Kam – Made In America

Voto: 4,5

Disseminato di bombe incastonate in vecchi e dimenticati dodici pollici o dischi venerati a mo’ di culto nelle diverse realtà locali, ma incapaci di ritagliarsi uno spazio sulla scintillante passerella della gloriosa west coast anni ’90 perché oscurati dal riverbero delle targhe di platino di Dr. Dre, Snoop Dogg, 2Pac e compagni (dentro e fuori al braccio della morte), l’universo espanso della costa californiana è difficile da mappare e ricostruire con accuratezza anche per il più vorace consumatore di G-Funk. Prima o poi si finisce infatti per inciampare in qualche buco lasciato da un tassello mancante nel grande puzzle.

Tra i nomi troppo spesso dimenticati non si può non citare quello di Kam, al secolo Craig A. Miller, classe ‘70 originario di Willowbrook e appartenente allo stesso albero genealogico di un certo Ice Cube. Una citazione che trae la propria forza soprattutto grazie a quel gioiellino di Made In America”, confezionato nel lontano 1995 con la complicità alle macchine di personaggi come Battlecat, E-A-Ski, Dj Quik, Cold 187um e Warren G.

Guardando al solo pentagramma, il disco è zeppo di quelle magie sonore che hanno decretato la supremazia assoluta della doppia vu nelle classifiche di allora, col Funk a farla da assoluto padrone dalla G alla P. Uno spettro cromatico che si mostra al gran completo nella sfolgorante tripletta iniziale. “Trust Nobody” illumina subito il percorso con una solare produzione di Battlecat declinata a pulpito di strada dal quale Kam esibisce una consapevolezza sociale dall’insolito peso specifico se posta sulla bilancia assieme agli standard regionali (<<you gotta work for your milk and honey/second rule in the hood: all money ain’t good money/don’t get excited and don’t be emotional/never run your mouth in front of none of them hoes you know/bro’, because fools and their money soon part/you might know their name but you never know their heart/it’s a cold game, but somebody gotta play it/you probably wouldn’t know if I didn’t say it>>). In “Pull Ya Hoe Card” i synth si fanno ancora più roventi, ricreando la sensazione di un giretto a tetto scoperto su Crenshaw Boulevard mentre il vento soffia tra le creste delle palme. Il clima è quello di una perfetta giornata di relax di fine luglio, ma si contrappone come nella migliore salsa agrodolce al vetriolo diretto chirurgicamente al cugino O’Shea.

Kam punge; e lo fa affidandosi a dotazione e acume lirici di livello superiore. Non perde mai il metro, nemmeno quando è il P-Funk a sovrastare l’ascolto, come avviene in That’s My Nigga sulle classiche ritmiche made in Compton del Quiksta, nella cicciosa In Traffic e sul groove virulento sintetizzato da Cold 187 dando vita a Givin’ It Up, una nota a margine nella grande storia della west coast che senza tanti forse meriterebbe invece un capitolo tutto suo.

E, in tema di capitoli di storia, prima di tirare le somme è obbligatorio soffermarsi su Keep Tha Peace. Se il suo primo trattato di pace – del quale ritroviamo alcuni frammenti in sottofondo – esplodeva sulle note di “Atomic Dog”, per il seguito Kam ha preferito affidarsi alla formula magica di un Warren G all’apice della carriera. Il fratellino minore del Dottore ritaglia e ripulisce “Lonely” di Cristopher Williams cucendolo a uno fra i più classici drum pattern della storia; il rapper di Willowbrook non spreca ovviamente l’assist e butta giù tre strofe mirate a mitigare le tensioni di quel ghetto ancora scosso dai riverberi della rivolta che incendiò South Central nella primavera del 1992 (<<last night one time came thru the hood bustin’/Five-O is the ones I ain’t trustin’/us in the ghetto got it bad already/but always wanna go to war over somethin’ petty/steady puttin’ work in on another Asiatic/a semi-automatic, causin’ crazy static/among brothers of the same flesh and bone/just say the wrong word and it’s on/a family feud, but this ain’t no game show/we just both got tricked by the same hoe>>).

Negli anni successivi, complice il fatto di essere una figura alternativa all’interno di una scena peraltro destinata a un repentino tramonto, Kam non riuscirà più a elevarsi a questi livelli, scomparendo di fatto dai radar nonostante un altro paio di dischi sfornati (“Kamnesia” nel 2001 e “Mutual Respect” nel 2016) e qualche collaborazione abbozzata qua e là. “Made In America”, però, sopravvive alle ruggini del tempo; rara testimonianza di come anche nell’era d’oro del G-Funk non mancassero racconti capaci di andare oltre al consueto abbecedario del thugs, bitches and sluts.

Tracklist

Kam – Made In America (EastWest Records 1995)

  1. Intro
  2. Trust Nobody
  3. Pull Ya Hoe Card
  4. That’s My Nigga
  5. Way’ A Life
  6. Down Fa Mine [Feat. MC Ren and Dresta]
  7. In Traffic
  8. Givin’ It Up
  9. Nut’n Nice
  10. Who Ridin’
  11. Keep Tha Peace
  12. Represent [Feat. D-Dope, K-Mac and Solo]

Beatz

  • Jessie “Big Jessie” Willard: 1, 6, 12
  • Battlecat: 2, 5, 7
  • CMT and E-A-Ski: 3, 10
  • Dj Quik: 4
  • Cold 187um: 8
  • Mad Scientists and Rashad: 9
  • Warren G with the co-production by Kam: 11
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