Common Sense – Resurrection

Voto: 4 –

In recent years, Chicago has exploded onto the Hip-Hop map. But through the nineties, mc’s and producers from the Windy City had one hell of a time getting any love from New York, L.A. and even their hometown on occasion. (…) Common is the one who first made the country give Chi a serious look. Il dettagliato booklet della bella edizione con bonus disc di “Resurrection”, pubblicata da Sony Music nel 2010, avvia giustamente il discorso dal tema geografico, perché quando, nell’ormai lontanissimo 1992, il ventenne Common Sense esordì con “Take It EZ” (in scaletta nell’album “Can I Borrow A Dollar?”), la metropoli dell’Illinois non aveva ancora una collocazione precisa nello scacchiere – già in profonda evoluzione – dell’Hip-Hop statunitense. Il collettivo All Natural, con Capital D e Molemen al vertice, mastini dell’underground come Vakill e Verbal Kent, fino a superstar del calibro di Kanye West e Lupe Fiasco, avrebbero contribuito a rimarcarne il ruolo non più secondario solo negli anni a venire, raccogliendo in qualche modo quanto seminato dal loro concittadino quando la scena locale era poco più di una pagina intonsa sulla quale scrivere in corsivo il proprio nome.

La penna di Lonnie Rashid Lynn fu più lesta di altre e, sul finire di un’annata che aveva incastonato gemme al cui cospetto chiniamo tuttora con deferenza il capo (“Hard To Earn”, “Illmatic”, “Ready To Die”), si apprestava addirittura a un subitaneo cambio di prospettiva. La citazione mistica del titolo non è infatti casuale: “Resurrection” nasce col preciso fine di correggere la bidimensionalità di “Can I Borrow…”, attivando un processo di rigenerazione – umana e artistica – che sboccerà nella sua pienezza a partire da “One Day It’ll All Make Sense”. Estirpata la misoginia delle origini, raggiunto un congruo baricentro tra introspezione e punchline, individuato nel Jazz Rap un ambiente musicale accogliente, il salto di qualità è lampante e, a dispetto dell’insuccesso commerciale, la riprova verrà data dalle attenzioni crescenti che stampa e colleghi riserveranno a un Common Sense in rampa di lancio – con conseguente risentimento di un’omonima band Reggae californiana che riuscirà a mozzargli il nome per le vie legali. Scarto in positivo che la titletrack, estratta quale secondo singolo, fotografa fin dai blocchi di partenza: sul bel sample di “Dolphin Dance” dell’Ahmad Jamal Trio, l’mc definisce a grandi linee gli equilibri che seguiranno, esibendo efficaci wordplay e rivendicando con un discreto orgoglio la credibilità posseduta (<<they tried to hold my soul in a holding cell so I would sell/I bonded with a break and had enough to make bail>>).

Ma il disco era stato anticipato da un brano presto assurto tra gli eterni classici del genere, “I Used To Love H.E.R.”. Sulle note di “The Changing World” di George Benson, il Nostro racconta il suo amore per l’Hip-Hop – con relativi momenti d’incomprensione – celandone però l’identità in quel pronome personale il cui acronimo sta per Hip-Hop in its essence is real; le tre strofe, pregne di riferimenti più o meno velati, fissano gli snodi principali di un rapporto che dall’adolescenza (<<I met this girl when I was ten years old/and what I loved most, she had so much soul/she was old school when I was just a shorty/never knew throughout my life she would be there for me>>) è evoluto in parallelo ai tanti cambiamenti in atto, conducendo al fermo proposito conclusivo di <<take her back, hopin’ that the shit stop>>. Ventotto anni e svariati emuli dopo, al netto dell’ovvia retorica, si riescono ancora a cogliere il tono appassionato e il sincero messaggio d’allarme che animano la traccia; a posteriori, aggiungiamo poi l’ulteriore merito consistente nell’aver innescato un involontario beef con Ice Cube che, da “Westside Slaughterhouse” dei Westside Connection a “The Bitch In Yoo” di Common, si è sciolto sul ring del Rap grazie a due prove molto gustose.

Se a un abbrivio così incisivo non è certo semplice star dietro, i cinquantacinque minuti di “Resurrection” (comprensivi di un paio di skit e l’outro di papà Lynn) dimostrano però che il potenziale della tracklist non si esaurisce nelle sue due hit più note. Brillano – e non di luce riflessa – anche le successive “Book Of Life”, lucida esposizione dei molteplici dubbi che attanagliano chiunque debba dare una direzione all’esistenza (<<I want an occupation that I’m into/’cause yet have I begin to/live to my potential, I went to/school for fourteen years and my best teacher was experience>>) su un roccioso beat arricchito dagli scratch di Mista Sinista, l’ottima “Nuthin’ To Do”, uno dei tanti episodi che il rapper dedica alla sua città natale (e anche qui l’ex dj degli X-Ecutioners vi appone il suo sigillo), e “Chapter 13 (Rich Man Vs. Poor Man)”, un simpatico dialogo – in vago odore di Native Tongues – tra il ricco Ynot e il povero Common.

Il resto, come accennato, viene speso essenzialmente in funzione delle skill possedute dal protagonista. “Communism”, anzitutto: trentadue barre fitte di allitterazioni, rime interne e doppi livelli di lettura (<<and I prefer compliments/so I complement at an angle of ninety degrees/it’s the nineties and music got known for the grease/I got a sense of direction and a compass/Com passed mc’s with no compassion/though I heard the screams of>>), valorizzando al contempo l’ennesima perla di un No I.D. che, a sua volta, andava a fornire importanti segnali di maturazione. Quindi le leggerine “Watermelon” (il clima è giocoso: <<I spend a great time with the rhyme/more than I did any female/I derailed your train of thought/because your brain was caught>>) e “Sum Shit I Wrote”, chiusura nel solco della pura autocelebrazione (<<my foundation is a black block of niggas that rock their hat cocked/I’m real like a fight with my Rap, rappers I slapbox/back I got my Rap cocked, get your Glock out the black face/got tall flavor with fat taste, the Rap race is a rat race>>) su un giro di contrabbasso da leccarsi i baffi.

Tirando le somme, la prima considerazione da fare è forse la seguente: “Resurrection” aveva molto del Common Sense che sarebbe venuto, conservando abbastanza di quello che era appena stato. Le collaborazioni ristrette ai soli No I.D. e Ynot (sia al microfono che alle macchine), le diverse sfumature della componente lirica e il profondo legame con Chicago, fonte d’ispirazione perfino quando si tratta di dividere il percorso tra una East side of Stony e una West side of Stony, fissano le coordinate di un’uscita che in meno di tre decenni non ha perso quasi nulla della propria genuinità, oltre che propedeutica a una carriera eclettica e – a prescindere dai passi falsi – costante come poche. Non bastasse ciò, riascoltata oggi scorre più che bene.

Tracklist

Common Sense – Resurrection (Relativity 1994)

  1. Resurrection
  2. I Used To Love H.E.R.
  3. Watermelon
  4. Book Of Life
  5. In My Own World (Check The Method) [Feat. No I.D.]
  6. Another Wasted Nite With…
  7. Nuthin’ To Do
  8. Communism
  9. WMOE [Feat. The Illustrious and Praiseworthy Mohammed Ali]
  10. Thisisme
  11. Orange Pineapple Juice
  12. Chapter 13 (Rich Man Vs. Poor Man) [Feat. The Late Show’s Ynot Never The Less]
  13. Maintaining
  14. Sum Shit I Wrote
  15. Pop’s Rap

Beatz

All tracks produced by No I.D. except tracks #12 and #14 by The Late Show’s Ynot Never The Less

Scratch

All scratches by Mista Sinister