The Get Down: luci e ombre

Thegetdown01Lo scorso dodici agosto la piattaforma di streaming Netflix ha rilasciato i primi sei episodi di “The Get Down”, serie ideata dall’australiano Baz Luhrmann (regista anche del pilot e noto al grande pubblico per trasposizioni dalla riuscita incostante, dal coraggioso “Romeo + Juliet” al fin troppo autocompiaciuto “The Great Gatsby”) e Stephen Adly Guirgis. Le vicende sono ambientate nella New York di metà anni settanta, quando la Disco macinava un successo dietro l’altro e l’Hip-Hop, trovando una convergenza tra espressioni artistiche in apparenza slegate tra loro, cominciava ad assumere i tratti di un movimento culturale capace di raccogliere le energie e i talenti di quanti vivevano nei quartieri meno agiati della città, luoghi dove ritroviamo Ezekiel “Zeke” Figuero (Justice Smith) e Mylene Cruz (Herizen F. Guardiola), amici e qualcosina in più, entrambi decisi a lasciare il Bronx con ogni mezzo possibile.

Lui ha abilità che esibisce controvoglia (scrive bene e improvvisa rime), è intelligente però non sa ancora cosa fare di sé; lei ha una voce bellissima, canta nella Chiesa Pentecostale del bigotto padre e sogna una scintillante carriera nella Disco Music, anche a costo di tenere lontano l’amore. Da qui si dipanano tutti gli spunti del plot: Zeke si imbatte casualmente in Shaolin Fantastic (Shameik Moore) cercando di recuperare un raro remix che vuol regalare a Mylene; Shaolin, già abilissimo writer, sta apprendendo i rudimenti del djing da Grandmaster Flash (Mamoudou Athie), il quale gli ha chiesto come contropartita un vinile che non riesce a procurarsi; Marcus “Dizzee” Kipling (Jaden Smith), amico di Zeke, è un fan sfegatato di Shaolin; Shaolin è sul libro paga di Fat Annie (Lillias White), proprietaria del Les Inferno, club in cui Mylene si intrufola per dare un suo nastro a Dj Malibu, amico del figlio di Fat Annie, Cadillac (Yahya Abdul-Mateen II); Cadillac è un patito di Disco – ma anche di droga e di figa – e scampa per poco a un attentato della gang Savage Warlords; dalla sparatoria esce vivo anche Zeke, che con Dizzee, Ra-Ra Kipling (Skylan Brooks), Boo-Boo Kipling (T.J. Brown Jr.) e Shaolin, dopo aver incassato un secco I don’t love you! da Mylene, finisce in un party dove si esibisce Flash, scopre così un genere musicale nuovo di zecca e sgancia un freestyle che lascia tutti di stucco. Sta per nascere una nuova crew…

Vi sembra troppo? Allora sappiate che si tratta solo del primo episodio, l’unico che ha una durata di un’ora e mezza. Seguiranno ulteriori intrecci e continui ribaltamenti di prospettiva (il quintetto sarà prima unito, chiamandosi Fantastic 4 + 1, poi diviso, quindi ricompattato nei The Get Down Brothers), mentre altri personaggi diverranno centrali nello sviluppo degli eventi, da Francisco “Papa Fuerte” Cruz (Jimmy Smits), zio di Mylene e ambigua figura di riferimento per la locale comunità centroamericana, a Jackie Moreno (Kevin Corrigan), produttore discografico caduto in disgrazia a causa di numerose dipendenze – a voi scoprire il resto.

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Veniamo dunque al tema che più c’interessa, ossia l’Hip-Hop: nonostante l’esplicito ricorso a “Hip Hop Family Tree” come uno dei riferimenti testuali di base e la supervisione di Grandmaster Flash, Kurtis Blow e Nas (anche produttore esecutivo, oltre che voce del rapper adulto Zeke interpretato da Daveed Diggs), “The Get Down” non è un documento insindacabile sulla nascita (termine improprio) dell’Hip-Hop e perciò fatico a ritenerlo un progetto indispensabile per quanti, appassionati e non, siano alla ricerca di ciò – lo dico al netto delle legittime libertà artistiche/inesattezze, talvolta macroscopiche, che è necessario aspettarsi e rispetto alle quali vi invito a curiosare tra i numerosi articoli disponibili sul web. Più che raccontare i primi anni dell’Hip-Hop, “The Get Down” è infatti un teen drama che gioca tra riferimenti iconografici perfino deliziosi (il salto tra i palazzi di Shaolin, suppongo ispirato da una celebre foto di Stephen Shames), episodi ricontestualizzati ad uso e consumo della serie (il lungo blackout di New York del settantasette, la candidatura a sindaco di Ed Koch e la sua crociata contro i writer), ricostruzioni scenografiche curatissime (per i campi lunghi con qualche eccesso di CGI), costumi impeccabili e citazioni che ai più preparati non sfuggiranno di certo; di contro, la serie appare sbilanciata in favore della Disco (riferimento magari più nelle corde dell’estetica luhrmanniana), accumula una molteplicità di sotto-trame di scarso interesse (la soap tra Papa Fuerte e la cognata, le sequenze che coinvolgono Moreno) e semplifica ingenuamente alcuni snodi invece importanti (il ruolo delle gang, le speculazioni edilizie che hanno smembrato il Bronx).

In sostanza, la sceneggiatura pende sull’intreccio amoroso e sacrifica approfondimenti che avremmo senza dubbio apprezzato, alla linearità di “Wild Style”, all’iperrealismo di “The Warriors” e alle testimonianze dirette di “Rubble Kings” si sono preferiti i colori sgargianti, un montaggio frenetico e il chiasso del musical; scelte che non polverizzano il valore di una serie interpretata davvero bene e comunque gradevole, ma che non punge quasi mai. E se non metto anch’io il punto è solo perché, tocca ricordarlo, mancano ancora sei episodi da vedere…