Intervista a Matt Manent @ Soundtrash Studio – Pessano (MI) (Maggio 2008)

Blema: Matt Manent è un nome che si è cominciato a sentire a Milano e in Lombardia intorno al periodo dello Show Off, quando c’era un gran fiorire di jam in zona; ma in un verso di “Universal speaker” dici <<since I was fourteen>>, quindi c’è stato anche un prima… Chi era Matt Manent?
Matt Manent: <<since I was fourteen>> perché quello è stato proprio il punto d’inizio, sul finire dei miei 14 anni ho cominciato a scrivere con la precisa idea di prendere una direzione nell’Hip-Hop. Ciò che ero prima, l’ho rivalutato, l’ho messo anche dentro il concetto dell’album ed è riflesso sia quello che sono ora sia quello che ero prima dei fatidici 14 anni e il conseguente cambio di rotta nella direzione. Sono una persona che viene fuori da una delle situazioni più comuni, genitori che lavorano, gente che si fa il culo per una vita per comprarsi una casa, gente che è zitta e lavora, poche chiacchiere, si bada alla sostanza. Il contesto è questo. Non vengo fuori da situazioni di puro disagio come chi racconta o chi talvolta millanta robe di pseudo-ghetti all’italiana, a volte vere a volte estremizzate, la mia vita è quella di un ragazzo di provincia che cresce con una famiglia modesta, economicamente parlando, che vede i genitori sacrificarsi tanto per il mutuo della casa ecc… Sono cose che ho assorbito e che dai 14 anni in poi ho messo in rima con una certa coscienza.

B: tutti si aspettavano ancora una volta Matt Manent e DB, invece c’è solo Matt. Come mai?
MM: punto primo, è da chiarire subito il fatto che non c’è una rottura tra me e DB, anche perché se ci fosse stato del sangue amaro tra me e lui non ci saremmo mai trovati una volta alla settimana per fare StreetBeat; punto secondo, ci fossero stati dei dissapori non avrei registrato interamente il disco da lui; punto terzo, se ci fossero stati dei dissapori, non si sarebbero trovate delle sue collaborazioni con due beat. Questa è stata la mia naturale evoluzione per la voglia di testarmi con il suono di altri producer, avere il piacere di provare altre sonorità ed evolvermi su quelle, perché il beat è sempre la pietra fondamentale, per me. Quando abbiamo fatto “Dedalo EP”, se avessimo voluto proporci come gruppo ci saremmo trovati un nome e invece Matt&DB significava un’unione di forze e così è stato, potremmo collaborare per qualcosa insieme anche domani mattina, però per questo capitolo non è assolutamente una rottura, è solo la mia evoluzione, prendere un’altra strada e avere il piacere di gestirmi con più producer.

B: le collaborazioni che troviamo su “Palestra di vita” sono soprattutto con gente che sta al nord (Lugano, Varese, Milano, Torino, ecc.), zona d’Italia dove, per ovvi motivi, sei più conosciuto. Non sembra molto furba l’idea di lavorare con colleghi conosciuti tanto quanto te e per di più nella stessa area…
MM: io non ho un’idea limitante per questo disco e non lo identifico come un disco del nord, succedeva anni fa che uscissero dei dischi che sembravano fatti in serie, stessa gente, stessi featuring, stessi producer; questo non è il mio caso. Io non mi sono neanche posto il problema, perché ho voluto lavorare con la gente che più mi piace e con cui c’è anche un rapporto di stima reciproca, il fatto che poi siano qui piuttosto che altrove cambia poco, si parla sempre di nord come se fosse una massa tutta amalgamata ma i Duplici sono di Torino, io gravito nell’area di Milano e quindi non siamo propriamente sotto casa e non è che abbia tirato gente in studio perché non sapevo come chiudere la traccia, prima di tutto stima reciproca. Poi, a livello di produzioni, sono stati coinvolti anche Shuko, dalla Germania, Jupiter, da Bucarest, ma anche Eko, da Avellino; il sud è pieno di gente che mi piace: e MadBuddy, Kiave, Ghemon… Dalla Sicilia a Roma c’è tanta gente che mi piace, però con loro non c’è un rapporto. Questo mio lavoro è come un biglietto da visita, magari prossimamente si può creare, sulla base di qualcosa di concreto, un rapporto del genere.

B: quindi presenterai “Palestra di vita” anche in altre zone d’Italia?
MM: io ci spero! Il problema è quello di essere messi in una condizione di serietà, suonare è sempre la prima cosa, ci sono situazioni dove magari ci sono venti persone che ti trovi di fronte ma sono venti persone che quando butti per la seconda volta un ritornello già lo sanno a memoria, ti supportano, ti vengono a prendere il CD ed è veramente bello, ce ne sono altre, all’opposto, dove mancano totalmente il rispetto o le garanzie per muoversi. Non sono una persona che purtroppo può permettersi di girare in lungo e in largo senza garanzie. Io spero di andare ovunque, sto prendendo contatti per andare in quante più parti possibili, soprattutto che possano portarmi fuori dalla mia zona.

B: come sono nate le collaborazioni coi produttori provenienti dall’estero?
MM: con loro c’è stato un rapporto molto, molto bello. Con Shuko ciò che ci accomuna è stato che siamo di due crew radiofoniche, noi StreetBeat e loro HipHopCulture, per questa passione comune ci siamo conosciuti un po’ tutti, io ero stato in Germania da loro a presentare “Dedalo EP” nel loro programma, c’era Shuko che era un ottimo producer che non aveva mai avuto l’occasione di concretizzare qualcosa con qualcuno in Italia, mi sono proposto, ne abbiamo parlato, ha accettato. Questo è un grande onore, perché avere sull’album una persona che ha prodotto per Army Of The Pharaohs, R.A. The Rugged Man e Braille, è una soddisfazione, per la prima volta in Italia arriva un beat di Shuko. Jupiter, invece, doveva venire in Italia in vacanza, si è documentato su quello che si muoveva dalle nostre parti, ha trovato il sito di StreetBeat, ha ascoltato la trasmissione, mi ha contattato, lui era di passaggio a Milano e ci siamo visti, mi ha fatto sentire un po’ di beat, mi sono piaciuti tantissimo e con lui sarà una cosa che andrà anche oltre, perché sta facendo un nuovo lavoro originalissimo: data la crisi discografica, ognuno cerca un’idea originale, lui ogni mese butterà fuori dei pezzi in download gratuito disponibili anche per l’acquisto per quelli che hanno il buon cuore di comprarli, un lavoro a puntate che si chiamerà Jupiter A Ucis Melodia, Jupiter ha ucciso la melodia, in altre parole si uccide il suono melodico o stereotipato che gira ad alti livelli per portare del sano Hip-Hop. Nel primo episodio, ci sono stati artisti come Pumpkinhead e altri del luogo, per quanto riguarda l’Italia figurerò io e per altre nazioni altri ospiti.

B: Hai deciso di fare un CD stampato, con booklet, ecc… Che cosa ne pensi invece della scelta che hanno fatto gli Huga Flame, del free download?
MM: gli Huga hanno fatto bene perché avevano una discografia di un certo tipo alle spalle, la gente sa chi sono, che piacciano o non piacciano la gente sa, identifica gli Huga Flame. Hanno fatto bene anche perché sanno promuoversi, sono attivi con i video, ecc. Io non potevo permettermi un passo del genere, perché sarei stato il file sul desktop di qualcuno senza un sapore, senza niente. La confezione che ho fatto io è molto curata, sia per quanto riguarda le foto, scattate da uno studente di Brera bravissimo, la grafica, curata dalla Question Mark, e anche per i concetti che ho messo io, cioè il completamento, il libretto. Se uno si scarica degli .mp3 non capirà mai certe cose che ho voluto mettere sulle motivazioni, su che cosa mi spinga a scrivere, è un libretto che parla, con le immagini o con le parole, parla.

B: ne parli sul tuo disco, c’è uno skit di StreetBeat. Quant’è stata importante l’esperienza radiofonica con StreetBeat per te, come mc?
MM: importantissima, più che come mc, come persona nell’Hip-Hop. StreetBeat è stato il crocevia di tantissime storie ed esperienze, la gente che in studio viene e ci racconta, tutti gli ospiti che ci sono stati hanno portato le loro storie e vicende, ci si è confrontati. Per quanto riguarda la scena italiana, avendo conosciuto moltissimi artisti in questi cinque anni di attività, abbiamo fatto un grande salto di qualità che ci ha permesso di inquadrare pregi e difetti della scena e di avere una conoscenza dal lato umano con le persone, che è la cosa migliore, perché ci sono dei rapporti che sono andati avanti, si sono evoluti. Per quanto riguarda l’estero, abbiamo conosciuto tantissime persone, tanti artisti validissimi, delle leggende dell’Hip-Hop che si dimostrano prima persone come si deve che artisti di grande spessore. StreetBeat, in Italia o all’estero, ci ha dato un motivo per esprimerci e ringrazio noi stessi e nessun altro perché ci siamo trovati in situazioni estreme dove si poteva chiudere da un giorno all’altro, invece abbiamo sempre avuto la forza di metterci, di scucire i soldi di tasca nostra per portare avanti una cosa in cui crediamo. Mi permetto di dire che è molto più Hip-Hop questo tipo di atteggiamento concreto, di chi cioè si mette a lavorare 11/12 ore al giorno per avere i soldi da investire in questo oltre che per vivere, invece che quello delle persone che pensano che con un New Era figo, di pacca, siano i nuovi profeti del ghetto o gente che è cent’anni che è in giro a sbandierare il rispetto ma poi il rispetto non sa neanche dove stia di casa. A volte, purtroppo, trovi delle persone infime…

B: e che importanza ha avuto, invece, la tua esperienza di giornalista, quindi la possibilità di conoscere artisti italiani, europei, americani…
MM: va molto in parallelo con quello che è stato StreetBeat, perché comunque sono cose che sono nate prima per StreetBeat e che poi ho messo su carta per Groove. Prima ho fatto un minimo di gavetta su siti dove pubblicavo alcuni articoli, scrivere mi piace, è una bellissima cosa quindi appena ho avuto l’occasione, ho voluto fare in modo di uscire. Con Groove ho trovato una mentalità molto aperta, può piacere o non piacere, io che l’ho vista da dentro e che conosco persone come Teskio, un signor caporedattore, dico che anche qua sono rimasto arricchito prima da un lato umano che dal lato monetario. Ho scoperto poi anche il lato b della faccenda, perché l’editoria è un settore sempre in crisi e riuscire a far diventare questa la mia professione è pressoché impossibile, specialmente quando vuoi scrivere con un’etica. A me non me ne frega un cazzo di scrivere un articolo sull’ultimo profeta da classifica americana, io voglio scrivere di determinate cose, è chiaro che quando subentra un discorso etico ti precludi delle possibilità: io non sprecherò mai tempo per intervistare un artista che reputo falso, vado per gli artisti che stimo.

B: parliamo della scelta dell’autoproduzione…
MM: è un discorso importante, perché c’è una crisi discografica fortissima, per cui se nel 2003 usciva qualcuno con un CD serio d’esordio, mille copie le facevi sicuro perché c’era più fermento, si andava alle serate con una certa mentalità e la gente non era così attaccata a Internet e MySpace. Il discorso che la gente deve capire è molto semplice: più si va avanti e più diventa come un lavoro, passi attraverso delle vicissitudini in cui tu per un tot non puoi lavorare se devi andare in studio a curare come sta venendo fuori il tuo album e non ci sono storie, a meno che non hai la fortuna di avere qualcuno di estremamente fidato che va a controllare per te, com’è stato per me con DB. Ogni persona che masterizza un disco, ruba qualcosa. Il CD è fatto con un prezzo quanto più contenuto possibile e non stiamo parlando dell’artista della casa discografica che ha i soldi, né sarebbe giusto neppure in quel caso, non è mai giusto rubare dalle tasche della gente, specialmente da chi si autoproduce e ci mette migliaia di euro più i mesi di lavoro per portare fuori una cosa del genere. Io, per far uscire questo disco, ho dovuto rinunciare a tantissime altre cose, sono arrivato a lavorare anche 17 ore al giorno, dalle 6 di mattina all’una di notte, dopo tutte queste cose se qualcuno mi masterizza un pezzo vado fuori di testa. A parte la questione del rispetto, io mi vedrò un sogno messo alle strette o ucciso da quanto la gente ti ruba dalle tasche, non esiste. Spero nella correttezza e nel buon cuore di chi è appassionato. Matt Manent o non Matt Manent, se si continua di questo passo, finito il giro della gente pazza che ha voglia di fare dei dischi, non ci sarà più niente e già in Italia abbiamo molto poco.

B: in poche parole, cos’è “Palestra di vita”?
MM: “Palestra di vita” è il concetto fondamentale dei miei 24 anni e tutto il percorso attraverso cui un bambino nasce, cresce e diventa un giovane adulto, uomo non si può dire, quello lo valuti alla fine della tua esistenza. “Palestra di vita” condensa tutto questo, è un lavoro concepito in 18 mesi e quindi tecnicamente rappresenta proprio questi 18 mesi, però è il succo di un’esistenza intera. Ci sono diversi pezzi, tra cui appunto la titletrack, che descrivono il contesto in cui sono venuto su, “Strettamente personale”, palesemente rivolto ai miei genitori perché li reputo esempio di qualcosa di raro, poi ci sono altre sfaccettature di me che vengono fuori, come quello un po’ più goliardico di “Mascalzoni latini”, coi Duplici, perché siamo tre pazzi, oppure la riflessione sullo stato attuale dell’arte come in “Bruciamo vivi”. “Palestra di vita” vuole anche rompere i confini e andare più in là, è il caso di “Universal speaker”, cinque strofe in cinque lingue. Non m’interessa che la gente capisca o meno, spero che comunque smuova qualcosa e faccia capire il concetto fondamentale che l’Hip-Hop non è America-virgola-Italia-tra parentesi: l’Hip-Hop è globale. Io ho fatto un pezzo in cinque lingue, ma c’è dell’Hip-Hop in ogni lingua del mondo, poco o tanto. Connettere è la prima cosa.

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