Diabolic – The Disconnect

Voto: 4/4,5

L’Hip-Hop è un mare infinito e le varie specie di mc’s ivi contenute sono molteplici, tanto da perderne con facilità il conto. Dinanzi a una fauna di proporzioni così vaste, continuamente rigenerata da nuovi adepti che a fatica imprimono un marchio significativo, è possibile emergere solo qualora si possegga quella magica combinazione di qualità che permettono di svettare nel confronto con la media e formare una microcategoria a sé stante. Diabolic, che stia o meno nelle simpatie di chi si trova a giudicarne l’operato, appartiene senza ombra di dubbio a quest’ultimo raggruppamento.

Velenoso, polemico, scontroso, sprezzante, ma rifornito di un bagaglio tecnico spettacolare e spettante solo a un ristretto circolo di liricisti, una fortuna capitata nel mezzo delle medesime traversie che costituiscono la preziosa fonte da cui attinge l’ispirazione portante di quanto sinora realizzato su disco. Ciò di cui parliamo è uno stato di degrado mentale provocato da demoni personali di misure troppo ingombranti, un tormento continuamente fomentato da tutti i torti verso i quali il Nostro tenta di raccogliere le sue rivincite personali, meglio ancora se restituendo il favore con un tasso d’interesse la cui acidità è indubbiamente elevata al quadrato.

La percezione data dall’artista di riuscire a massimizzare la propria efficienza lirico/argomentativa proprio in concomitanza a determinate scelte tematiche è difatti una valutazione assolutamente sostenibile, saldamente corroborata dall’acquisizione delle ulteriori prove di valore che “The Disconnect” propone seguendo una vocazione ancora una volta procacciata da una sofferente esperienza personale, ma senza tralasciare l’attitudine licenziosa attorno alla quale l’artista ha costruito la propria reputazione. Gli ingredienti decisi per l’impasto sono di prima qualità, Diabolic si attornia di produttori sostanzialmente sconosciuti – con la sola eccezione di BP ed Engineer, già all’opera su “Fighting Words” – per creare un contesto sonoro in grado di spaziare con sapienza tra essenzialità e melodia, ben coniugando sotto il comune tetto del boom bap la differente estrazione di musicalità che centrano sistematicamente l’obiettivo di assecondare lo stato emotivo trasmesso da liriche per le quali non esiste la parola spreco.

Nonostante nessuno dei brani sia realmente legato all’altro, ne permane comunque la sensazione, dato che alcuni testi sembrano essere la diretta conseguenza di altri. Quello che in apparenza è un momento di pace sostenuta da una delicata combinazione tra un gorgheggio e un arpeggio non riesce a nascondere l’amara verità: l’Inferno è sempre lì, nel fondo del cuore, fermo e implacabile – e certe bruciature restano senza mai venire a capo della questione (“Lost In Translation”); la prospettiva è spesso angosciata e alimenta il sempre presente senso di frustrazione derivante da un crollo famigliare, dal trovarsi costretti a privare i figli di adeguati punti di riferimento, dal sostenere circostanze emotivamente impervie dipingendo colori monocromatici intrisi di white trash, appesantiti dall’assenza di una prospettiva priva di quell’aiuto cercato verso l’alto, ma che pare non arrivare mai (“Collide”).

Da tali presupposti conseguono alcune tra le migliori strofe mai scritte da questa penna (“Holy War”), nelle quali il protagonista veste panni a lui congeniali – quelli del reietto – ingaggiando uno scenografico scambio di opinioni con Dio e Lucifero attraverso esilaranti passaggi di certificato valore tecnico e creativo, ornati da una surreale colonna sonora. E’ un ambito caricato col massimo dell’oscurità, conseguentemente adatto a ospitare una delle più succulente specialità della casa, il triplo storytelling con univoca morale già sperimentato con successo in passato (“Enough” è difatti una diretta discendente della “Victim’s Story” presente in “Fighting Words”) e costruito avvalendosi di personaggi di non casuale estrazione sociale, i quali si muovono in uno sfondo fatto di stupefacenti, cattive influenze ed eventi sfortunati dentro una fornace testuale incandescente, dalla quale escono doppie rime multisillabiche che renderebbero orgoglioso persino Kool G. Rap.

La forte componente intima, suggellata dall’empatia mostrata dalla drammatica sincerità espressa in “Wrote This”, è ben bilanciata nel dosaggio della quantità dedicata a battle Rap e pezzi tematicamente più generici ma svolti con soddisfacente inventiva, altra peculiarità in grado di determinare positivamente la differenza tra questo e altri dischi. “Marvel”, ancora, viaggia a velocità missilistiche e getta materiale magmatico attraverso metriche di un altro livello, allestendo incastri ottenuti componendo e rimontando le parole a piacere, piegandole quel tanto che serve per creare l’assonanza giusta; “Fable” è un boom bap pulito con tanto di ritornello cantato ma assolutamente nerboruto, una lettera di scuse verso una persona della quale si è tradita la fiducia ove l’enunciazione del testo fa trasparire l’urgenza e la disperazione per godere di una seconda possibilità; “The Story” fa valere proprio quella capacità di scrittura di cui sopra, andando retrospettivamente alla fonte di quel senso d’appartenenza alla Cultura, un argomento non certo nuovo ma intelligentemente esposto, abbinando il tema all’abilità descrittiva di un’adolescenza complicata, le cui tappe principali sono indelebilmente contrassegnate da una passione cresciuta fino a diventare ciò che stiamo ascoltando oggi.

Poi si sa, il generoso pacchetto comprende pure la scurrile irriverenza che genera quell’attitudine da sputarime con canna e birra in mano e dito medio ben in vista, dando luogo alle meno impegnative “Lumberjack” e “What I Want”, episodi un pelo sotto il par che rallentano per un istante il flusso generale trovandosi peraltro collocate consecutivamente, proponendo così una maggiore leggerezza testuale e giusto quel paio di beat più macchinosi di altri in un quadro completato dalle uniche due tracce dotate di featuring, “Dirty” e “Roundhouse”, convincenti botta-e-risposta allestiti col sostegno di Tones e Taboo, assieme ai quali nascono i brani più duri – anche musicalmente – di tutto il lotto.

“The Disconnect” contiene abbondante materiale atto a rafforzare l’idea che Diabolic rimanga superiore al novanta per cento dei pretendenti all’ambito trono: <<I’m the king, it’s never been as obvious as now>>, sostiene lui stesso in “Marvel”; e la convinzione che l’affermazione sia del tutto veritiera è oggi più forte che mai.

Tracklist

Diabolic – The Disconnect (Warhorse Records 2019)

  1. Marvel
  2. The Story
  3. Pyrex
  4. Collide
  5. Holy War
  6. Lost In Translation
  7. Fable [Feat. Maggie Burns]
  8. What I Want
  9. Lumberjack
  10. Dirty [Feat. Maggie Burns and Tones]
  11. Enough
  12. Roundhouse [Feat. Taboo]
  13. Wrote This
  14. Buddy Lembeck

Beatz

  • Shaolin Beats: 1
  • Steps Necessary: 2
  • BP: 3, 4, 5, 7, 10, 11, 12
  • Charlie G.: 6
  • Evil Genius: 8
  • Nightwalker: 9
  • S.A.L: 13
  • Diabolic and Engineer: 14

Scratch

  • Dj G.I. Joe: 3
  • Dj Eclipse: 5
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