per la nostra crescita, perché altrimenti il rischio è di passare dall’ansia alla depressione.
M: se non erro queste tematiche fanno parte anche di “September Fool’s Day”.
S: tendo a non approfondire troppo il significato dei miei testi, perché mi piace che l’ascoltatore possa arrivare da solo alle conclusioni o a sviscerare il vero significato del brano. Comunque, le liriche del nuovo album racchiudono un’intera storia che ho avuto in testa e “September Fool’s Day” racconta appunto di quel momento, con questo personaggio che raggiunge un luogo in cui si trova a un bivio e deve scegliere da quale parte andare, verso la vita o verso la morte. Il brano è appositamente posizionato alla fine del lato A nella versione in vinile, quando comincia il lato B si comprende quale sia la direzione scelta e come il protagonista sia convinto di star raggiungendo la sua fine, anche se non è così. “September Fool’s Day” rappresenta il momento in cui intuisce il suo cambiamento nell’approccio mentale e si rende conto dell’illuminazione che l’ha appena colpito, anche se in realtà nemmeno siamo coscienti del momento in cui cambiamo drasticamente un nostro atteggiamento negativo. Il titolo è uno scherzo riferito al primo aprile, che credo usiate festeggiare anche voi, e significa letteralmente ah ah! Sorpresa! Non è come pensavi fosse! Ed è questo il momento nel quale il personaggio si rende conto che vivrà. E dove io mi rendo conto che potevo risponderti molto più brevemente di come ho fatto (ride di gusto – ndM).
M: quindi alla fine si tratta di una sorta di humour nero che nasconde un messaggio molto più incisivo.
S: esattamente. Inserisco parecchi scherzi nella musica che faccio, anche se contrasta molto col carattere di Ant (ride – ndM), che è un tipo molto serio. Scherzavo parecchio anche da ragazzino, perché lo sentivo come un modo per essere accettato dagli altri e rappresentava il tipo di attenzione che desideravo ricevere, così ho riversato questo concetto anche nel mio modo di scrivere. Quindi “September Fool’s Day” ha un titolo che ricorda uno scherzo, ma in realtà non lo è affatto.
M: in un altro pezzo intitolato “Portrait” dici <<I’ve been better than worse, I try to treat my body like a church>>. Fa parte anche questo della tua crescita personale?
S: certamente, ma non sto avendo un gran successo (ridiamo entrambi – ndM). Anche in questo caso si tratta di un processo in fase di lavorazione. A volte premi quell’interruttore del cambiamento in te, ma la corrente non è istantanea nel raggiungere la lampadina, ci mette del tempo. Prendere la decisione di cambiare non significa attuare contemporaneamente il processo di cambiamento. E’ strano ammetterlo, perché hai finalmente raggiunto quel momento nel quale decidi di prenderti maggior cura di te stesso e pensi di averlo fatto anche in passato, ma ci sono questi due universi che si scontrano. Uno ti dice che hai finalmente raggiunto la consapevolezza di essere importante, l’altro ti mette alla prova su cosa sei effettivamente disposto a fare per trattare meglio il tuo corpo.
M: parliamo di “Bigger Pictures“…
S: quel brano è collocato verso la fine del disco, perciò è uno degli ultimi beat che Ant mi ha fornito. Era da tempo che lo teneva nel cassetto, perché non sapeva precisamente che farne; ma quando ha intuito la direzione in cui stava procedendo l’album, ha deciso di darmelo. Devi sapere che ogni pezzo del disco ha una sequenza precisa e predeterminata da lui, pertanto ho scritto un testo per volta seguendo quell’ordine. Non sapevamo nemmeno se quel beat sarebbe poi finito sull’album, ma Ant, intenzionalmente o meno, mi ha pure fornito lo spunto per decidere cosa scriverci sopra e il resto è venuto da sé, ricavandone qualcosa di davvero vulnerabile e intimo, che mi ha esposto all’esterno. Sicuramente è un tipo di brano che non tutti i rapper sono in grado di proporre: quando produco musica lo faccio esattamente da qui, dalla stanza dalla quale ti sto parlando, in solitudine e in completa libertà di esprimere ciò che desidero, quindi è molto più facile scrivere concetti che mostrano delle aperture personali. In seguito, sottopongo il risultato ad Anthony e solo dopo la sua approvazione lo faccio sentire anche ad altre persone, per capire se possa essere adatto l’inserimento in un determinato progetto. Scrivere “Bigger Pictures” è stato molto facile, è stato come se le liriche arrivassero da sole da dentro me, molto più difficile è stato invece trovare il flow corretto per quel tipo di beat. Il più delle volte ascolti una base e ci fai freestyle sopra per trovare la cadenza giusta tenendo conto delle misure: il tempo di quella canzone non è assolutamente facile da trasporre in una metrica Rap. E’ stata una bella sfida, perché non si tratta di un beat regolare dove puoi facilmente accoppiare le rime barra dopo barra, invita invece a nascondere tra le righe alcune rime extra, una possibilità data dalla presenza della chitarra, la quale permette di usufruire di spazi aggiuntivi dove infilare un maggior numero di parole rispetto alla normalità. Scrivere quel testo è stata una bella esperienza, proprio per la libertà che ho provato nel trattare argomenti personali di cui non mi vergogno, mi è piaciuto anche il fatto di dover trovare un metodo espressivo inedito sia per me sia per gli altri e da lì è nata l’idea di strutturare i versi suddividendo il racconto in decenni, partendo dall’età di un anno per poi arrivare a undici, ventuno e via di seguito. Non ci sono ritornelli né cori, o meglio: il ritornello è rappresentato proprio da quella cadenza temporale, che detta il ritmo a tutto il resto e dà una forma completamente diversa dalla consuetudine. E’ un processo che chiamo inner writing, che ho mutuato dai De La Soul ascoltando i loro capolavori, nei quali inserivano sempre rime nascoste all’interno di altre, parecchia dell’ispirazione per il pezzo la devo proprio a loro. E anche un po’ a noi, per ciò che siamo e per ciò che il nostro pubblico ha sempre apprezzato di noi. E’ un brano molto bello, mi piace l’effetto slide della chitarra (io lo adoro, e non manco di dirglielo, con suo genuino apprezzamento – ndM).
M: in fondo, un metodo di scrittura complesso è anche un metodo per allungare la longevità di un disco?
S: esatto. E te lo dice uno che colleziona dischi e a cui piace moltissimo la parola Prog, un termine meraviglioso che puoi abbinare a ogni genere di musica. I De La Soul sono Prog Rap, nel senso che sono sempre stati all’avanguardia con creatività e stile, Pos e Dave hanno sempre rimato un passo avanti agli altri, nessuno faceva le cose in quel modo al tempo in cui le facevano loro. Potevi ascoltare un loro pezzo e dire che era una figata dopo pochi secondi, ma diverso era arrivare in fondo e capire immediatamente che cosa volevano comunicare in realtà: quando li riascolto, trovo sempre qualcosa di cui non mi ero accorto in precedenza, pur conoscendo benissimo tutta la loro discografia. “3 Feet High & Rising” ha avuto un impatto gigantesco sulla mia formazione artistica, mi ha condizionato irrimediabilmente, è l’equivalente della memoria di base dei bambini quando vivono eventi che ne determinano reazioni mentali e corporali. All’epoca ero un teenager e per me è stato come guidare un’auto o, che so, andare in deltaplano per la prima volta, un’emozione che ti resta dentro e non ti lascia più.
M: è un album che per me ha avuto un impatto tellurico…
S: il bello è che hanno continuato così anche nei dischi successivi, non si sono mai reinventati, hanno sempre riproposto ciò che avevano già fatto ma spingendosi molto oltre. Hanno influenzato me e Anthony da sempre e ancora oggi mi chiedo come abbiano fatto a creare quegli album così incredibili.
M: mi viene naturale abbinare i De La Soul agli Atmosphere, perché entrambi avete sempre osato percorrere strade mai viste. Nel Rap, invece, capita molto spesso di ripetere la stessa cosa all’infinito.
S: nel Rap, osare è una sensazione che ti dà energia, motivazione, c’è chi la mette nella scrittura e chi nella costruzione del beat. Il Rap è osare per definizione, perché se la comunità afroamericana non avesse osato proporre un nuovo tipo di sound negli anni settanta, nessuno di noi sarebbe qui a parlarne. Non voglio essere critico verso chi fa Rap diverso dal mio perché quel tipo di Rap ha un altro senso rispetto al mio o contiene dei concetti che il mio modo di fare musica non ha. Ora che sono più vecchio mi accorgo che le mie opinioni non nascano più solo da ciò che vedo e sento, ma sono formate dalla mia esperienza personale. Spesso mi chiedo se credo davvero all’opinione che mi sto creando, la metto in discussione prima di approvarla e non applico tutto ciò solo alla musica, ma a una visione completa del mondo e della vita. Tutte le questioni vedono due schieramenti e, se non sei completamente d’accordo con uno di questi, non puoi farne parte, quindi sono diventato più cauto sul far uscire le mie idee se prima non le ho revisionate per bene dentro me. E’ facile criticare qualcosa, è difficile farlo se, come me, non credi nelle cose in cui credono gli altri. Ciò deriva dal mio ruolo di genitore, nel senso che metti al mondo i tuoi figli desiderando di regalare loro esperienze ma senza influire in alcun modo sulle opinioni che andranno a formare. C’è troppa gente che vuole controllare le idee degli altri e non capisco proprio da dove arrivi questa roba. Ma è solo la mia idea e non voglio spingere nessuno a pensarla come me. Ho solo la speranza che le nuove generazioni di ragazzini mandino a quel paese quei vecchi che credono ci sia un solo modo di pensare e che sia quello giusto, perché da adolescente sentivo anch’io quest’esigenza ma non ho avuto l’opportunità di applicarla. Spero che i miei figli mi dicano apertamente se pensano che abbia torto su qualcosa, perché dà loro modo di esprimersi. Oggi non ci sono più vie di mezzo, o stai da una parte o dall’altra, ci sono semplicemente due posizioni, ma non è così che ho impostato la mia crescita, assorbendo tanti concetti dai libri che leggevo senza mai limitare il numero di prospettive da cui potevo valutare qualcosa.
M: ci sono cinque brani di un minuto o poco più in “So Many…”. Come mai questa decisione?
S: semplicemente non sono nati per essere dei pezzi completi. Ant ha sviluppato quei beat così come li hai sentiti nel disco affinché decidessimo in seguito se lasciarli strumentali o se ricavarne dell’altro. Tra quei brani c’è anche un solo di Sa-Roc, l’intenzione era di farne un featuring per un brano intero ma quando ho sentito la sua strofa ho pensato che era perfetta così com’era e non c’era alcuna necessità di aggiungere qualcosa di mio.
M: che significato ha il titolo dell’album?
S: ha molto a che vedere con il clima divisivo di cui ti parlavo prima. E’ riferito a queste due realtà, che stanno ai poli opposti e non si rendono conto di vivere nello stesso pianeta. Inoltre, ogni individuo rappresenta una realtà a sé stante, come ad esempio me e te, stiamo parlando assieme pur provenendo da esperienze completamente differenti. So che sembra di parlare di qualcosa che troveresti nei film della Marvel, ma ciascuna esperienza rappresenta una realtà e io posso solo riferirmi alla mia. A questo proposito, spesso mi piace scrivere testi dalla prospettiva di un personaggio fittizio, anche se la composizione si avvale poi del mio vissuto e delle informazioni che ho accumulato nel tempo, quindi trovi sempre sprazzi del mio universo personale dentro tutto ciò che scrivo.
M: domanda diretta per chiudere. Siete attivi da più di un quarto di secolo, avete pubblicato tanti dischi: pensi che “So Many Realities Exist Simultaneously” possa diventare la punta di diamante di questo percorso? Ci sono considerazioni davvero mature in questo disco e non potresti averle scritte a venti o a trent’anni.
S: ah, questo è vero. Com’è vero che a venti o a trent’anni ho scritto cose che oggi non potrei riproporre. Non saprei… Non so se possa essere ritenuto il nostro capolavoro, anche se Ant avrebbe delle teorie interessanti in merito e mi piacerebbe ti potesse rispondere lui… Credo che il responso definitivo lo debba dare chi ascolterà il disco, per quanto mi riguarda posso solo dire che i brani contenuti sono un’istantanea di dove sono giunto nel mio percorso esistenziale durante gli ultimi anni. Se dovessi venire a mancare domani senza più poter registrare nulla, penserei che questo sia il miglior disco che ho fatto? No. Ma è sicuramente il migliore che avrei potuto fare ora, in questo momento. La mia insicurezza nel darti una risposta certa è data anche dal fatto che abbiamo davvero tanti titoli alle spalle: se mi avessi posto la stessa domanda nel 2002 ti avrei sicuramente risposto che preferivo “God Loves Ugly” rispetto a tutto il resto, perché allora era ciò che meglio mi rappresentava. La mia connessione con la nostra musica è più forte nei confronti delle produzioni più recenti, perché rappresentano chi sono oggi e dove sono arrivato, i miei pensieri attuali, le mie evoluzioni. Posso solo dire che la realizzazione del nuovo LP sia il frutto di un lavoro molto serio. Se sarà il nostro album migliore lo deciderete esclusivamente voi.
Il nostro tempo è scaduto. Anzi, è andato oltre di un quarto d’ora rispetto ai canonici trenta minuti gratuiti disposti da Zoom, perché Slug è stato così cortese da accettare un secondo invito inviato al volo per continuare una conversazione che avrei condotto per altre tre ore. Gli dico che a mia opinione – e non solo mia… – “Bigger Pictures” sia destinata a fare onde e colpire molte persone nel profondo, esattamente com’è accaduto al sottoscritto. Ma “So Many Realities Exist Simultaneously” contiene molto, molto altro di cui prendere nota e non c’è dubbio che eleverà ulteriormente il vessillo degli Atmosphere. Ne parleremo sicuramente, a tempo debito, su queste stesse pagine.
Mistadave
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