Intervista ad Ale Zin (17/05/2016)

Ad aprile Ale Zin pubblica per Full Heads Records “Panama 11”, il primo progetto interamente a suo nome dopo le note esperienze in gruppo. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per chiedergli qualcosa sul disco, sul Rap e sulla carriera artistica…

Bra: la domanda introduttiva è quasi inevitabile e, anche se te l’avrà fatta chiunque, mi sento obbligato a cominciare più o meno da lì. Perché hai impiegato vent’anni per tentare la strada solista? E’ un’idea che non ti aveva mai stuzzicato prima?
Ale Zin: dopo un tot di anni che ti confronti con più di un gruppo ti viene voglia di fare qualcosa da solo. Prima l’idea c’era stata, questo sì, però diciamo che ho sempre preferito muovermi in gruppo perché mi divertivo a fare le cose assieme e in particolare i live, dove condividi tante storie diverse. Poi a un certo punto ho voluto capire come proseguire qualcosa che avevo cominciato molto prima e mi sono ritrovato a voler fare “Panama 11”.

B: quali sono i pro e i contro del poter avere il controllo completo della propria musica?
A: quando sei in gruppo è come avere delle responsabilità nei confronti degli altri, ti preoccupi di prendere o meno alcune decisioni e devi stare attento ai tempi perché il progetto si regge sulla collaborazione di tutti. Da solo invece sei libero di cacciare le cose come e quando vuoi, di esprimerti al 100% senza magari avere la preoccupazione di tirare in ballo altre persone nel momento in cui esprimi determinati concetti. Viene a mancare quel tipo di confronto ma puoi dire tutto ciò che ti passa per la testa.

B: arrivi a “Panama 11” dopo due esperienze che ritenere formative è poco. Cominciamo da quella coi 13 Bastardi, un pezzo di storia dell’Hip-Hop partenopeo: raccontaci come è cominciata per te, che aria si respirava all’epoca, quanto è stato importante far parte di un collettivo quasi unico, perché in Italia di crew XL come la vostra non se ne sono viste tante…
A: tieni presente che ero un ragazzino, avevo quindici/sedici anni e già da un po’ facevo graffiti in giro per Napoli. Ero un bomber e facevo tutta la città, treni, decumane (in napoletano la pronuncia è al femminile, ndAl-X) e via dicendo per far girare il nome…
B: …sempre come Ale Zin?
A: come Zin. Ero in classe con Antonio Joz, anche lui un writer, che faceva parte della crew; mi presentò a molti di loro, a Sandro Ekspo, a Vinch che al tempo già faceva i beat, e da una cosa nasce l’altra, cominciammo a fare pezzi assieme, a confrontarci perché la passione per il Rap l’ho sempre avuta – mi piacevano moltissimo i Public Enemy, gli A Tribe Called Quest… – e di conseguenza mi avvicinai sempre più alla musica Hip-Hop fino a quando non entrai nel gruppo. Inizialmente, coi 13 Bastardi ho fatto i live e non avevo pezzi scritti, mi piaceva più che altro fare freestyle e questa era la mia realtà: il palco e l’improvvisazione. Dopo qualche anno, con un po’ di sicurezza in più ed essendo cresciuto artisticamente, ho cominciato ad esprimermi meglio anche per poter registrare qualcosa e se non sbaglio il primo pezzo uscì nel novantanove, “B.I.S. tempora” sulla compilation “Missione impossibile”. Da lì in poi segue tutto il resto e ti dirò che fin da “Persi nella giungla” avevo in programma il Progetto RT, assieme ad Ekspo e Dj 2Phast, più altre cose nascoste tipo gli Acchiappastronzi (dove eravamo dei ghostbusters delle fogne…), cioè quelle cassettine che hai lì da qualche parte e non hai mai tirato fuori. Anche se, devo dirti la verità, eravamo tutti molto presi dal dover essere i più forti nel freestyle, a Napoli ci confrontavamo soprattutto su questo dal Bidone a Piazza San Domenico, luogo culto della scuola napoletana. Lì i 13 Bastardi erano sempre presenti, dalla mattina alla sera, insieme a Speaker Cenzou, ShaOne, Polo, i primi a stare in giro in città. L’idea era prettamente quella di affermare il proprio stile.

B: qualche anno dopo nascono i Sangue Mostro, la cui storia discografica differisce molto da quella dei Bastardi. Di cosa il tuo percorso personale ed artistico si arricchisce ulteriormente?
A: Sangue Mostro nasce dall’unione con Cenzou, che aveva già tanta esperienza, e con lui la faccenda ha preso una piega diversa, ho cominciato a calcare molti più palchi e credo sia arrivata la mia maturità artistica. Se prima avevo la testa sui freestyle, con Sangue Mostro c’è stato un modo nuovo nell’approccio al Rap, ho messo a frutto quanto avevo fatto coi Bastardi per dire le cose non più con quell’impronta hardcore – determinate rime che capisci solo tu, l’uso della tecnica a tutti i costi… – ma con la consapevolezza delle capacità che oramai hai, perché è come andare in bicicletta. Inizi a pensare ok, devo dare un messaggio e con Sangue Mostro è arrivato quello.

B: arriviamo quindi a “Panama 11”, che al primo ascolto mi ha colpito principalmente per due ragioni. La prima risiede nel taglio del sound, che guarda in molte direzioni ma ha un gusto unitario, compatto. Come hai selezionato le collaborazioni, in particolare quella con Breakstarr, e quanto i beatmaker hanno seguito tutto il processo creativo che portava al prodotto finito?
A: mi hanno seguito al 100%, perché quando ho deciso di lavorare al disco ho chiamato Breakstarr ed abbiamo subito cercato di trovargli un indirizzo. Tutti i pezzi, dal primo all’ultimo, sono stati fatti con i produttori, ha partecipato molto anche OLuWong visto che è stato fatto tutto all’Ammontone (lo studio di OLuWong e Dj Uncino, ndBra), dove ha ascoltato le cose che c’erano e ha pensato alla produzione più adatta da accostare al sound di “Panama 11” – e infatti nel suo caso abbiamo preso forse il beat meno simile agli altri, per spezzare il tutto e dare un colore differente all’album. Secondo me, quando fai le cose con un solo produttore, c’è il rischio di appiattire il suono e sentire un’unica onda, con Breakstarr non è successo ma abbiamo preferito ugualmente allargare un minimo l’impronta stilistica.

B: l’altra ragione è una varietà tematica abbastanza evidente. Brani seri e meno seri, racconti personali, dissing, storytelling… E’ come sfogliare un quaderno dove c’è finito un po’ di tutto o sbaglio?
A: più che un quaderno, sono dei viaggi. Ho chiamato il disco “Panama 11” proprio per far immedesimare l’ascoltatore nel passeggero del mio taxi: ogni giorno si va in un posto diverso, oggi in Costiera, domani nell’hinterland, poi ti muovi in tangenziale… E’ un viaggio nuovo per ogni pezzo del disco.

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B: c’è invece un tema che non tratti in maniera diretta, ma sembra appunto di poterlo percepire fin dal titolo del disco. E’ il lavoro, quello vero che molti rapper svolgono in parallelo a ciò che, in concreto, non gli dà un ritorno economico sufficiente per vivere di Rap. E’ frustrante non poter dedicare il 100% del tuo tempo alla musica o non ti pesa affatto?
A: io ho sempre vissuto in questa dimensione, anche perché i soldi nell’Hip-Hop italiano sono arrivati solo negli ultimi anni. Rispetto al passato, la musica di spicco nelle major è spesso questa e gli artisti Rap sono quelli che attualmente fanno i numeri e i soldi, ma parliamo di una realtà nella quale sinceramente non mi sono mai riconosciuto, perciò non posso dire che sia frustrante. In parallelo io ho sempre vissuto un discorso di fame, non di fama, in qualche modo bisogna pur vivere e per me l’importante è sempre stato quello di poterti dire qualcosa e di farlo nella maniera che più mi piace, proporre il mio stile.

B: è vero che le etichette puntano sui rapper, ma rispetto ai numeri di qualche anno fa i dati sono forse in leggera flessione. La differenza, secondo me, è che il fenomeno in sé è stato oramai storicizzato, non a caso negli ultimi mesi sono usciti documentari e film come “Numero zero”, “Street opera” e “Zeta”. Tu che opinione hai della scena Hip-Hop italiana nel suo insieme? Ha raggiunto una sua maturità o è ricaduta in una bolla che prima o poi esploderà, come successe una quindicina di anni fa?
A: secondo me mentre prima la moda del Rap veniva, andava, tornava e poi svaniva, attualmente si creano scenari del tutto nuovi attorno a questa musica. Noi ad esempio siamo passati dall’Hip-Hop fatto in un determinato modo alle cose neomelodiche, perciò a un certo punto tutti abbiamo cominciato ad accostare ritornelli che somigliavano ai pezzi dei vari Franco Ricciardi, Ciro Ricci, Tommaso Riccio ed altri; ora invece si sente molta Trap ed Elettronica. Forse è un reinventarsi sia di mode che di stili, sono tante rinascite del movimento che possono piacere o meno, a qualcuno tutto ciò che sta nascendo fa cagare e per altri è grandioso…
B: …è anche una questione generazionale.
A: assolutamente sì. Chi vende, ora, è chi si muove con quel tipo di sound.

B: a livello personale, invece, qual è il periodo, la fase che ti ha regalato i ricordi più belli e cui ti senti particolarmente legato?
A: che te lo dico a fare… E’ la golden age che abbiamo vissuto un po’ tutti tra il novantacinque e inizio duemila. Quelli per me sono stati gli anni più belli in assoluto. Domani magari il ragazzino che vive questo periodo storico ti risponderà che l’anno bomba è il duemilasedici e allora facciamo che forse ognuno ha la sua personalissima golden age.

B: una curiosità. Sei mai stato sul punto di dire basta, smetto?
A: no, no, no…non mi è mai passato per la testa perché, come ti dicevo prima, porto una bici e mi trovo bene a farlo. Alla fine è la mia passione, non vorrei dirti che è come respirare altrimenti sembra un’esagerazione, però non sono io se non ascolto un po’ di Rap durante il giorno, se a una jam non prendo il microfono in mano. Di anni ne ho trentasette e non ho alcuna intenzione di fermarmi, non mi ritengo lo zoccolo duro ma una zoccola vecchia sì (ride, ndBra) e fino a quando avrò forza e ossigeno nei polmoni continuerò a farlo.

B: parliamo del tuo approccio al Rap. Tolte poche rime qui usi più l’italiano che il dialetto…
A: (senza attendere la domanda, ndBra) è casuale! E’ successo che ho iniziato a scrivere e mi uscivano cose in italiano, poi nel momento in cui le dovevo cantare venivano in napoletano… E’ stato tutto molto spontaneo e credo dipenda sempre dall’essere solo: mentre prima, in gruppo, si cacciavano strofe prettamente in napoletano per dare ai pezzi quel tipo di carattere assieme agli altri, ora non ho dovuto fare calcoli ed è andata così, ripeto, con grande spontaneità.

B: approfondiamo il discorso sulla tecnica. Mi ha incuriosito – e lo sottolineo anche nella recensione – il contrasto tra un flow elastico, che varia spesso passo, ed uno schema metrico di segno opposto, abbastanza regolare nella gestione della rima: è un effetto in qualche modo desiderato o rispecchia solo il tuo modo di scrivere? E quanto esercizio e studio dedichi ancora oggi alla disciplina del Rap?
A: ascolto tantissimo Rap, quindi mi piace sgamare nuove tecniche, studiarle e farle mie, fino a proporle in quello che è però uno stile personale. Anche ciò che dici a proposito dell’uso molto semplice della metrica, la cazzimma (furbizia/abilità, ndBra) sta proprio nel proporre qualcosa di diretto ma al cui interno puoi trovare una moltitudine di tecniche. Quello che mi va di fare è proprio questo: essere semplice, ma riuscire – senza che neppure te ne accorgi – a darti tutta una serie di finezze che, ascoltando più volte i pezzi, riesci a notare.

B: hai già lasciato capire che oltre l’Ale Zin artista c’è anche l’Ale Zin appassionato di Hip-Hop; quindi sei ancora un fan, ti informi, vai ai live, acquisti dischi?
A: sì. Diciamo che sono molto affezionato alle cose uscite un po’ di tempo fa, ma è bello che anche quando ascolto gli mc’s più giovani riconosco delle similitudini provenienti dal passato. Ad esempio mi piace molto Joey Bada$$, che per me somiglia a Buckshot; c’è Kendrick Lamar che è davvero eclettico, è strano; i Run The Jewels…
B: …ci consigli tre titoli imprescindibili usciti negli ultimi cinque anni?
A: subito “Run The Jewels”, appunto, “36 Seasons” di Ghostface Killah e “Skelethon” di Aesop Rock – lui poi è un mostro, è fortissimo e non riesco a capire perché non venga ascoltato più di tanto. A me piace tutta la roba che viene dal periodo della Def Jux, anzi ti dirò che è coi Company Flow che noi (si riferisce ai 13 Bastardi, ndBra) abbiamo avuto la botta finale, perché eravamo ingrippati (fissati, ndBra) di tecniche e quando abbiamo cominciato ad ascoltare El-P ci siamo rimasti un po’ sotto. Nel novantotto, infatti, abbiamo aperto ai Company Flow al Gusto Dopa perché c’era Gruff che si appassionò subito alla nostra roba e disse dovete farlo voi perché siete quelli più in fissa col flow.

B: ultima domanda. Perché i nostri lettori dovrebbero ascoltare il tuo nuovo disco?
A: “Panama 11” non parla solo del Rap, perché spesso e volentieri quando ascolti un disco Hip-Hop italiano ti accorgi che la maggior parte dei pezzi tratta di questa musica, di chi è il migliore, di chi è il peggiore… Invece qui puoi trovare di tutto, varie tematiche, usi diversi del Rap, dallo storytelling alle cose più astratte, si va da un umore a un altro, da una sensazione all’altra, oltre determinati canoni che poi sono sempre gli stessi. O almeno questo è ciò che volevo fare…
B: …sei d’accordo nel definire “Panama 11” un disco adulto?
A: assolutamente sì. Lo è nel senso che c’è consapevolezza di quel che si voleva fare.

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