Intervista a Egreen (15/03/2025)
Avevamo sentito Egreen telefonicamente a inizio febbraio, dopo esserci occupati di diversi titoli a marchio Payback Records: volevamo fare il punto sulla sua label, inaugurata sul finire del 2023. In quell’occasione, Nicolas ci anticipava però che, entro una manciata di giorni, avrebbe ufficializzato la pubblicazione del suo nuovo disco, “Fare Rap non è obbligatorio”; di comune intesa, abbiamo quindi deciso di attendere qualche settimana e allargare i temi della chiacchierata, come state appunto per leggere…
Bra: non siamo sicuri sia il primo progetto vero e proprio a riportare il logo Payback, ma con “Pressure” di Gio Fog e Azukori avete dato subito una direzione precisa all’etichetta. Raccontaci come e quando è partita questa nuova avventura.
Egreen: fondamentalmente, nel periodo successivo alla prima pandemia, più o meno a cavallo tra quando eravamo tutti a casa e il mio ritorno a Bogotá, mi sono ritrovato in una fase di grande transizione, con “Fine primo tempo” fuori e “I Spit vol. 2” che, se ricordi, è uscito su Telegram perché avevo ancora degli accordi con Sony da risolvere. E’ già in quei giorni infiniti da trascorrere in Colombia che ho cominciato a maturare dei pensieri, delle riflessioni, tant’è che il logo mi viene fatto a Milano proprio quando ero lì. Ho sentito un po’ di persone, mi sono confrontato con loro per capire cosa pensassero dell’idea di creare una label, finendo poi a lavorare con altri; però il concept parte così, tant’è che nel doppio vinile di “Nicolás” il logo c’è. Di fatto, però, non era ancora il momento per un lancio, avevo bisogno di levarmi dai coglioni una serie di cose e, con due persone con le quali ho una certa affinità in termini di visione, siamo partiti, prima con Gio Fog e Azukori che è stato il nostro battesimo, poi con Rak, che conosco da una quindicina d’anni e aveva un disco in uscita che si chiamava proprio “Payback”, quindi gli faccio non puoi non uscire con me! Da lì la roba è cresciuta. Per capirci, noi all’inizio volevamo essere un po’ dei figli illegittimi di Tuff Kong Records, l’ambizione era quella: legati a qualcosa di molto specifico, culturale, come la stampa in vinile, senonché quel mercato stava crollando vertiginosamente, ce ne siamo resi conto subito e allora, invece di ridurre in maniera drastica il numero di uscite, abbiamo cambiato prospettiva. Quel primo anno o poco meno, da “Pressure” al settembre successivo, è stata una fase di studio e incubazione, dopodiché siamo partiti a rullo con la distribuzione digitale, i comunicati e via dicendo.
B: l’impressione è che inizialmente, prima di cominciare a organizzare eventi e incontri, tu sia stato – diciamo così – un po’ in disparte, lasciando che a parlare fossero la musica e le idee. E’ così?
E: bro’, sono davvero onorato e felice che tu l’abbia detto, perché è esattamente così! Io ho insistito per tutto il 2024 a tener duro, a non volermi esporre, a rimanere defilato, il fatto che qualcuno abbia interpretato questa cosa nel modo giusto è significativo. Poi a un certo punto, prima ancora che coi miei soci, ho dovuto fare i conti con lo specchio e mi sono detto ok, se questa cosa deve andare sulla mappa, è il momento di metterci anche la faccia. E’ successo a settembre, come dicevo, ma in una maniera molto professionale, abbiamo cercato di non fare nulla in maniera casuale, organizzato due conferenze stampa e dato la giusta attenzione ad alcune cose che stavamo pubblicando. Abbiamo fatto tutto per gradi.
B: tra i primi rapper con cui avete cominciato a collaborare c’è Gentle T, che in meno di un semestre ha rilasciato “La visione di Pantaleo” assieme a Mr. Squito e “Troppo facile” coi The Departed. Noi lo seguiamo con una certa insistenza da “Gran turismo”, che usciva per Make Rap Great Again; Payback è una realtà che attinge da quel serbatoio, chiamiamolo l’underground sottoesposto e di qualità, o si colloca in quadrante differente dell’Hip-Hop italiano?
E: io vorrei proprio evitare di cadere nella trappola dei quadranti, di essere collocati in una realtà estremamente settoriale. Va da sé che ci muoviamo all’interno di uno scenario che è senza dubbio underground e non immaginiamo certo di scoprire il nuovo Blanco (se poi succede, ben venga), ma è importante evitare di ricommettere alcuni errori del passato. L’underground italiano si è spesso auto-sabotato, penalizzandosi; detto da me potrebbe sembrare contraddittorio, ci sta, però come label manager mi propongo di far vedere che sotto la punta dell’iceberg ci sia una biodiversità infinita, per cifre stilistiche, personalità e maniere di esprimere questa fame che contraddistingue per definizione il sottosuolo. Un Gentle T è tanto underground quanto un Chyky, che è un ragazzo di Napoli con cui stiamo collaborando, lo sono altrettanto Peter Wit, Pepe Nocciola e Inda, eppure ognuno di loro fa le proprie cose. Siamo tutti parte di una comunità, anche se a volte penso sia difficile definirla in questo modo, perché non si stanno muovendo quegli ingranaggi sociali che consentono di passare da un insieme di tribù a una collettività. Magari fa parte del gioco, magari è sempre stato così, noi cerchiamo lo stesso di dare il nostro contributo per cambiare le cose.
B: al momento, considerati i nomi coinvolti, il vostro disco più ambizioso è forse “Dove mangiano i cuochi” di Zonta e Fid Mella. E’ una collaborazione nata in corso d’opera o sviluppata fin da principio con voi?
E: è una collaborazione arrivata quando c’era già qualcosa in moto e che poi si è rivelata molto scorrevole. Con loro due ho dei rapporti che oramai risalgono a neppure so quando, è venuto fuori questo discorso in maniera molto spontanea ed è stato tutto semplicissimo. Eppure, come per quei ristoranti che propongono dei piatti di una raffinatezza eccelsa, credo si sia trattato di un disco compreso solo in parte dal punto di vista dell’imprinting stilistico, dato che gli esecutori non hanno invece bisogno di presentazioni e sono stati tutti ineccepibili.
B: in generale, nel vostro roster figurano esordienti e non, ad esempio si va da Roy Zen e Kiazza Mob a J. Levis, Liffe e Barra1. Come si svolge l’attività di scouting e cosa cerca Payback in un artista?
E: per rispondere a questa domanda dobbiamo tenere separati il periodo che va fino allo scorso anno, da quello che abbiamo inaugurato nel 2025. In termini di criteri di selezione, la prima fase ha visto quale componente principale o una forte personalità o un insieme tra rime e cose da dire in grado di distinguersi dalla media. Abbiamo fatto una scommessa in qualche modo rischiosa, distribuendo numerosi progetti in un intervallo comunque breve: al netto dell’interesse più – lasciami passare il termine – imprenditoriale, l’intenzione era quella di avere una cornice umana che facesse capire il nostro grande impegno, per poter dire queste cose esistono. Fare impresa con l’underground è per molti un concetto oscuro, non sanno neppure di cosa si tratti, mentre per altri è direttamente il male; Dru Ha della Duck Down o Peanut Butter Wolf della Stones Throw però non sono dei coglioni, giusto? Loro hanno fatto business per decadi con etichette indipendenti – e potrei andare avanti con altri esempi. Noi non cerchiamo di fare qualcosa che non sia mai stato fatto prima, né pensiamo di poter fare quello che hanno fatto loro: l’obiettivo è dare valore a quello che facciamo, all’impegno che ci mettiamo. Anche per questa ragione, l’esperienza ci ha insegnato a gestire diversamente i rapporti: non è detto che nel 2025 avremo un numero inferiore di uscite, ma daremo tanta rilevanza all’approccio al lavoro degli artisti. E’ importante che non perdano tempo loro, né lo perda l’etichetta: la selezione sarà meno una questione di pancia, ecco.
B: e quindi, mentre aiutavi rapper più giovani a registrare il loro disco, gli davi consigli, curavi la tua prima label, ti è venuta voglia di ripartire con qualcosa che desse anzitutto valore al collettivo. E’ così che nasce “Fare Rap non è obbligatorio”?
E: sì, esatto. L’album è l’unica conseguenza plausibile del lavoro svolto per Payback: sono stato nell’ombra, ho capito come funzionano certe cose, poi mi sono esposto e, una volta pronto a tornare in studio, pensare di coinvolgere solo due amici rapper mi è sembrato non avere più senso. Ho voluto fare all-in, tirando in mezzo anche gente che non fa parte del radar di Payback e in maniera coerente alle cose che ti dicevo: a prescindere dalle persone con cui vai la sera a cena e che chiami nei tuoi dischi, se viene meno la narrazione di una comunità viene giù anche il resto. Come ho spiegato di recente in un’intervista e ripeterò ancora in futuro, il punto non è fare il salvatore della patria, è darsi delle possibilità. Un business non si fa da un giorno all’altro e le cose non vengono migliorate solo parlando, ma possiamo provarci.
B: le tracce sono state sviluppate in parallelo a quello che già facevate con Payback o a un certo punto ti sei fermato, hai raccolto featuring e produzioni e hai cominciato a registrare?
E: diciamo che avevo tutto da parte. Ho scritto in maniera randomica e, di volta in volta, ho preso le cose che mi piacevano e registrato, senza nessuna forzatura. Ad esempio, nel volume due ho voluto coinvolgere Thai Smoke, perché assieme non avevamo mai fatto niente – te l’avevo detto che la prossima settimana esce la seconda parte del disco?
B: no!
E: ok, è fuori il 21. Dicevo, c’è tanta gente dentro, rapper e produttori che volevo tirare in mezzo da tanto, ma non è una questione di peso specifico del disco: ho avuto l’occasione di fare quello che non sempre è possibile fare, chiamando a collaborare non dico ogni persona che mi è venuta in mente, ma quasi. Una cosa di questo tipo, in un altro momento del mio percorso, non l’avrei potuta fare.
B: ci ha colpito che il sound, nonostante sia nelle mani di una decina di produttori, abbia un taglio parecchio omogeneo, che richiama quasi l’essenzialità e la durezza di un mixtape. Pur essendoti misurato con ogni tipo di strumentale, senti di essere valorizzato meglio da una cartella come questa, più tradizionale?
E: sì – e ho dovuto farci pace con ‘sta cosa. Ho fatto “Fine primo tempo”, che per me è stato un disco difficile sotto tanti punti di vista, ed è andata com’è andata, un dramma che però mi è piovuto in testa come una doccia fredda, svegliandomi. Quel ciclo di almeno due o tre anni mi è servito come auto-terapia, ho capito che non c’è un cazzo da fare perché la mia roba è questa, non posso scappare da ciò che sono anche in termini di approccio alla disciplina del Rap. Sicuramente su questi suoni rendo meglio, la mano va da sola e scrivo strofe di livello a quarant’anni in dieci minuti di orologio. Sono figlio di questa cosa.
B: lo accennavi e l’hai raccontato in più occasioni, tra “Fine primo tempo” e “Nicolás” hai incassato degli schiaffoni, sia personalmente che professionalmente. “Fare Rap…” segna un cambio di prospettiva, nel tuo modo di intendere la carriera discografica? E cosa ti hanno insegnato quelle esperienze?
E: mi sento un po’ mia madre a dirlo, ma ho imparato che non è tutto bianco o tutto nero. Purtroppo questa è una di quelle cose che ti viene detta quando cresci, mentre stai per diventare adulto: per una persona come me, col mio carattere, con la tendenza a prendere sempre tutto di petto, capirlo è difficilissimo. Io nel Rap sono stato davvero pesante, non ho problemi a dirlo, in alcuni momenti sono stato brutale sotto certi aspetti e con alcune prese di posizione; con le batoste, le delusioni, la maturità, mettendomi in discussione (e c’è tanta gente che non lo fa), ho capito che racchiudere tutto in compartimenti stagni non porta a niente, pensare di stare solo da una parte o dall’altra è sbagliato. E’ la realtà dei fatti ad avermelo dimostrato.
B: salvo nostre sviste, l’album non ha ancora un’edizione fisica – e ora abbiamo capito il perché. In base a quale logica optate tra analogico e digitale, dato che alcuni titoli sono usciti su supporto fisico e altri no?
E: questa cosa ha un po’ a che vedere con quello che ti dicevo prima a proposito dei criteri di selezione di Payback per il 2025. E’ importante lavorare con persone che capiscano se ha senso realizzare la versione fisica di un disco – o meno. Qual è il peso specifico di un prodotto ufficiale rispetto a un EP, un mixtape, una raccolta di singoli? La domanda che ci facciamo, che mi faccio per la mia label, è questa. Viviamo in una realtà nella quale, se fai l’operazione sbagliata, ti scavi la fossa, perché sul mercato c’è tantissima offerta di vinili e CD. Per noi è di vitale importanza arrivare all’edizione fisica quando i prodotti lo meritano, altrimenti l’item stesso perde valore. E’ un discorso ampio, che riguarda tutte le operazioni di carattere discografico attivate per promuovere il progetto. Di recente ho detto a più di un artista che a volte stampare un vinile è come andare a farsi fare un trofeo per una gara che neppure si ha vinto: non ha senso. Magari non è Egreen a parlare, è il Nicolas Fantini label manager, però è importante capire ‘sta cosa per valorizzare ogni lavoro e non parlare a vanvera di sold out, edizioni limitate e via dicendo.
B: e per “Fare Rap non è obbligatorio”?
E: abbiamo già il progetto grafico pronto e decideremo prossimamente come muoverci.
B: rimanendo nell’ambito della promozione, parliamo dei live. Sei a Bologna il 22, a Torino il 27 e a Milano il 29: considerata la sua coralità e la mole del tutto, come verrà strutturato lo show di questo doppio disco?
E: guarda, fondamentalmente i ragazzi che vogliono esserci, saranno con me sul palco. Mi sto sentendo con tutti loro in privato e ti lascio immaginare quanto sia ostico organizzare un evento con un numero così grosso di artisti, però stiamo gestendo la cosa. Abbiamo già dei nomi annunciati per Bologna e annunceremo a breve anche gli altri.
B: intanto, qualcuno lo citavi prima, avete appena messo fuori altra musica – White Boy, Peter Wit, Inda e Bargeman; a grandi linee, cosa puoi anticiparci delle novità che avete già in programma per l’anno in corso?
E: posso dirti che vorrei lavorare con un po’ di rapper romani, perché secondo me è una città che deve essere rimessa pesantemente sulla mappa, non a livello di singoli ma come movimento. C’è tantissima gente che fa cose eccellenti e stiamo già lavorando a progetti con delle realtà romane, è una cosa che ho davvero a cuore perché il piatto della bilancia pende troppo da una parte.
B: non a caso il disco si apre con le barre <<il problema è con te stesso e qualcosa di te lo sa/anche tu per il Rap sei a Milano, hai cambiato città>>.
E: ci vuole un po’ di equilibrio, sì. E’ una cosa che fa bene a tutti e a Roma c’è già gente che lavora tanto, mi viene in mente uno come Lise (Roma Guasta, Da Specialists – ndBra) che sta facendo serate allo Zoobar con una certa continuità – e io so cosa vuol dire farsi il culo per far suonare gli altri; guarda cos’è stato il Welcome 2 The Jungle per anni, ci vogliono appuntamenti come quelli per fare comunità; oppure pensa a quello che succedeva tipo vent’anni fa, quando da Calabria e Campania salivano a Roma e si creava fermento, c’era un melting pot stilistico pazzesco, che serve come l’aria, avevi Ghemon come i Migliori Colori, generi un polo, avevi uno come Mr. Phil che faceva spesso da raccordo e lavorava tanto. Io sono a Milano da una vita e amo la scena di Milano, che per me rompe il culo conditio sine qua non, però il mio sogno è rivedere quell’equilibrio che ora non c’è.
B: curiosità personale su un rapper che avete coinvolto in più di un’occasione, compreso nel tuo disco. Michael Sorriso, che noi seguiamo da quando si chiamava Lince, farà parte di Payback?
E: posso dirti che c’è tanta stima e ci sentiamo spesso. Spero fortemente di poter avere il nome dell’etichetta accomunato al suo in futuro. Vedremo.
B: non so se te ne sei accorto, se sia voluto, ma tanto nella nostra chiacchierata quanto in “Fare Rap…” si accenna spesso all’impegno, al lavoro, alla fatica; è un tema che hai avvertito particolarmente, a questo punto della tua carriera?
E: io credo che prima gli artisti capiscono quanto debbano prendere questa cosa sul serio, anche se hanno un lavoro quotidiano, prima le cose hanno una possibilità di migliorare. Non dico che la mentalità rappresenti una metà della faccenda, ma la buona riuscita di un percorso richiede tanta serietà, una progettualità. Fatte tutte le differenze, per paradosso, la generazione della Trap ha preso questa cosa fottutamente sul serio: non arrivi a sedere in certi uffici solo per una botta di culo, per fare trattative importanti devi esserci e trovare la tua maniera di seguire questo percorso. Non succede per caso.
B: la chiusura è di rito. C’è qualcosa che non hai avuto modo di dire, durante l’intervista, e vorresti aggiungere prima di chiudere?
E: no, sono felice dell’intervista e va bene così.
Ringraziamo Nicolas e ci salutiamo in attesa di vederci al live di Milano. Quello che non si può evincere da una trascrizione, perciò vale la pena chiarirlo, è che ogni risposta sia stata dritta, lucida, precisa, rimarcando una determinazione che fa parte del carattere di Egreen, sì, ma in questa fase si accompagna a un entusiasmo certamente ritrovato, frutto di una sensibile ridiscussione personale. Il catalogo Payback si è ingrossato in breve tempo, dal canto nostro ne seguiremo senz’altro gli sviluppi.

Bra

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