Una riflessione sulla chiusura di Ughh.com

Nota del 04/01/2017. E’ giunta ieri la splendida notizia dell’istantanea riapertura di Ughh.com grazie all’intervento di nuovi finanziatori. Il senso del contenuto di ciò che leggerete sotto non cambia di una virgola, con la differenza che per una volta ha vinto il bene. Ed ora correte a fare un ordine per supportare il sito!

La recentissima notizia della chiusura di Ughh.com (Underground Hip Hop.com) conduce a inevitabili riflessioni sulla situazione del mercato discografico. Certo, non sarà né il primo né l’ultimo negozio di dischi che abbasserà le serrande in via definitiva, ci sono comunque delle valide alternative per chi cerca prodotti altrimenti difficilmente reperibili, ma la sostanza di fondo è che c’è sempre meno spazio per il fisico in quest’era dove il digitale sta trangugiando tutto ciò che trova sulla sua strada con una cattiveria impietosa, ansioso di dominare il mondo una volta per tutte.

Ughh.com è stato un importante punto di riferimento per tutti quegli artisti poco conosciuti e meritevoli di una maggiore esposizione, i quali vedevano il loro materiale presenziare tra gli scaffali godendo nel contempo dell’occasione di organizzare delle cosiddette esibizioni in store – bastava prendere due giradischi, un microfono e distribuire nel quartiere quanti più flyer si riuscisse per attirare la curiosità delle persone. Situato a Boston, il negozio era nato dalle idee di Adam Walder, un ragazzo che come tanti si è avvicinato alla Cultura grazie allo scambio e alla condivisione del materiale a disposizione, in questo caso delle vecchie cassette di LL Cool J, Fat Boys e tanti altri eroi dei bei vecchi tempi, il quale da un semplice hobby ha ricavato un’attività arrivata quasi ai vent’anni di apertura.

Come tante realtà attorno a noi, Ughh.com ha lottato duramente, ha stretto i denti, ha vissuto epoche sgargianti per poi infilarsi in momenti di flessione che hanno segato le gambe a tante attività in proprio, impossibilitate ad auto-finanziare una passione viscerale a causa di spese generali diventate insostenibili a fronte di guadagni sempre più risicati, che col passare degli anni si sono trasformati in perdite. Il che ci ricorda di come la massa vinca spesso e volentieri con i suoi gusti a senso unico, di come sia figo solo ciò che vende di più perché tanto ce l’hanno tutti e per chissà quale proprietà transitiva è figo anche chi lo acquista senza minimamente soppesare ciò che sta facendo, adeguandosi a un mondo che sembra non vivere più di emozioni, se non di quelle plastificate e imposte dalla pubblicità.

Il sentimento di solidarietà verso Adam e il suo staff, che hanno comunuque vissuto la non indifferente fortuna di vivere attraverso un lavoro che riguardava qualcosa che amavano profondamente, ci riporta a considerazioni nostalgiche, che saranno magari sempre le solite ma tant’è. La soluzione della questione è molto semplice: apparteniamo a un’altra generazione, il che non è un merito né altro, è solo un modo di intendere le cose. La musica, in particolar modo un genere così di nicchia come l’Hip-Hop – scusate, ma l’Hip-Hop come lo intendiamo personalmente nelle nostre idee è di nicchia, punto – una volta necessitava di essere cercata per essere trovata, niente ordini online, niente classifiche di iTunes, solo tante belle passeggiate in centro spese col cuore che batteva forte, sperando che il disco dei desideri fosse lì disponibile per essere preso, coccolato, annusato, letto e poi ascoltato.

La musica è tutto (almeno per il sottoscritto) e racchiude in sé un’incalcolabile quantità di emozioni. Quali? Toccare un vinile, un CD con mano, vedere in faccia per la prima volta un rapper di cui non si conoscevano minimamente le fisionomie, la soddisfazione di poter finalmente abbinare un volto a una voce, gli acquisti a scatola chiusa e la smania di possedere la versione originale della cassetta che un conoscente ti aveva appena doppiato avendola rimediata chissà dove, un sottobosco di passaparola carbonaro con spruzzata all’interno di salsa Hip-Hop, quella roba che avevi nel walkman e che l’amico che avevi accanto non capiva, non conosceva, nemmeno concepiva, perché tanto qui eravamo abituati a Sanremo e stop.

Sono sensazioni che venivano generate solo dal varcare soglie come quella di Ughh.com, poco conta se ci fossimo trovati a Boston piuttosto che a Vicenza dentro le amiche mura del sacro Music Power – la sostanza non cambia. Qualcosa è sparito e non può più essere recuperato, se non piazzando qualche ordine all’anno dai tedeschi di HHV.de o rischiando il trasporto oceanico attraverso Fat Beats e tutti i negozi online che le etichette mettono a disposizione. Certo, quando arriva il corriere la sensazione è sempre molto gradevole perché una volta aperto il pacchettino c’è da toccare tutto con mano, ma non è uguale…

I tempi tuttavia sono questi, è necessario accontentarsi di ciò che si ha, perché non esistono alternative. Le copertine dei dischi le conosciamo fin troppo bene nel momento in cui gli stessi ci arrivano per le mani e, diciamocelo chiaro e tondo, la pirateria fa comodo a tutti, non tanto perché si evita di scucire denaro per il fatto in sé, ma perché permette di valutare meglio l’acquisto di un album. Se un disco merita, i soldi non sono mai stati un problema – si sacrifica qualcos’altro. Ma la cosa che rattrista maggiormente è che oggi l’album, l’ellepi, il lavoro su lunga distanza, chiamatelo come meglio credete, è ridotto a presenziare in una categoria usa-e-getta, facile fruizione, facile ascolto, nulla che rimane nella testa. Però, se tutti ce l’hanno vuol dire che è figo, e torniamo al discorso di qualche riga sopra.

Chiamateci malinconici, vecchi, sfigati, quello che credete va bene pure a noi. Qualsiasi cosa vi sia rimasta di quanto letto fino a questo momento non cambia la sostanza, che rimane ferrea nella sua intenzione di non accettare compromessi e spazzatura per le masse. Ed ora che ci siamo sfogati un pochino, infiliamo le fide cuffie per immergerci nella nostra prossima avventura underground, immaginando graffiti, metropolitane, quartieri degradati e anche quella passeggiata al negozietto che ci manca tanto, ma che ci teniamo sempre stretta nel cuore.

 

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