Intervista a Montenero (09/12/2024)
Con Stakanov Boys avevamo stretto un piccolo accordo: quando esce un disco nuovo di Montenero, noi lo intervistiamo! Bene, i ragazzi sono stati ovviamente di parola e, appena Alessandro ha ritrovato la voce (nel primo messaggio che ci ha mandato sembrava Marlon Brando ne “Il Padrino”…), abbiamo fissato una chat su Zoom per affrontare vari temi, poi, data la piacevole chiacchierata (ti avviso che sono logorroico, ha premesso subito), se n’è resa necessaria una seconda. Totale: un’oretta di spunti, qualcuno rimasto off the record, come da trascrizione di seguito.
Bra: “Reportage”, il tuo nuovo disco con Jampa AK, si apre con le barre <<ho fatto il fuoco con il Dogo senza aver svoltato/ma in tutta Italia super stato, super rispettato>>. Bastano per una decina di domande e curiosità, quindi taglio la testa al toro e parto dall’inizio: molti di noi ti hanno sentito per la prima volta in “Fastlife mixtape” di Dj Harsh e Guè, nel 2006, come sei arrivato a un battesimo artistico così rilevante e cosa ti univa, anzitutto da un punto di vista personale, al collettivo milanese più importante di inizio duemila?
Montenero: la mia prima strofa ufficiale in assoluto! Avevo già cominciato a fare delle cose con gli amici, diciamo più che altro per passare il tempo, e più le facevo, più vedevo dei miglioramenti. Jake lo beccavo sempre al parco, Enzo (si riferisce a Enz Benz – ndBra) abitava dietro dove ho la mia attività, conosco via via tutti e ti assicuro che erano delle vere leggende di strada. Abbiamo preso a frequentarci, un po’ mi hanno plasmato, Joe mi ha aiutato tanto nel Rap, a contare bene le misure, a stare sempre a tempo… Avevamo, bene o male, le stesse storie dietro, un background simile, situazioni folli, quindi mi sono subito trovato da paura con loro. Di base c’era una grande incoscienza, facevamo musica così, senza peli sulla lingua, con una grande voglia di rivalsa, di uscire, di raccontare certe storie che, se ci penso oggi, mi chiedo come cazzo c’è venuto in mente di scriverle. Bello, ma visto con gli occhi di oggi, di un adulto, penso sia stato un periodo assurdo e…vabbe’, ci siam capiti.
B: tu sei un classe ‘82, quindi hai vissuto buona parte delle dinamiche che hanno attraversato l’Hip-Hop italiano negli ultimi venticinque anni, hai visto da vicino lo show business ma ti muovi nell’underground, da indipendente; tornando alla citazione di prima, non aver svoltato ti ha permesso di essere un po’ più te stesso, rispetto alla musica che realizzi?
M: sicuramente. Quando firmi un contratto, lavori per qualcuno. E’ normale ed è inutile far finta che non sia così. Noi accendiamo il computer, mettiamo il beat, scriviamo quello che ci viene in mente, registriamo, buttiamo fuori il pezzo. Così. Quest’anno a San Siro i Dogo hanno fatto “Briatori” e Guè giustamente ha detto: oggi ‘ste cose non si possono più dire. E’ vero. Che poi, non aver svoltato… Io non me la sono mai sentita, per il mio lavoro e per le cose della vita, di stravolgere tutto in funzione della musica, ma le mie opportunità ti assicuro che le ho avute. Non ti dico che ce l’avrei fatta, anche se sono consapevole del mio livello, perché se vai lì ci devi rimanere, devi essere pronto quando vai davanti a una telecamera e ti fanno due domande, la musica è solo un pezzo del gioco. Devi mantenere un certo standard e non si tratta solo di basi e scrittura: quello non era il mio sport. Detto questo, vedo che perfino i più giovani mi riconoscono un certo status, ero alla festa dei Dogo quando ci sono state le date del loro disco nuovo e ragazzi che ora sono al top in classifica mi hanno detto un sacco di cose belle. Questa è una roba impagabile, è molto gratificante.
B: magari non sei d’accordo, ma secondo noi ci sono dei titoli che fanno da spartiacque nel tuo percorso discografico. Pensiamo a “C’era una volta a Milano” con Bizzy Classico, “Golden Madonna” con Luca Moustaches, “Parole sante” con FatFat Corfunk e Creep Giuliano: in quel periodo hai cominciato a confrontarti con un tipo di sound differente, abbiamo avuto l’impressione che volessi mostrare un altro lato di te, non per forza legato alle tue affiliazioni originarie. E’ così?
M: in realtà, condivido quello che dici. Parliamo di un sound che a me è sempre piaciuto, perché ascolto Rick Ross tanto quanto Alchemist, ho solo colto l’opportunità di utilizzarlo quando ne ho avuto occasione. Chiamiamolo genere Griselda, per capirci, questo suono più classico ma che non è vecchio: da quando ho ripreso a fare robe con una certa costanza, ho notato di aver modificato un po’ la scrittura, con più dettagli e descrizioni, uno stile che sta bene su certe produzioni. Però anche in “Manovalanza”, che è sicuramente un disco più ignorante, più cafone, ci sono dei pezzi abbastanza profondi, con atmosfere di un certo tipo; c’è “Apro gli occhi”, ad esempio, sul beat di Bassi Maestro. La cosa che mi piace di questo filone è che, se la strumentale mi prende, in dieci minuti scrivo la strofa e il pezzo è fatto, parlando di quello che mi sta attorno o di visioni mie, entrando bene nelle situazioni, sempre con le parole giuste.
B: di lì a poco, finisci nell’orbita Make Rap Great Again, pubblichi due dischi con Gionni Gioielli, sei in tantissimi featuring e ti confronti con una generazione di artisti che magari è cresciuta con la tua musica. Che periodo è stato, quello?
M: guarda, me lo ricordo bene perché ero seduto qua, in mansarda, e non avevo mai fatto prima una diretta Instagram. Gioielli mi ha chiesto di partecipare e il risultato è quello che dicevi tu… Sono stati due anni molto belli, trascorsi senza fermarci mai. Per farti capire: avevo scritto un sacco di roba e sentivo il bisogno di rifiatare, Gionni però mi messaggia, mi manda la cover di ‘sto progetto, “Ligera memories”, e mi fa inizio a spedirti i beat. Così, senza preavviso. In due settimane l’abbiamo fatto, forse meno. Io mi svegliavo, andavo a lavorare e mi facevo i provini, avevo il fuoco dentro. E’ stato stimolante, mi sono messo in competizione con chi è molto più giovane di me e aveva voglia di emergere, eppure ho retto. Si era creata un’atmosfera bellissima, con Rollz e Armani come con chi è più vicino a me come età, tipo Pin che conoscevo da quindici anni anche se non avevamo mai fatto niente assieme. Poi Gioielli quando produce riesce a tirare fuori delle magie, i beat erano perfetti per l’occasione e abbiamo lavorato a una velocità assurda: ci siamo dati appuntamento a casa sua, prima volta che andavo a registrare lì, gli dico voglio fare più roba possibile e in due ore abbiamo chiuso proprio tutto il disco, un take per strofa. Lui non ci credeva, mandava gli audio agli altri per dirgli cosa stavamo combinando. Guarda come registro ora (gira l’inquadratura – ndB), ho preso Mac, scheda audio e microfono, faccio tutto qui, in casa. Dipendesse da me, farei sei dischi l’anno: quando mi sale, sono cazzi!
B: veniamo alla nascita di Stakanov Boys. Abbiamo avuto il piacere di intervistare sia Umberto (Hvgme) che lo stesso Gianluca (Jampa AK), perciò qualche notizia in merito ce l’abbiamo già; raccontaci cos’ha significato per te questa nuova avventura, iniziata dopo quasi vent’anni di sbattimento.
M: sai…negli anni, anche da appassionato, ho visto tanti di ‘sti ragazzi magari bravi che non riuscivano a quagliare, a concretizzare le cose, coi pezzi fermi nell’hard disk o senza una visione precisa – problema che ho avuto anch’io, a suo tempo; allora abbiamo pensato di metterci a disposizione, di aiutare un po’ di gente a far uscire musica, anche perché di per sé oggi è comunque più facile trovare gli strumenti per registrare e mettere fuori la roba. E’ anche per questo motivo che neppure le stampiamo, molte delle cose che stiamo facendo: è ovvio che ci piacerebbe, ma ci vogliono delle persone, delle professionalità, che stiano dietro a tutti questi aspetti, perciò intanto facciamo le cose, produciamo, e il resto si vedrà. Stakanov vuol dire lavorare, martellare sempre… Lo stampi? Non lo stampi? Non è importante, facciamo musica perché è un nostro bisogno, abbiamo dei mostri dentro e devono uscire.
B: “Reportage” è un disco che conferma questa concretezza, quello schema di lavoro così asciutto?
M: sì, assolutamente. Anche questo è un disco che abbiamo realizzato in poco tempo, spontaneo, sincero; ho fatto pure dei bei ritornelli, che non è esattamente una roba nelle mie corde (ride – ndB). E’ un’altra di quelle situazioni che abbiamo sviluppato in studio, siamo andati da Gccio, sono venuti gli amici a rappare, abbiamo fatto serata lì, ci siamo divertiti e abbiamo registrato.
B: i brani sono dodici, con quattro featuring e ben undici produttori diversi. Descrivici più in dettaglio come si è svolto il tutto.
M: banalmente, quando si manifesta quel mostro lì e devi scrivere, hai proprio bisogno di far uscire le cose con rapidità. Jampa poi è un altro molto veloce, dopo “Pollo & ostriche”, realizzato in una settimana che doveva essere di ferie, ci siamo detti facciamo un altro EP e abbiamo cominciato a sentire un po’ di beat, perché l’idea era quella di chiamare diversa gente oltre Hvgme, che è della famiglia e non può mancare. Krimson ci ha mandato una cartella e abbiamo subito preso un paio di beat pazzeschi, con lui – te lo dico – ho pure già degli inediti; sentiamo il beat di Manuel Impoco e ne abbiamo un altro; Umberto ne manda ancora uno che abbiamo usato per “Stakanov duppies”, mi ha ricordato certe cose di Prodigy e Sid Roams – io super fan! – perciò l’abbiamo scelto al volto; Jampa aveva quello di FatFat… Piano piano è arrivato tutto, Elia e Blo hanno mandato le loro cose, non siamo riusciti a mettere una strofa di Jack The Smoker e allora ci ha proposto un beat – per me lui ha fatto il disco dell’anno, puoi scriverlo; quindi ci siamo trovati presto con sei/sette pezzi, ragion per cui abbiamo deciso di continuare e, dopo un bel rush finale, è venuto fuori un disco parecchio corposo, un progetto più grosso di quello che avevamo immaginato all’inizio, ma sempre con quell’impostazione, quella voglia di fare e pubblicare.
B: considerato quello che ci siamo detti sul lavoro e sul tempo a disposizione, “Reportage” avrà delle date live, anche solo per una presentazione del progetto?
M: credo proprio di no… Sai cosa, ai live ci va un pubblico molto giovane, mentre le nostre cose magari piacciono più al quarantenne che la sera, dopo una giornata di lavoro, non ha voglia di infilarsi in un locale, le robe se le ascolta quando esce di casa per fare un turno o col suo bell’impianto. A parte che è uno sbatti organizzativo che non hai idea, soprattutto se non fai questa cosa ogni giorno e dietro non hai una struttura.
B: nel corso delle tue uscite, hai fatto via via più ricorso allo storytelling, come appunto in “Ligera memories”. Non a caso Gioielli ti ha voluto in un brano intitolato “Scerbanenco”, mentre è una curiosa casualità che Dino Buzzati abbia scritto un racconto breve intitolato “Montenero 66”, ambientato proprio nel palazzo in cui c’è la tua attività di famiglia…
M: minchia, come cazzo mi esalta ‘sta cosa! Non lo sapevo, ora devo trovarlo.
B: raccontaci qualcosa sui tuoi riferimenti culturali, si tratti di cinema o letteratura.
M: sicuramente, come tutti, sono affascinato tanto dai gangster movie, è il genere che seguo di più. Per i miei tempi, quando posso, guardo sia cinema che serie TV, sarebbe troppo facile citarti i soliti Tarantino e Scorsese, ma il mito assoluto per me è De Palma, in particolare le robe degli anni settanta, diciamo fino a “Blow Out” che è proprio un filmone, con John Travolta giovanissimo, quelle inquadrature dall’alto, l’azione… Poi mi piace leggere il giallo e il poliziesco, autore preferito Don Winslow, di suo ho letto tutto. Pensa che l’entrata di “Solo Dio” (da “Parole sante” – ndB), <<al bar dividevamo sogni e noccioline…>>, frase per me potentissima come immagine, l’ho presa da “Shantaram” di Gregory Roberts, che è un libro su un latitante che scappa dall’Inghilterra e fugge in India, bellissimo, la serie invece è un pacco tremendo… E niente, per dire che spesso in effetti in qualche modo si attinge anche da cose che vedi o leggi.
B: da un punto di vista musicale, invece, raccogli più ispirazione dall’Hip-Hop o da altri generi e dischi?
M: Hip-Hop, 100%. Sono proprio accanito, guarda come son messo coi dischi… (inquadra le mensoline zeppe di CD – ndB) Non ti faccio l’elenco perché non finirebbe mai, però tra i riferimenti principali ci sono sicuramente i Mobb Deep, Alchemist, mi piace tanto la visione che ha della cosa Westside Gunn, per me è un genio, Roc Marciano che ha portato ‘sto filone a livelli pazzeschi… E potrei ancora dirti DMX, Snoop, Dre, capisaldi imprescindibili. Questa è la base di partenza.
B: prima abbiamo fatto cenno al tema generazionale. Da veterano, qual è il tuo punto di vista sull’attuale scena milanese, sul suo stato di salute?
M: a Milano c’è sempre un sacco di gente nuova e mi fa piacere che quelli più giovani non siano tutti dietro questa roba del riuscire a sfondare per forza, magari facendo cose un po’ meno fighe. Di fianco alle situazioni più grosse c’è una bella componente underground, c’è chi rappa, chi porta avanti discorsi che richiamano quelli di alcune leggende milanesi e secondo me è una storia che può continuare, c’è un bel movimento. Guarda, se dovessi farti un solo nome ti direi che c’è un grande Ciccio Doye, l’ho scoutato proprio di persona e come Stakanov abbiamo fatto “In nome di Akira”, sono sicuro farà molto bene, su di lui ci punterei.
B: “Reportage” è uscito da poco, quindi non avrebbe senso chiederti di eventuali progetti futuri; Stakanov Boys, però, cos’ha in programma per i prossimi mesi?
M: noi lavoriamo sempre, sia come collettivo che in singolo. Di mio, come ti dicevo, ho già registrato qualcosa di nuovo e ne sto registrando altre che sveleremo più avanti. Jampa è su altri lavori. Hvgme sta lavorando con altri rapper, sta producendo dei dischi interi. E poi sicuramente coinvolgeremo diversi rapper e produttori per un progetto di cui non posso dire altro, per ora, ci stiamo ragionando sopra e verrà fuori una bella storia.
B: provando a tracciare un bilancio del tuo percorso artistico, quanto ti ritieni soddisfatto delle cose fatte, che sono tante, e come si fa a preservare quest’energia, questa voglia di scrivere e raccontare, per tutto questo tempo?
M: intanto, non ci sono cose che non rifarei e questo già vuol dire qualcosa. Dopo un primo progetto fatto con Joe in grande sintonia, ho fatto più o meno tutto da solo, intendo come organizzazione, quindi ne sono molto fiero, sono contento. Ho avuto un periodo di pausa, diciamo, delle cose successe mi avevano fatto passare la voglia, poi però è ripartita e da quando è diventato più facile registrare l’energia è salita a mille. Non vorrei dirti una cosa banale, ma per me scrivere è una valvola di sfogo, un bisogno, mi piace e mi permette di raccontare cose. Un domani, quando smetterò, voglio aver lasciato qualcosa di sostanzioso. Questo è il periodo dei wrapped, no? Ecco, se hai detto qualcosa di importante a cinquanta, cento persone, se hanno capito quello che c’è dietro a tutto ‘sto sbattimento, la vita, i progetti, le motivazioni, allora ho lasciato una roba, un segno. Voglio tramandare qualcosa, un messaggio.
B: l’ultima domanda è di rito. C’è qualcosa che non ti ho chiesto e volevi dire?
M: no, ci siamo detti un sacco di cose… Noi facciamo da soli, tranquillamente, sempre con il fuoco addosso, per lasciare musica di valore a chi ha voglia di capirla. Sono fotografie, mi piace pensare che chi ascolta ne faccia l’uso giusto. Io ho sempre frequentato gente che puoi immaginare, o forse che non riesci a immaginare, e alcune cose le scrivo per dire ai ragazzini che fare quelle robe o andare in galera non è una figata. C’è un tempo per tutto e quello che faccio oggi, senza voler fare Rap che asciuga, ha anche questo fine.
Montenero è una fucina di storie, esperienze e aneddoti, non tutti attinenti alla dimensione musicale. La stima che riceve dalla scena non è frutto del caso e, dal canto nostro, siamo stati davvero felici di quest’intervista: ringraziamo lui e Stakanov Boys per la disponibilità, certi che le novità non siano terminate qui…
Bra
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