Intervista a Dj Myke (19/01/2018)

Oltre vent’anni di onoratissima carriera tra battle di turntablism, pubblicazioni con la propria crew e in traversata solista, collaborazioni strette così bene da diventare ulteriori progetti in pianta stabile; lui è Marco Micheloni, classe ‘76, umbro, meglio conosciuto come Dj MykeMyke era il mio soprannome delle scuole, il nome me l’hanno dato gli altri. Abbiamo avuto il piacere d’incontrarlo in occasione di uno dei suoi Skratch Instore, formula che lo vede attualmente impegnato in giro per l’Italia – come di consueto dietro ai piatti.

Bra: partiamo dal principio, nel tuo caso dal vinile. Per la generazione cui appartieni era un oggetto di uso comune, un formato musicale con cui prendere confidenza fin da piccolini: la tua passione, la voglia di renderlo uno strumento vero e proprio, nasce da lì?
Dj Myke: in realtà parte tutto dalla musica, nel senso che l’ho conosciuta soprattutto tramite mio padre da bambino e ne rimanevo davvero affascinato, in particolare quella dei film. Il primo approccio è stato canonico, ho cominciato con una tastierina a fare le prime cose e poi, accompagnando le mie sorelle in discoteca, ho visto per la prima volta un dj che mixava: da lì, oltre al vinile in sé, mi è piaciuta quell’attitudine, perché il dj è l’unica figura che prende la musica in maniera poco dottrinale, poco scolastica, e mischia queste cose magari anche immischiabili, se ne sbatte. In seguito ho scoperto questa cosa fantascientifica che era lo scratch e ho conosciuto il vinile come strumento invece che supporto, come tool, come attrezzo. Mio padre faceva lo scultore e io nel vinile ho scoperto il mio scalpello, perché vedevo che manipolandolo era possibile creare altre cose: alla fine lo scratch è qualcosa che sta proprio nel mezzo tra rumore e musica, è dalla manualità che il rumore genera musica – un po’ come le percussioni. Inoltre nel tempo mi sono reso conto che il vinile è eterno, non morirà mai; ci sarà sempre bisogno del vinile come una chitarra dovrà sempre essere attaccata a un amplificatore. A maggior ragione con l’arrivo della liquidità nella musica: all’inizio si pensava che il vinile sarebbe sparito, ma in realtà serve fisicità in questa cosa. E vale anche per il cultore e per il collezionista.

B: a proposito di djing e turntablism, ricordi qualche figura in particolare che ti ha convinto a metterti dietro le ruote d’acciaio?
DjM: il primo dj che ho visto è stato Lory D, figura storica per la Techno romana. Molto bravo (ti parlo dei primi anni novanta), vederlo mi ha fatto stare tra il male e il folgorato, lui andava come un treno. Questo succedeva in un ambiente che mi era vicino, io però ho deciso di scoprirne le origini, ciò che oggi purtroppo non si fa più. Arrivo quindi all’Hip-Hop, una scoperta d’attitudine proprio come per il vinile: ho capito che era la cultura che più mi rappresentava, un modo per comunicare.
B: perciò è dalla musica in generale che arrivi all’Hip-Hop.
DjM: esatto. E secondo me deve essere così, la musica è musica, è qualsiasi cosa, ci sono culture musicali di ogni tipo e vanno scoperte. Io non sono per le classificazioni, le odio e non m’interessa parlare di vecchio o di nuovo, anche se è comodo dividere le cose per genere; nell’Hip-Hop, però, ho trovato una filosofia che condivido e che può durare nel tempo, dato che bisogna separare la musica dal mercato musicale: devi guardare anche al secondo, è chiaro, ma chi non va al cuore della faccenda, alla cultura nella sua interezza, si perde tante sfumature.

B: l’inizio dell’esperienza discografica dovrebbe invece risalire ai primi tape con Men In Skratch, collettivo che hai fondato con Dj Aladyn e Dj T The Thief – e che poi ha avuto diversi cambiamenti di formazione. Siamo a inizio duemila e, nonostante l’Hip-Hop italiano attraversasse una fase di profonda crisi, voi eravate attivi su numerosi fronti: quanto è stato importante proporsi con un team così ben assortito nel passaggio dal djing al beatmaking?
DjM: la crew è stata fondamentale, anche perché ha creato – diciamo così – Dj Myke, il mio modo di pormi, le mie skill e così via, avendo avuto l’opportunità di confrontarmi con gente di un certo livello. Proprio l’incontro con Aladyn mi ha fatto svoltare nell’essere un turntablist: lui scratchava da prima di me e allora l’ho considerato una sorta di mentore, siamo diventati amici condividendo quasi vent’anni di questa roba e diventando entrambi un metro di paragone per l’altro. Nelle rispettive diversità ho invece trovato la voglia di andare oltre, passando dal djing a produrre, anche se – come dicevo prima – questa è una cosa che affonda comunque nel passato. Diciamo che avevo sempre provato a fare basi, anche con mezzi allucinanti, poi grazie alle gare vinco il DMC e da completo sconosciuto, nel giro di un mese, cominciano a chiedermi dei beat – le prime cose, per dire, nascono coi Cellamaro e i Tarducci… Mi hanno tirato dentro anche se, come immagine, non mi sono mai presentato molto come un b-boy, sono sempre stato molto me stesso; sta di fatto che è cominciata così e le richieste dei vari rapper sono andate via via crescendo.

B: quanto cambia la tua prospettiva di musicista tra “Dark chocolate”, uscito nel 2008 e ancora abbastanza legato a un Hip-Hop più – a suo modo – tradizionale, e “Hocus pocus”, operazione di due anni successiva e decisamente trasversale sia nel taglio dato ai suoni che nella selezione delle collaborazioni?
DjM: parte tutto da un progetto che si chiama The Reverse, nato dalla conoscenza di Svedonio – chitarrista, musicista, polistrumentista. Eravamo a una serata, lui col suo gruppo e io che facevo il mio dj set, e ci siamo subito trovati in un’amicizia musicale mostruosa, tanto che nel giro di quattro giorni avevamo già fatto cinque pezzi. Lavorando a stretto contatto con un musicista e con altri suoi collaboratori ho sentito l’esigenza di provare anch’io, strimpellavo il basso, mi mettevo alla batteria, sperimentavo cose col cantante e ho capito come entrare nella musica, come abbracciarla anche senza aver fatto le scuole. A quel punto mi sono chiesto se, col mio modo di produrre, una classica voce italiana potesse funzionare ed è così che nascono brani come “Ti ucciderò all’alba” con Max Zanotti, che in origine era un pezzo scartato e invece mi hanno riconosciuto perfino in Giappone, è piaciuto a tutti, a chi faceva Rap, a chi faceva Rock, a chi faceva Elettronica. Poi venne John Sexton in vacanza a Orvieto e qualcuno gli disse che c’erano due che facevano una roba strana lì in uno studio, perciò un pomeriggio sentiamo bussare e si presenta ‘sto rastone che ci chiede di fargli sentire qualcosa: ascolta e ci propone di andare in Inghilterra perché vuole produrci un disco, io penso che ci sta prendendo per il culo – dato che sembra quasi una cosa da film – e invece siamo andati e siamo rimasti per due anni, uscendo per Copasetik Recordings (etichetta dei Terranova, di Rasco…). Faccio anche la tournée europea coi Prodigy, Leeroy Thornhill ci fa un remix, ho fatto una cosa con Mad Professor… Insomma metto assieme tante esperienze. Ma è “The Reverse” che consente a me e Svedonio di muoverci in grande libertà, di sfogarci come produttori.
B: ci senti dentro tutto quel mare di musica che hai ascoltato prima e hai raccolto dentro te?
DjM: assolutamente sì. Infatti quando mi dicono che somiglia a una colonna sonora mi vengono ancora i brividi, mi onora, perché credo che la colonna sonora sia il massimo per accompagnarti nei diversi momenti della vita e con vari colori.

B: tornando a “Hocus pocus”, tra i suoi meriti c’è anche quello di aver inaugurato il duo formato da te e Rancore. Come nasce la vostra collaborazione e come mai decidete di darle un respiro maggiore, arrivando a pubblicare tre dischi e un EP?
DjM: il disco era chiuso. Avevo questa base intitolata “Phonic on the road” e volevo che ci fosse, ero in studio con un amico che si chiama 3D e glie la faccio sentire, lui mi fa secondo me ci dovrebbe rappare sopra Rancore; io non lo conoscevo ai tempi, ascolto qualcosa e il primo pensiero è stato che quello non fosse per niente un beat per lui. Vado a casa, ci ragiono sopra e capisco che del gusto mio non fotte un cazzo a nessuno, lui aveva delle visioni particolari e allora decido di provare. Lo chiamo, gli propongo la cosa e lui ci sta, mi torna indietro il pezzo e sono saltato su dalla sedia, nel senso che io pensavo proprio a una cosa così…
B: …ti ha letto nel pensiero.
DjM: sì, forse sì. Registrato il disco ci sentiamo di nuovo e gli chiedo se ha delle cose già scritte, quello che voleva, così nasce “Disney inferno” e da lì gli propongo di fare delle cose assieme. Abbiamo visto che venivano fuori bene, che il suono era incollato al suo Rap e ci siamo detti: queste sono cose che non capitano tutti i giorni. E abbiamo fatto quello che – anche se sono molto critico con me stesso, non mi accontento mai – posso ritenere il mio Rap italiano preferito. Da una parte la creatività della musica, dall’altra le rime e la poesia fatte come cazzo si deve – e non è presunzione.

B: a mia opinione, “Silenzio” è tra le cose migliori dell’Hip-Hop italiano degli ultimi dieci anni, un disco adulto per contenuti, scelte stilistiche e realizzazione. Si può dire che eravate entrambi in uno stato di grazia?
DjM: “Silenzio” è l’unico disco in cui Rancore e Dj Myke è scritto tutto attaccato, come se fosse il nome di un gruppo, come quando leggi Metallica. Abbiamo preso una casa a Milano, abbiamo portato le cose dello studio e siamo rimasti lì fino a quando non abbiamo finito. “Acustico” ed “Elettrico” sono stati un rimbalzarsi di idee, tu vieni da me, io vengo da te, ti faccio ascoltare cose, aggiungo questo; “Silenzio” è una vita quotidiana condivisa, scazzi, litigate a morte, però giorno per giorno perché se vuoi andare oltre i tuoi limiti il mostro da abbattere è te stesso. E considera che tra noi due c’è una certa differenza d’età, quindi esigenze – anche stupide – diverse, io mi sveglio prima e tu dopo, a me piace il tè a colazione e a te il caffè, io registro la mattina e tu la sera; diventava una costante mediazione che ha portato a pezzi che trovo perfino difficile rendermi conto che ho fatto io, cose come “D.A.R.K.N.E.S.S.” che quando riascolto mi dico da solo ‘sta roba non la rifarò mai più – e forse non la rifarà più neppure Rancore.
B: quanto tempo vi è occorso?
DjM: diciamo che la stanza dello spirito e del tempo s’è dilatata… Presto e tanto, una stagione, quattro mesi intensi mattina e sera. Considera che avevamo le camere vicino, il corridoietto e lo studio: non si scappa, al massimo vai in cucina e respiri un secondo, ma pure per andare in bagno bisognava passare dallo studio…

B: non che con “S.U.N.S.H.I.N.E.” vi siate rilassati. E’ un’operazione ancora complessa, pur se di durata inferiore, sintesi di un’unità d’intenti che davvero ha raggiunto dell’incredibile. A tre anni di distanza, ritieni sia più la quadratura definitiva di ciò che volevate fare assieme tu e Rancore o si tratta di un ulteriore punto di partenza?
DjM: per me “S.U.N.S.H.I.N.E.” è qualcosa di magico, è nato come una follia ed è stato un po’ un rilascio per noi, perché sapevamo già che per un po’ di tempo avremmo smesso di fare determinate cose. Poi non so cosa succederà, non sono problemi nostri al momento; noi ci siamo detti lasciamo un bel ricordo, mettiamoci un bel monumento e lasciamolo lì. Di certo venirsene fuori con quel pezzo di sette minuti, quel testo, quella musica, l’inizio con Palmiro Togliatti che dice una cosa molto filosofica – il ritmo di lavoro nelle officine… – è una roba difficile perfino da raccontare, su cui devi lavorare di brutto; lì non c’è niente di improvvisato, è voluto.
B: tu hai partecipato spesso alla scelta dei temi che avete trattato?
DjM: sempre! Io vedo che sono tutti troppo concentrati su loro stessi, come se la loro vita sia molto interessante e tutti siano lì a dire ah, stamattina ti sei fatto il caffè macchiato, mo’ mi cambia la vita. A me della vita privata delle persone non me ne frega un cazzo, rapper o meno; ma è lo stesso per la mia: se dovessi fare un pezzo su Dj Myke direi mi sveglio prestissimo, mi metto subito a fare le mie cose con la musica, sto sempre internato e mi comporto come un fulminato. Do per scontato che non interessi perché a me non interessa sapere quante volte gli altri vanno al bagno o se scopano la suicide girl piuttosto che un’altra. Gli argomenti, per una persona che s’informa e ha un minimo sindacale di cultura, ci sono, perciò con Rancore abbiamo fatto un ragionamento preciso e deciso di parlare dal nostro punto di vista di qualcosa che potesse interessare a tutti. Abbiamo visto un sacco di telegiornali, parlato di politica, letto giornali e proposto una visione. L’utenza va rispettata, perciò digli qualcosa d’interessante, di creativo. Ma poi ti pare che nel mondo in cui viviamo manchino gli argomenti?

B: veniamo al presente. Nel 2017 è stato ristampato “Elettrico” in vinile, idem per “Hocus pocus” ma in una versione leggermente rivista e sono usciti “Battlecat” e “Xmascat”, dedicati ai dj. Non hai mai pensato a un secondo capitolo di “Hocus pocus”?
DjM: ho pensato a “Hocus pocus 2”, sì, ma se lo faccio deve rompere il culo ed essere una cosa davvero pesante – e in questo momento, per varie ragioni personali, non mi potrei dedicare a una cosa così. Perciò abbiamo deciso di ristampare “Hocus pocus” togliendo delle cose che stavano nel CD e non nella versione digitale, abbiamo rimesso il pezzo col Danno e aggiunto due inediti, uno col partenopeo Viro (“Presto!“) e l’altro con Claver e Shorty, che non hanno certo bisogno delle mie presentazioni. Poi sono molto orgoglioso di “Battlecat” e “Xmascat”, il primo è già sold out e non si troverà mai più: pensa, un disco da scratch in Italia che va esaurito!

B: senza fare un torto agli altri, qual è il tuo disco di cui sei più fiero?
DjM: è un po’ come quando chiedi al bambino a chi vuole più bene tra la mamma e il papà, o ai genitori quale dei quattro figli gli sta più simpatico… Se tornassi indietro farei ogni disco esattamente come l’ho fatto, quindi ognuno di loro mi fa commuovere – nel senso che è qualcosa di davvero importante. Sono loro i miei figli. Ultimamente mi ha fatto camminare a un metro da terra proprio questa cosa dei battlebreak per scratch, perché m’hanno dato tutti del pazzo e invece la gente ha recepito bene e in maniera amorevole la cosa.

B: e cos’è Skratch Instore?
DjM: è un’idea venuta a me e Stefano (manager di Dj Myke, ndBra). Abbiamo unito il format Scratch Instinct agli instore ed è venuto fuori qualcosa di diverso dai soliti incontri dove tu vai, c’è un tavolino, le copie dei dischi e il tipo che te li firma…
B: …una cosa un po’ triste secondo me…
DjM: …una roba da manicomio. Noi abbiamo questa passione per il portablism – e qui saluto Wolly Woders che fa i fader, Dj Jaq che fa le modifiche, Ill Tappo che fa i caps e Dj Amaro che è stato tra i primi ad abbracciare questa cosa di andare coi giradischi portatili a pile e i quarantacinque giri per scratchare – perciò abbiamo voluto portare la stessa filosofia in una serie di incontri dedicati appunto allo scratch, creando un momento di condivisione vera.

B: spazio libero per dire quello che vuoi.
DjM: questa è difficile… L’unica cosa che posso dire è che abbiamo una grande fortuna, abbiamo comunicazione e tecnologia che ci permettono di arrivare dovunque e allora sfruttiamo meglio quest’opportunità, altrimenti questa cosa che con tanta fatica abbiamo fatto crescere da metà anni ottanta, l’Hip-Hop italiano, prima o poi sparisce.

Fuori dall’intervista rimangono dieci minuti di soundcheck da applausi, qualche pensiero in libertà, titoli di soundtrack e tante (piacevoli) chiacchiere sulla musica di oggi e di ieri; ma soprattutto è nitida l’impressione che qualsiasi progetto attenda Dj Myke, sarà nel segno dell’originalità. Come sempre.