Intervista a Brother Ali (29/01/2025)

La prospettiva di un’intervista con Brother Ali mi aveva portato a provare sensazioni differenti. Grande felicità, senza dubbio, essendo uno degli artisti al quale più di altri avrei desiderato porre domande, visti i contenuti sempre molto interessanti del suo Rap e una discografia così variegata, profonda, in qualche modo controcorrente. Al contempo, anche un po’ di preoccupazione, perché diventa difficile capire cosa chiedere a una figura tanto colta, con idee precise, una marcata spiritualità, una condizione fisica precaria; aspetti che da sempre costituiscono i temi portanti del suo rapporto con se stesso e, di conseguenza, dei suoi lavori. I miei indugi spariscono nel giro di un secondo, quando sullo schermo compare una persona pacifica, sorridente, capace di connettere immediatamente col proprio interlocutore. Ali emana bontà e gentilezza, mi toglie ogni preoccupazione riguardo alla prima data fissata per l’intervista, saltata per un mio problema (un grazie di cuore a Joshua Byrne per aver gestito il nuovo appuntamento!), mi saluta quindi con candore, curioso di conoscermi, semplice nel modo di presentarsi, entusiasta di rispondere alle nostre curiosità riguardanti “Satisfied Soul“, il suo nuovo album interamente prodotto da Ant che uscirà per Mello Music Group il prossimo 14 febbraio e che noi abbiamo avuto il privilegio di ascoltare in largo anticipo. Dopo essermi presentato, aver spiegato di cosa si occupa RapManiacZ e raccontato brevemente dei miei primi ascolti in ambito Hip-Hop, siamo pronti per cominciare la nostra chiacchierata.

Mistadave: grazie anzitutto per l’opportunità di avermi fatto ascoltare il tuo nuovo album, “Satisfied Soul”, dal quale ho ricavato impressioni molto positive – e non lo dico certo perché ti ho di fronte in questo momento! E’ un disco che parla di anima, vita, introspezione, perciò ho parecchie domande da farti. Prima, però, parliamo della produzione curata da Ant, con cui collabori da tempo immemore: come mai hai deciso di affidarti di nuovo a lui?
Brother Ali: semplicemente, Ant è la persona con cui desidero collaborare ogni volta che ne abbiamo l’opportunità. E’ uno dei miei migliori amici, mi conosce come nessun altro e il mio modo di fare musica con lui è unico, proprio per come ci conosciamo reciprocamente. Ci sono alcune parti della mia essenza, della mia anima, che riesco ad aprire solo in sua presenza, grazie al sound e alle ambientazioni che riesce a creare su misura per me. E’ come se ciò che scrivo sui suoi beat siano cose che dico direttamente a lui, mentre mi ascolta: Ant è in grado di capire perfettamente ciò che esprimo. Alcune amicizie che stringiamo tirano fuori la parte più trasparente e onesta di noi stessi, con lui non riesco e non posso fingere alcunché o dire cose esagerate. Quindi, vorrei sempre collaborare con lui, l’unica difficoltà che ho è trovarlo libero nei momenti in cui desidero realizzare un disco; in questo caso, poi, è stato tutto molto particolare, perché è la prima volta che lavoriamo assieme da quando non sono più in Rhymesayers, di cui lui è in parte proprietario. Abbiamo avuto un bel confronto a questo proposito, c’eravamo sentiti prima che facessi partire la mia etichetta personale, lui mi ha rassicurato molto dicendomi che la nostra amicizia non era affatto basata sull’essere compagni di label e che avrebbe lavorato con me ogni volta che lo avrei desiderato. Non ho lasciato Rhymesayers perché avevo problemi, semplicemente avevo una visione differente e più indipendente per come volevo gestire la mia vita artistica. Volevo prendere personalmente le decisioni in totale autonomia.

M: e com’è andato il processo di registrazione?
B: è stato meraviglioso. Quando ho lasciato Rhymesayers mi sono anche trasferito a Istanbul, dove ora vivo, è stato un periodo di grossi cambiamenti. Per registrare con Ant sono tornato a Minneapolis, ho scelto la scorsa primavera perché è un momento bellissimo per lavorare e gli ho suggerito di affittare un appartamento vicino a un lago, dove avrei potuto anzitutto fare una passeggiata mattutina e preparare i pensieri al processo creativo. L’album è nato molto spontaneamente per questo motivo, non voglio dire che sia stato facile realizzarlo, perché ho dovuto affrontare molte verità dolorose, ma è stato assolutamente divertente e naturale a livello di registrazione. Essere in un luogo del genere, accanto a un grande lago (ce ne sono moltissimi nel Minnesota), mi ha aiutato tantissimo nell’elaborare le mie riflessioni in modo meditativo, mi sentivo centrato mentalmente e fisicamente, grazie alla possibilità di muovermi nella natura.

M: Ant lavora molto con i sample, ma pure campionando strumenti realmente suonati. Quale tecnica ha scelto, per te?
B: sì, lui adotta diverse tecniche, dal sample estratto dal vinile, con un musicista che suona per lui e da cui campiona diverse cose, altre volte ancora ricorrendo a una live band cui poi aggiunge effetti o sintetizzatori e tastiere suonati da lui. Quest’album è un pò un mix di tutto ciò. Per molto tempo ha utilizzato una sola direzione nella produzione, mentre ora raccoglie quanto ha imparato negli anni e mischia tutto assieme. Il metodo con cui unisce il tutto è incredibile, perché non sei in grado di distinguere i campioni dagli strumenti veri. In questo, è diventato un vero maestro.
M: mi sembra un metodo realizzativo molto vicino a quello di “So Many Other Realities Exist Simultaneously” degli Atmosphere.
B: in effetti è così, sono perfettamente d’accordo.

M: la prima voce che si sente nel tuo nuovo album è quella di Mos Def (sorride appena intuisce la domanda – ndMista). Cosa c’è dietro questa scelta?
B: Yasin è una delle persone che più adoro al mondo, è stata una scelta spontanea. Ci siamo avvicinati moltissimo negli anni, è stato lui a consigliarmi di lasciare gli Stati Uniti e trasferirmi altrove. L’ho incontrato una decina d’anni fa, assieme a MF Doom con cui ero in tour. Yasin è un grandissimo fan di Doom, allo stesso modo in cui io sono diventato fan di Yasin stesso. I suoi dischi sono fondamentali per quanto mi riguarda e, se ho iniziato a fare Rap professionalmente, lo devo a Mos Def e all’ispirazione che mi ha dato. Ciò che era iniziato come un rapporto di reciproco rispetto, si è trasformato in un’amicizia speciale. Pensa che quando stavo registrando gli mandavo ogni pezzo realizzato, abbiamo avuto tante conversazioni sui temi da affrontare. Ascoltavo i suoi consigli con attenzione, perché lo considero il mio mentore musicale. Un giorno, mentre stavo lavorando a uno dei pezzi nuovi, “Name Of The One”, ho ricevuto una sua telefonata e abbiamo cominciato a parlare di “Love & Service“, il mio disco precedente che è stato sostanzialmente ostracizzato dall’industria musicale. Mi disse di conoscere il motivo per cui ciò era accaduto, ovvero che i poeti come me nascono, non vengono creati dall’Industria, che dunque non può oscurarli del tutto, se non con una opposizione neppure troppo celata. E’ impossibile per loro ricreare un altro me, mi disse, pertanto l’unica mossa che avevano era limitarmi in qualche modo, tenermi buono. Il testo di “Name Of The One” trascrive appunto ciò che mi disse quel giorno al telefono, l’ho solo messo in rima (attacca la prima strofa per darmene dimostrazione – ndM). Il pezzo è venuto fuori velocemente, a venti minuti dalla nostra conversazione Yasin lo stava già ascoltando. Mi richiamò, era impazzito, mi diceva fortissimo, quando l’hai fatto? e io proprio ora! (ride di gusto – ndM) Gli chiesi quindi di poter dare un contributo al disco, non volevo chiedergli una strofa perché lo fanno già tutti e io mi sentivo troppo timido per fargli una richiesta del genere, così è nato l’intro dell’album.

M: “Satisfied Soul” è un titolo positivo. Riflette i cambiamenti interiori che hai vissuto o la differente idea che hai oggi di te stesso?
B: sì, è decisamente positivo. Il termine deriva dallo spirito tradizionale del Sufismo, ma è pure menzionata direttamente dal Corano, e dalla spiegazione dei vari stadi attraversati dall’anima. Lo stadio più basso nello sviluppo è l’anima comandante, dove il nostro io chiede ciò che vuole come un bambino, il che rappresenta la parte peggiore della nostra umanità. Nel senso: chiedo ciò che voglio e non m’interessa se ferisco qualcuno ottenendolo. Lo stadio intermedio avviene quando l’anima comincia a essere responsabile, il che rappresenta una fase autoaccusatoria, sviluppando il senso di empatia. Lo stadio finale giunge quando l’anima è soddisfatta e soddisfacente nei confronti del Creatore, del Divino. Significa che qualsiasi cosa soddisfi Dio, soddisfa anche la mia anima. E’ l’accettazione di tutto ciò che Dio prevede per noi, con soddisfazione per qualsiasi sia la sua volontà nei nostri confronti; l’espressione massima del nostro amore per Dio. Si tratta di giungere a pensare che quanto è deciso dal Divino sia meglio di quanto possa decidere tu per te stesso. Anche quando le cose si fanno veramente difficili, e una volta superate, arrivi a capire il motivo per cui sono accadute e a pensare che fosse il meglio che ti sarebbe potuto accadere. Non avrei mai scelto alcune cose che mi sono accadute a Minneapolis, mai. La pandemia, le ribellioni, l’atmosfera cattiva che si respirava nella scena musicale locale, che hanno fatto del 2020 un anno molto duro. Non potevamo fare show, il rapporto con l’etichetta non era al meglio, mia suocera era morta a causa del Covid ed era l’unico genitore rimasto in vita tra me e mia moglie. Mai avrei scelto di vivere questi eventi, ma ora posso vedere che la mia vita e quella della mia famiglia sono assai migliori. Senza questi episodi, non avremmo deciso i drastici cambiamenti che abbiamo attuato. In qualità di Musulmani, vediamo che Allah ha scritto queste cose per noi e ce le ha fatte vivere anche se non ci piacevano, ma ora sappiamo che erano progettate per giungere a qualcosa di migliore.
M: è quindi un pensiero relativo alla coscienza di sé.
B: sì, molto simile al concetto di accettazione radicale.

M:D.R.U.M.” è il tuo nuovo singolo, già disponibile per l’ascolto da qualche settimana. La produzione, la tua interpretazione, mi hanno dato come un senso di gioia. E’ corretto dire che i tuoi problemi (con te stesso, con gli altri, con le istituzioni) esistono ancora ma è cambiato il modo in cui ne parli, che è più rilassato?
B: sì, sono d’accordo. Quel pezzo è inteso come celebrativo della musica stessa, l’intero disco è stato concepito con quell’intenzione. Molti dei contenuti sono nati da momenti molto duri e volevo festeggiare il fatto di poter realizzare un album con uno dei miei migliori amici in assoluto, di avere una mia etichetta, di poter promuovere la mia musica anche senza l’aiuto delle radio. Faccio i miei dischi con l’anima e mi piace il pensiero che chi li ascolta lo faccia mettendoci cuore e attenzione, la sensazione di potermi connettere con persone che non conosco è meravigliosa. La musica ci dà questa grande sensazione di non essere soli. “D.R.U.M.” vuol trasmettere esattamente questo tipo di emozione.
M: la musica ci tiene vivi.
B: sì. E, da una prospettiva islamica, oltre a ciò ci sono due visioni basiche nella comprensione della religione. L’iterazione più recente è una parte del pensiero derivante dal Sufismo, che include la musica, appunto le percussioni, e i canti, sottlineando l’importanza delle bellezza nell’esprimere la verità. Poi abbiamo l’attuale espressione saudita dell’Islam, la quale sostiene che i credenti non dovrebbero essere coinvolti nell’arte, nella musica o nell’utilizzo di strumenti, i cui esponenti sostengono che questa sia l’unica visione valida della faccenda. L’essere un musicista, per me, significa esprimere in quale versione dell’Islam mi senta più a mio agio ed è sicuramente quella dove posso esprimere me stesso.

M: in una tua vecchia intervista, leggevo che sei rimasto molto impressionato dal pubblico europeo, diversamente ricettivo nell’ascolto del Rap. E’ vero che provavi una soddisfazione differente esibendoti negli Stati Uniti o in Europa?
B: sì, perché penso che gli europei abbiano un tipo di unità differente, per via dell’origine delle rispettive nazioni. Non dipende solo dal fatto di essere quasi tutti di pelle bianca. Prendi il tuo caso, l’Italia: esiste una coscienza dell’essere tutti di pelle bianca, ma a non tutti viene concesso di esserlo. Mi spiego. Ci sono enormi differenze tra Italia del nord e del sud, a livello di pensiero, di cibo, di linguaggio. Nord e sud parlano praticamente lingue differenti. Nonostante ciò, esiste l’idea di essere una comunità unica ancor prima di ricevere il permesso di poterne far parte. Inoltre, l’Europa non vive lo storico senso di colpa americano per il commercio degli schiavi. Gli Stati Uniti non possiedono quel senso di unità, eccetto che per i bianchi, che si sentono i veri e soli americani. L’America è una guerra d’ideali, che non finisce mai e a volte diventa anche fisica. Non accetta che tutte le forme di musica siano state originate da persone di colore. Il Rock’n’Roll, la Disco, il Jazz, il Reggae, il Country, l’Hip-Hop stesso, è tutta musica black. A volte è una conversazione che non puoi avere, perché provoca ancora sdegno in qualcuno. In Europa, invece, questo concetto è chiaro, compreso. Parte di me si sente molto a proprio agio nell’avere questo tipo di interazioni con un pubblico europeo che, ad esempio, sa benissimo di rilevare un grado diverso di autenticità musicale quando ascolta artisti come Sean Price, Smif-n-Wessun e via dicendo. Così come io rispetto moltissimo alcuni rapper europei. Ma essere neri, credimi, porta a tutt’altre difficoltà. Se ami questa Cultura, come gli europei effettivamente dimostrano, non c’è però nulla di male nell’apprezzare Statik Selektah, Aesop Rock, R.A. The Rugged Man o Brother Ali stesso. Ma sappiamo da dove viene questa Cultura. Chiedi a Statik se sa cosa significhi essere accettati in una Cultura fondata da persone i cui antenati erano ridotti in schiavitù, sentirsi un po’ tagliato fuori per questo. E’ un concetto totalmente differente e siamo grati di poter essere accettati nel circolo. Per anni, gente come Statik Selektah o El-P è stata un’eccezione in una stanza piena di neri. Sono stati riconosciuti e legittimati, ma non è uguale. Perché l’Hip-Hop è una Cultura che appartiene ai neri. E’ come se un gruppo di coreani fosse venuto in Italia a suonare musica italiana: saprebbero che non stanno suonando la loro musica, ma quella di un’altra cultura. Per gli afroamericani non funziona allo stesso modo, perché nessuno in America riconosce che sta suonando qualcosa originato da persone di un’altra etnia. Il pubblico europeo, invece, riconosce quella matrice e non ha difficoltà in merito.
M: siamo cresciuti così, con quest’idea, guardando l’America da lontano e dal di fuori.
B: nei negozi di dischi, infatti, vedo spesso sezioni di musica black. Perchè è cio che è, a tutti gli effetti! I bianchi americani sono troppo sensibili sull’argomento, spesso mancano di rispetto agli altri. Pure agli italiani. Martin Scorsese ha girato “Goodfellas”. Steve Spielberg ha realizzato “Schlinder’s List”. Perché sono riusciti nell’intento? Perché conoscevano bene quel tipo di cultura e di argomento, anche se non era il loro.
M: è una protesta che noi europei da giovani abbiamo sentito da artisti come Ice-T, che rivendicava proprio questo tipo di identità culturale (menziono l’intro parlata di “Body Count”, inserita su “Original Gangster”). L’Hip-Hop stesso ci ha educati in questo senso.
B: è importante che si sappia la verità, non c’è bisogno di raccontarsela, come si fa in America. Specialmente se nel resto del mondo l’idea è del tutto diversa e diversamente compresa. Eminem è grandioso. Sage Francis pure. Ma, ripeto, non sono la stessa cosa. E sono grato di non dover affrontare discussioni del genere quando mi trovo in Europa.

M: parlando degli altri pezzi, ho particolarmente apprezzato “Cast Aside”, che ho trovato musicalmente meravigliosa. Il pezzo parla di solitudine, critica agli States e molte altre cose. Più di tutto, la mia attenzione è stata attirata dalla registrazione che hai inserito in coda, dove credo ci sia una tua telefonata ad Ant riguardo il ritornello del pezzo stesso.
B: eh sì, è vero, avevo completamente scordato di aver usato quella telefonata! L’aneddoto deriva dal periodo in cui stavo registrando l’album, durante il Ramadan, passavo alcune notti a trovare la soluzione giusta per quel ritornello. Molte volte posso inventare cori tra me e me, ma non sono davvero in grado di cantare e questa cosa mi ha portato via molto tempo extra. La canzone nasce dal mio stato d’animo dopo essere tornato in America, sentirmi così isolato, tagliato fuori. La cultura americana tende a estromettere. Se hai un bell’aspetto, soldi, hai fatto una buona scuola, hai un ottimo lavoro, se sei l’emblema del benessere, allora sei considerato. Per troppi americani, invece, non è così.
M: in ogni caso, ti posso confermare che il ritornello sia riuscito alla grande!
B: grazie! Alla fine, dopo varie prove, Ant mi ha suggerito di fare qualcosa alla Funkadelic, quindi ho adottato il principio secondo il quale George Clinton faceva i cori sovrapponendo diverse voci, in modo che nessuna debba essere perfetta. Quindi, immaginavo di recitarlo una volta come un vecchio (si mette a fare una voce, appunto, da vecchio, ridendo – ndM), poi come una giovane donna (vi lascio immaginare l’effetto – ndM) e via così, in modo che nessuna voce dovesse essere completamente intonata. Finché ho ottenuto il risultato che aveva senso per me.
M: e per me!

M: un altro pezzo dal coro assolutamente riuscito è “Head Heart Hands”.
B: grazie ancora. Ricordo che è stata l’ultima canzone che abbiamo registrato, sempre durante il Ramadan. Come sai, noi musulmani andiamo ogni sera alla moschea in quel periodo, recitiamo un terzo del Corano ogni volta, per cui alla fine del Ramadan arrivi ad aver sentito tutta la scrittura. A Istanbul ci sono luoghi dove, se vuoi, te la puoi cavare in fretta, una sorta di rito abbreviato di una venitna di minuti, tuttavia dato che ogni quartiere ha una moschea dove si può sentire la versione completa, preferisco quella. Una volta sono stato lì per un paio d’ore e proprio in quell’occasione “Head Heart Hands” ha cominciato a formarsi nella mia mente. Tieni conto del fatto che, essendo in parte non vedente, non riesco a scrivere su carta e, di conseguenza, imparo a memoria tutto ciò che penso andrà poi a costituire la strofa. Per questo, come dicevo prima, gli abitanti dell’Arabia Saudita insistono sul fatto che la mente andrebbe concentrata sulla preghiera e non sull’arte. E’ stata una cosa naturale, non certo premeditata per farne business: appena terminata la preghiera, sono andato di corsa fino in studio per registrare il testo ed è nato il pezzo.

M: “Two Dudes” è uno storytelling molto coinvolgente. Come ti è arrivata l’ispirazione per scriverne il testo?
B: è arrivata quando ho iniziato il mio podcast (The Travelers Podcast – ndM), ho realizzato quante persone avevo conosciuto nella mia vita, rendendomi conto che molte facevano esattamente il mestiere che faccio anch’io, avendo anche più successo ma dimostrando una grande considerazione verso di me. Una volta ho ospitato Dave Chapelle ed era incredulo di incontrarmi! Grazie a quest’esperienza ho raccolto un buon numero di grandi storie e la sensazione è davvero bizzarra, perché parlare con dei personaggi famosi equivale a una strana giornata di lavoro. “Two Dudes” è un titolo ispirato da una battuta di Richard Pryor (famoso comico afroamericano – ndM), che io e Ant amiamo. Il testo racconta di un episodio particolare, nel quale mi trovavo in un piccolo locale del Wyoming pieno di cowboy: a un certo punto qualcuno salì sul palco e cominciò a fare beatbox per me, ma io, non vedendo completamente, mi diressi semplicemente verso questa persona e gli dissi di scendere subito. Più tardi, ho scoperto che avevo cacciato Justin Timberlake dal mio palco! Perché mai avrei dovuto pensare che fosse a un mio concerto, in un piccolo bar, nel mezzo del nulla, ad ascoltare me?! (ride – ndM) L’altra strofa racconta invece della prima volta che ho incontrato KRS-One, avevo tredici anni e mi invitò sul palco. Mi disse che dovevo leggere la biografia di Malcolm X e i suoi pensieri sull’Islam. All’epoca, avevo già chiara l’intenzione di prendere sul serio il Rap e lui era il mio idolo, forse il più grande di tutti i tempi. Più avanti, mentre ero in tour per il Rock The Bells, lo incrociai di nuovo e avevo una foto di quel primo incontro. Nel frattempo, ero diventato un rapper anch’io e davo lezioni e discorsi in università in giro per il mondo; dato che ero diventato musulmano proprio grazie a quel suo consiglio ci tenevo a ringraziarlo personalmente. Non ricordo se in quel momento lui avesse finito la sua performance o si stesse preparando per iniziarla, quando l’ho approcciato l’ho praticamente interrotto in quello che stava facendo! Era lì, mi chiedeva dimmi, ci conosciamo? e io là a pensare di aver fatto brutta figura. Ero con questa persona molto più brava e famosa di me, ma facevamo lo stesso lavoro ed eravamo lì per lo stesso motivo, come due individui qualsiasi. Ecco spiegato il titolo da un altro punto di vista.
M: e di KRS fai un’imitazione perfetta con quel yes, you are!
B: (ride – ndM) e pensa che ho scoperto che sia Jay-Z che Eddie Murphy fanno un’imitazione perfetta di KRS. Ne ha parlato ?uestlove nel suo podcast, devo assolutamente sentirla!

M: “The Counts”, altra traccia particolarmente gradevole. Esprimi barre molto coscienziose: <<I’ve never bought what they bought instead i fed the kids/…/I ain’t in the crowd shopping for a better chick>>; riflettono molto il tuo sentire contro l’immoralità e il materialismo. Come rapporti ciò al modo in cui è visto l’Hip-Hop di solito?
B: faccio Hip-Hop perché amo farlo. Punto. Amo questa musica. Non mi interessano i soldi, tantomeno l’attenzione degli altri. Amo quel particolare processo in cui ascolto beat e mi metto a scrivere. Amo i dischi e stare con gli artisti che li hanno fatti. Amo il processo di registrazione, il mixaggio, i tour, esibirmi dal vivo. Amo parlare di Hip-Hop.
M: praticamente, il contrario del materialismo di cui è pervaso molto Hip-Hop…
B: che sia visto come strettamente legato al materialismo lo posso capire bene, così come lo è lo sport.
M: però non è tutto lì.
B: infatti, devi sempre pensare di non essere lì perché ti spetta. Sei lì perché ami quella cosa e sei bravo a farla, quell’amore ti spinge a migliorarti. Il problema è quando fai montagne di soldi, alcuni poi perdono di vista il vero obiettivo. Michael Jordan non è diventato ciò che è diventato perché voleva fare soldi, bensì perché amava il basket con tutto se stesso ed era estremamente competitivo. Voleva essere il migliore di sempre in un particolare ambito. Lo stesso si può dire di Mohammed Alì o Tony Hawk, per loro la motivazione era tutto, senza quella non sarebbero entrati nella storia dei loro rispettivi campi. Jay-Z è famosissimo, ma tutto nasce dal fatto che lui ama rappare.
M: come KRS, che ancora dà lezioni di metrica a sessant’anni…
B: a lui non è mai fregato nulla dei soldi, te lo garantisco.

M: ascoltando il tuo album nel suo complesso, mi sono fatto l’idea che le tematiche siano meno cariche a livello sociale e politico, mentre tutto sia più incentrato sulla ricerca della tua vera essenza. Trovi sia così?
B: è vero, parlo un po’ di cose politiche e affini, ma non in maniera così diretta.
M: il pezzo di chiusura, “Sing Myself Whole”, suona malinconico. Possiamo sostenere che sia una sorta di lascito artistico da parte tua?
B: assolutamente, lo è. E’ un omaggio alla musica, che mi ha salvato la vita.
M: diresti quindi che quest’album chiuda in qualche modo un cerchio, per te?
B: non saprei, da un certo punto di vista forse sì. Se penso al periodo duro vissuto prima di quest’altro momento molto felice, sì. Sto celebrando questo passaggio a una nuova fase di vita. Di solito scrivo gli album in corrispondenza di questo tipo di salti. Lo vedrei più come un nuovo capitolo. Di certo posso dirti che è uno dei dischi a cui mi sono affezionato di più, una sensazione accentuata dal fatto che io e Ant siamo andati in tour per annunciarne l’uscita, una cosa che mai avevamo fatto in precedenza. E’ un disco speciale, che arriva da un tempo speciale. Ho molti doveri, anzitutto verso la mia famiglia, ma amo ancora tantissimo fare Rap. Forse lo amo più adesso che in ogni altro momento della mia esistenza. Perché ora lo sento proprio in maniera pura.
M: sono considerazioni che posso condividere, forse perché raggiunta quest’età sono più attento ai contenuti rivolti alla maturità…
B: amo particolarmente vedere come certi artisti siano oggi più a proprio agio e motivati. Yasin e The Alchemist stanno facendo un disco che si chiamerà “Forensics”, e non sarà nulla di simile a tutto ciò che abbiamo ascoltato fin qui. Yasin sta facendo cose fuori dall’ordinario, nell’approccio ai pezzi e nei risultati. Se ascolti il primo Mos Def e questo, non diresti mai che sono la stessa persona. Mi è piaciuto moltissimo anche l’ultimo lavoro di Alc con Roc Marciano, che è un rapper diverso da me, ma di lui apprezzo molto quel feeling di sincerità che puoi toccare con mano. E’ semplicemente il suo esprimere se stesso. E lo adoro.

M: ultima domanda. Che aspettative hai dalla pubblicazione di “Satisfied Soul”?
B: molto semplici, in realtà. Voglio solo che le persone interessate sappiano che c’è. Sono tempi in cui pubblicizzare un lavoro è molto più difficile che in passato. E’ stato bellissimo realizzarlo, mi ha fatto sentire tanto libero, vorrei solo che la gente sapesse che verrà fuori. Non c’è più un meccanismo tradizionale di pubblicità, come poteva essere un annuncio messo su The Source, un mezzo comunicativo che mi manca molto. La notizia arriva da molte fonti e non è detto che queste giungano a tutti gli interessati. E’ una grande sfida.

Tra una battuta e l’altra su quanto manchino a entrambi i negozi di dischi e le riviste specializzate, si conclude l’ora che ci è stata messa a disposizione. Ci sentiamo presto, su queste stesse righe, per la recensione di un disco che non mancherà di rivelarsi piacevole, di quelli che soddisfano davvero, oltre che le orecchie, l’anima.

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