Intervista a Kento (Marzo 2014)

Bra: tra “Sacco o Vanzetti” e “Radici” trascorrono quattro anni abbondanti. Artisticamente parlando, cos’è successo in quest’arco di tempo e quali similitudini è possibile cogliere tra il primo e il secondo?
Kento: sono successe molte cose. Prima di tutto, “Sacco o Vanzetti” è andato molto meglio del previsto: mi ha permesso di fare circa duecento date in tutt’Italia, quindi di confrontarmi con molte città e situazioni e di crescere parecchio. Poi, con i Kalafro abbiamo fatto uscire “Resistenza sonora”, che ha rafforzato ancora più la mia eredità culturale verso il sud e la Calabria. La similitudine tra “Sacco o Vanzetti” e “Radici” è quindi data dal fatto che i miei valori non cambiano, i pezzi usciti nel 2009 mi suonano ancora bene come se li avessi scritti ieri. Ma sicuramente non sono la persona che ero cinque anni fa, ho l’obbligo di sfidare me stesso e provare a migliorare con la scrittura, con il concept e con il sound. “Radici” è il risultato di questo sforzo.

B: raccontaci la genesi di “Radici”. Tempi di lavorazione, come nasce la collaborazione coi Voodoo Brothers, perché proprio il Blues e così via…
K: il disco ha avuto una lavorazione di tre anni, quindi estremamente lunga, specialmente per i canoni dell’Hip-Hop di questi ultimi anni. Con alcuni dei Voodoo Brothers avevo collaborato già in passato: l’idea era di creare la migliore band possibile ma – allo stesso tempo – non una collezione di figurine; il suono doveva essere coerente e riconoscibile. Ed ecco che i tre anni di lavoro cominciano ad avere un senso… Il disco vuol essere un omaggio alla musica e alla cultura afroamericana: nel momento in cui molti rapper sono ossessionati dal voler indovinare quello che ci riserva il futuro, quale sarà la prossima tendenza, cosa ballerà la gente nei prossimi mesi, noialtri abbiamo scelto il percorso diametralmente opposto. Abbiamo risalito il flusso da cui nasce l’Hip-Hop fino ad arrivare al Delta Blues di quasi cent’anni fa di Robert Johnson e Skip James. Il Blues è molto più antico del Rap, ma fa parte della stessa famiglia. E noi, nel nostro piccolo, abbiamo provato a raccontare il filo conduttore di questi cent’anni.

B: ecco appunto, da un lato c’è l’Hip-Hop che guarda alla Dance e sembra rivolgersi a un pubblico di adolescenti, dall’altro ci sei tu che riallacci legami col Blues e proponi pensieri caratterizzati da una maturità di tutt’altro segno. Come stanno assieme le due cose? Sono due facce della stessa medaglia o credi si tratti di due modi d’intendere questa musica del tutto opposti?
K: l’Hip-Hop oggi ha un peso e un’autorevolezza tali che si può permettere di confrontarsi con qualsiasi genere musicale senza sfigurare, diventandone anzi molto spesso il valore aggiunto. Per me, però, era molto importante differenziarmi, in un momento – come dici correttamente – in cui molti mc’s e produttori sembrano cercare il successo facile, il pubblico dei giovanissimi e il sound più easy. Si può ascoltare e fare Hip-Hop anche quando si è più vicini ai quarant’anni che ai venti: una cosa ovvia per chi conosce questa Cultura, forse un po’ meno per chi ci si è avvicinato da poco o in modo più superficiale. Riascoltando le cose nuove, sento che sto riuscendo ancora a migliorare scrittura e delivery. Non è scontato e spero sarà un percorso ancora molto lungo.

B: nei tuoi brani il contenuto politico, ciò che a me piace ancora chiamare militanza, emerge in maniera molto marcata. Da dove ha origine l’esigenza di tornare spesso su determinati temi e quanto ti ha formato l’Hip-Hop delle cosiddette posse?
K: il fatto di aver cominciato a fare Rap ascoltando i Public Enemy – ma anche gli Onda Rossa Posse, i Piombo a Tempo, Lou X – è un elemento determinante. Ma, oggi che l’mc è diventato una figura più ascoltata che in passato, è ancora più importante essere consapevoli e coscienti della forza e dell’impatto che risiedono nelle nostre parole. Non dico assolutamente che tutti i testi debbano essere militanti e che non ci sia spazio per tematiche più leggere, ma chiunque ha un microfono in mano, che lo ascoltino in trenta o in trenta milioni, deve avere la consapevolezza di avere un’arma in mano e quindi l’abilità di controllarla, di mirare preciso, di colpire dove decide.

B: l’altro elemento spesso presente nei tuoi testi, in bilico tra denuncia e nostalgia, è la Calabria, terra oggettivamente fertile in ambito Hip-Hop (anche se in molti sembrano dimenticarlo). Che ricordo hai della Reggio dei primi anni ’90, quella in cui hai cominciato a esprimerti col Rap, e quanto la trovi cambiata oggi?
K: purtroppo, in alcune cose non la vedo molto cambiata, Reggio è il primo comune capoluogo a essere stato sciolto per infiltrazioni mafiose ed è tutt’ora commissariato; è recentissima la notizia che l’ex sindaco e presidente della Regione Calabria sia stato condannato a sei anni per abuso e falso… Insomma, certe cose purtroppo puzzano di vecchio. Per fortuna, c’è anche molto di buono: realtà come l’associazione DaSud, il movimento No Ponte e No Carbone, il CSOA Cartella e tanti ragazzi molto giovani che – anche grazie all’Hip-Hop – trovano l’intelligenza e la forza di schierarsi dalla parte della rivoluzione.

B: complessivamente, rispetto all’Hip-Hop italiano, da parte tua si nota un approccio all’autobiografismo molto meno insistito (mi permetto di aggiungere: grazie a Dio…); come stabilisci se un tuo testo è originale o meno e quanto sei autocritico nella selezione dei contenuti da proporre?
K: ogni rapper ha le sue fissazioni, io ho le mie. Te ne racconto un paio. A me piace molto scrivere ma, quando sono in fase di stesura dei testi di un disco, mi impongo di non poggiare la penna sul foglio fino a quando il concept del testo non è chiaro al 100% e buona parte delle rime sono già in giro nella mia mente. E’ come aspettare di essere quasi morto di sete prima di prendere un bicchiere d’acqua. Mi sembra che facendo così i testi acquisiscano maggiore urgenza, maggiore immediatezza. La seconda fissazione è che scrivo sempre le strofe nell’ordine in cui le metterò nel pezzo, perché mi piace creare degli effetti di crescendo o comunque delle correlazioni sia come interpretazione che come testo tra la prima strofa e le successive. Non potrei assolutamente, come fanno altri, scrivere due/tre strofe intercambiabili, mi sembrerebbe di snaturare la scrittura.

Mr. Bushsdoc: in “Roots music” dici che una delle tue armi è data dai <<libri dei filosofi>>; quali sono, allora, i filosofi che più ti hanno arricchito, che ti hanno aiutato a costruire la tua visione del mondo?
K: i primi che ho letto sono stati i miei conterranei antichi, cioè i filosofi della Magna Grecia. Per quanto riguarda i più recenti, sarebbe scontato dire che i filosofi del cambiamento sociale sono quelli che mi hanno influenzato di più. Mi piace la filosofia che diventa teoria della società e dello Stato: anche se forse non è un filosofo a tutto tondo, diventa obbligatorio per me citare Antonio Gramsci.

B: Havoc, Ensi e Danno. Dicci qualcosa per ciascuno dei tre mc’s che hai deciso di ospitare in “Radici”.
K: Havoc è l’asso di briscola dell’Hip-Hop. Grande beatmaker ed mc, nello spazio di ventiquattr’ore ho avuto la fortuna di condividere con lui il palco e lo studio di registrazione (grazie a Ragin’ Bull Management e Soulfood Promotions). Con Ensi avevo già collaborato, ma un secolo fa. Mi sembrava la persona giusta con cui fare un pezzo, “MP38”, che si rivolge ai giovani mc’s. Con Danno avevo parlato del mio progetto da moltissimo tempo e rimetterlo su un loop di Ice One è stata una bella suggestione, onestamente penso che “Ghost dog – Cane fantasma” sia tagliata su misura per lui.

B: sei al secondo album solista, ma hai condiviso prima l’esperienza de Gli Inquilini e poi quella (in corso) dei Kalafro. Come valuti il percorso nell’insieme e che peso dai, nella tua crescita come mc, a queste due formazioni?
K: entrambe sono esperienze formative molto importanti, perché è lì che ho imparato come si fa un disco. Però ti devo dire che lavorare da solista è molto più impegnativo, sia come scrittura che stando sul palco. Ripensandoci, è il percorso ideale: fare esperienza in gruppo per poi lanciarsi in un’avventura solista. Ma allo stesso tempo spero di ritrovarmi un giorno con tutti i Kalafro in studio per un nuovo disco della posse.

B: <<poi ti direi Kento come mc italiano. Può sembrare paradossale, perché il suo stile è totalmente opposto al mio, ma comunque sia guardo a lui come un grande scrittore, tra i pochi che mi impressionano ogni volta che li ascolto>>; qualche anno fa, chiedendo a Lord Madness chi ne avesse influenzato l’approccio alla scrittura, mi rispose così. Se facessi a te la stessa domanda, cosa diresti?
K: be’, l’influenza è reciproca perché Madness è veramente geniale nella scrittura ed è uno dei pochi mc’s che conosco a vivere l’Hip-Hop in maniera così intima e totalizzante. Non voglio raccontare episodi della sua vita privata, ma il Rap lo ha davvero aiutato e salvato: pensa con quale intensità e forza vive questa Cultura. Se guardi i fogli su cui scrive i testi rimani impressionato, non segue le righe, le parole volano sulla carta, sembra una scrittura del tutto casuale. Eppure, quando prende il microfono tutto torna a posto. Se dovessimo parlare invece di influenze storiche, ti direi ancora una volta Lou X tra gli italiani, mentre tra gli americani (i miei amici peruviani e argentini giustamente obiettano che dovrei scrivere statunitensi) sarebbe dura scegliere… Chuck D, Q-Tip, Guru, Nas. Tra quelli relativamente più giovani, Immortal Technique è probabilmente l’mc che ascolto di più.

B: nella tua musica è facile riconoscere omaggi o citazioni che fanno riferimento tanto alla tradizione cantautorale italiana quanto a quella popolare, hai un background musicale molto vario?
K: in realtà, meno di quanto vorrei, visto che alla fin fine tutto ciò che ascolto ricade in uno dei quadranti Rap/Reggae/Folk/cantautorato. C’è gente che ascolta più cose e conosce la musica molto meglio di me. Di positivo, per quanto mi riguarda, c’è che ho degli ascolti molto intensi. Un bel disco mi sistema la giornata, un brutto disco me la rovina. E’ un’arma a doppio taglio…

B: sappiamo quanto hai dato all’Hip-Hop in termini di dischi, serate live e, come detto sopra, militanza; lui a te cos’ha restituito?
K: l’Hip-Hop mi ha restituito la possibilità di uno studio senza fine, di un percorso che continua a farmi crescere e migliorare. Mi dà la possibilità di parlare alla gente con la mia voce e i miei concetti, senza nessuno a pilotarmi. Mi fa conoscere persone e città che avevo visto solo sulla carta geografica – e a volte neppure lì. Mi sento molto fortunato.

B: domanda di routine. L’attuale sovraesposizione del Rap italiano, quasi mai accompagnata da un approfondimento collaterale sulla cultura Hip-Hop, è un fenomeno che ti allarma?
K: no, non mi allarma, ma penso che la comunità Hip-Hop debba essere molto intelligente e attenta a fare in modo che non si risolva tutto solo in una moda passeggera e che i ragazzi siano portati ad approfondire determinati concetti. Da parte mia, è un dato di fatto che suono di più e ho un riscontro maggiore rispetto a qualche anno fa. E, se questo è dovuto anche in parte alla sovraesposizione di cui parli, significa che ne sto beneficiando anch’io, quindi non è tutto negativo.

B: il digipak di “Radici” è davvero molto bello, hai (co)partecipato alla realizzazione dell’artwork?
K: non solo non ho partecipato alla realizzazione, ma non ho voluto dare nessuna indicazione a Fabio Persico, il designer che lo ha realizzato. Gli ho passato il disco da ascoltare e gli ho detto di farsi suggestionare dall’ascolto, tutto qui. Bisogna rispettare gli artisti, non trattarli da esecutori. Quindi, come – ovviamente… – non ho detto a Danno o Havoc cosa scrivere nelle loro strofe, non ho voluto dare indicazioni precise a Fabio, né ai registi dei video di “MP38” e “Musica rivoluzione”, né ai ragazzi di Manual, che ci hanno realizzato dei bellissimi rhymebook…

B: nel congedarti ringraziandoti e augurando a “Radici” tutte le soddisfazioni che merita, potresti dirci a che punto credi sia arrivata la tua esperienza artistica e dove ritieni di poterla ancora condurre?
K: in questo momento sono soddisfatto, perché penso che questo disco sia onestamente il meglio che sono in grado di fare. Ma non lo vedo come un lavoro finito: ci sono ancora molti palchi su cui portarlo, video da far uscire, persone e realtà da conoscere… Il percorso è lungo e ringrazio voi di RapManiacZ e i vostri lettori per l’affetto con cui mi state accompagnando.

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