Intervista a Doro Gjat (03/05/2018)

Sono a Udine con Doro Gjat, che da qualche settimana ha pubblicato il suo secondo disco solista, in una delle tipiche osterie della città. Fuori ha appena piovuto – come spesso succede qui – e noi abbiamo in mano una bella birra ghiacciata: quanto basta per fare due chiacchiere su una carriera in costante evoluzione.

Moro: ascoltando “Orizzonti verticali” la prima cosa che si percepisce è questo tuo rifiuto all’omologazione, al classico stereotipo del rapper, sia per i temi trattati che per le ambientazioni (Milano vs provincia). Spiegaci questa decisione.
Doro Gjat: più che di Milano in sé, bisogna parlare di grandi città contrapposte alla provincia come due alternative diverse al modo di approcciarsi alla musica o meglio a una forma d’arte, perché è di questo che stiamo parlando. Io ho sempre pensato che, a prescindere dal posto nel quale viene realizzato, se un disco vale la pena di essere ascoltato si sente subito. Se anche rinuncio alla rete di contatti che posso trovare in una grande città, comunque al tempo stesso mi rendo conto che è importante far conoscere la propria musica attraverso tutti i mezzi possibili e immaginabili; io mi rifiuto di sottostare a tutta una serie di dinamiche che sussistono al momento nel rap game e secondo le quali, se non sei in un grande centro, come dicevamo, non riesci a fare le cose bene. Io sono riuscito a fare due dischi, di cui quest’ultimo è un progetto che ha un suo inizio e una sua fine, ha un suo senso: riuscire a portare un punto di vista diverso nel panorama musicale di oggi. Il punto di vista magari dell’emarginato, dalla provincia esterna dell’impero, come mi viene spesso da dire. Per me fare il disco qua coi mezzi che ho avuto a disposizione, senza andare a cercarli fuori, è stata una chiave di svolta.

M: restando sull’argomento, io sono veneto e come sai da noi veneti i friulani sono considerati un po’ chiusi e introversi (sia chiaro: so che non è esattamente così, avendo vissuto a Udine per parecchi anni). Io però noto più chiusura e solitudine in una grande città, dove la gente non si guarda neppure in faccia ma cammina con gli occhi incollati all’iPhone, piuttosto che in una realtà in cui si può ancora avere un po’ di contatto fisico con la natura e apprezzare un tajut in osteria; sei d’accordo?
DG: sicuramente il rapporto umano conta molto. Io non voglio fare differenze tra come può essere qua e come può essere altrove, ma ho lavorato qui e so come funzionano le cose: il rapporto umano terra terra può avere un suo modo d’essere particolare che si sviluppa meglio in provincia. D’altra parte penso che la musica prescinda abbastanza da un certo tipo di dinamiche, nel senso che se ci atteniamo a quella, il modo in cui la ottieni fa la differenza. Al di là di quanto può essere più genuino vivere in provincia, la musica è il fulcro di questo discorso e il fatto che in provincia la ottieni, la crei, libero da un certo tipo di meccanismi, secondo me è la vera marcia in più che può avere un prodotto realizzato al di fuori da certi discorsi.

M: “Orizzonti verticali” fa spesso riferimento alla natura, elemento che potremmo vedere in aperta contraddizione rispetto agli scenari Hip-Hop solitamente più urbani. Premesso che la scelta riflette la tua realtà, l’ambiente in cui sei cresciuto, rispetto alle peculiarità della tua musica che reazione incontri da parte di quella fetta di pubblico un po’ più rigida ai cambiamenti e alle novità?
DG: io e te veniamo dall’Hip-Hop, quindi ci capiamo. Al momento che ti dico keep it real represent tu sai cosa vuol dire. Se da un lato devo essere vero e restare vero, dall’altro rappresento al tempo stesso qualcosa; nella musica che produco, di conseguenza, cerco di essere vero con me stesso e rappresentare contemporaneamente una frangia umana di cui sono parte. E’ anche giusto che i più rigidi, come li definivi, si rendano conto di ciò e in effetti non ho problemi di mancanza di rispetto da parte di chi ha gusti più classici.

M: nel disco c’è tanto Rap, ma anche tanto cantato. Nel mood di “Orizzonti verticali”, a mio avviso, le due cose si sposano molto bene; non hai paura, però, che la cosa possa essere letta in maniera sbagliata? Ad esempio in “Aprile” dici <<non copio Milano e nemmeno l’America/dieci anni che spacco e la scena m’ignora/capisci perchè mo’ mi girano a elica>>: credi che possedere un’unicita, una personalità definita e propria, il più delle volte possa penalizzare gli artisti poco inclini a uniformarsi ai gusti dell’utenza?
DG: penso che quello che ho realizzato, ascoltandolo adesso e magari anche dopo un po’ di tempo, sia un disco, un’opera completa, che ha un suo modo di essere e i suoi mood, per questo richiede un approccio un po’ più attento, bisogna tenere d’occhio tutto quello che c’è dietro e quindi può essere più difficile arrivi immediatamente. Però al tempo stesso se parliamo di musica come forma d’arte possiamo dire che non è l’immediatezza in sé del prodotto che ne determina la qualità, ma il modo in cui è stato concepito. Io mi rendo conto che sul momento può sorgere qualche difficoltà, ma sono anche convinto che sia questo il modo giusto per dare alla gente qualcosa che non sia uniformato e omologato a degli standard precisi, quindi anche se all’ascolattore medio occorre un attimo in più, ciò che ne otterrà – con un pizzico di attenzione in più – ne varrà lo sforzo.

M: “Orizzonti verticali” è un disco più estivo o invernale?
DG: autunnale! In realtà, ascoltandolo ti rendi conto che ci sono momenti per tutte le stagioni, un pezzo come “Icaro” (che sarà il terzo singolo) è decisamente estivo, “Aprile“, già partendo dal titolo, sarebbe un pezzo primaverile, “Rune” invece, che apre il disco, sa proprio di foglie secche e odore di neve nell’aria, quindi fine autunno. L’alternarsi delle stagioni è un’ispirazione costante che ho traslato nel disco.

M: a cosa ti sei ispirato dal punto di vista musicale quando hai dato una forma all’album e a quali figure del passato e del presente ti senti più affine? A me, durante l’ascolto, veniva un po’ da pensare al cantautorato degli anni ’60/’70.
DG: ti do una risposta sintetica e generalista che però va bene per un’intervista – e chiaramente va presa con le pinze. Io mi colloco idealmente a metà strada tra 2Pac e Fabrizio De André; quindi, se da un lato trovi la figura più carismatica della mia generazione, che ha cambiato il modo di approcciarsi all’Hip-Hop per un’intera generazione, dall’altro ritrovi il cantautore col quale sono cresciuto e che è stato basilare per le generazioni precedenti alla nostra, per l’importanza della parola e del messaggio. Loro sintetizzano perfettamente tutti questi aspetti.

M: il sound è affidato a Davare, Kappah e Railster. Il disco suona molto omogeneo e compatto, si sente che ti trovi a tuo agio con loro; raccontaci da dove nasce e come si sviluppa il vostro rapporto sia musicale che umano.
DG: le cose sono interconnesse e il motivo per il quale il disco suona così omogeneo è che c’è proprio un team produttivo dietro. Se da un lato abbiamo un produttore che fa quel che fa un normale beatmaker Hip-Hop, dall’altro abbiamo una band che mi accompagna nei live, che cura gli arrangiamenti e gli strumenti suonati sul disco. Poi abbiamo un fonico che ci segue anche dal vivo, che ha dato una pasta al tutto. I produttori non sono stati altro che l’amalgama di tutte queste interazioni. Diciamo che si sono posti in mezzo tra me e la band, per creare qualcosa che suonasse Hip-Hop ma avesse anche una dimensione artistica e musicale molto personale.

M: il disco dei Carnicats all’epoca si rivelò una piacevolissima sorpresa, magari un po’ acerba trattandosi di una prima esperienza. “Vai fradi” rappresenta per te una netta crescita, un disco molto godibile ma che ancora presenta vari esperimenti tecnico/lirici e una certa disomogeneità dal punto di vista dei suoni. Con “Orizzonti verticali” trovi invece la quadratura in maniera ottimale, una struttura granitica che possiamo considerare alla stregua di un concept album. Parlaci della tua crescita come uomo e come artista in questo percorso.
DG: secondo me hai fatto una ricostruzione davvero impeccabile e infatti avrei poco altro da aggiungere! Il percorso dei Carnicats è l’inizio, quindi il mio modo di approcciarmi a una forma d’arte come quella appunto del Rap, con una personalità che poi si è evoluta negli anni passando appunto per “Vai fradi” fino ad arrivare qui, a quello che considero in qualche modo un coronamento di questa progressione, perché riesce a unire tutti gli elementi che hanno caratterizzato la mia vita, la crescita, i gruppi che mi hanno influenzato. Proprio questa commistione tra parti campionate, synth e strumenti suonati dal vivo per me è la base di partenza, non a caso un attimo fa abbiamo parlato di 2Pac e lui cosa faceva? Se ascolti “All Eyez On Me” senti synth, chitarre e beat Hip-Hop, perciò sono felice tu dica che in “Orizzonti verticali” qualcosa di simile raggiunga un suo equilibrio, è ciò su cui ho lavorato e che volevo ottenere. Dare alla mia musica una dimensione personale. Non che se lo metti su, dici ma mi sembra un altro; non succede, vero? Me lo confermi?
M: aspetta la prossima domanda… (la minaccia viene accolta da una risata, ndMoro). L’anno scorso eri al concerto del Primo Maggio, quest’anno sul palco c’erano Sfera Ebbasta e Achille Lauro. Credi che il pubblico generalista abbia un’idea chiara di cosa sia la Cultura Hip-Hop? O ritieni che ciò non sia importante?
DG: la Cultura in sé no, è un passo successivo. Il passo basilare, quello che si chiede all’ascoltatore, è capire un linguaggio artistico come quello del Rap e credo che il pubblico più giovane non sia preparato, che non riesca a capire tutto il background che c’è dietro. Sono dell’idea che, com’è successo a noi che abbiamo sentito le prime cose, solo se studi capisci cosa c’è dietro e ti rendi conto della differenza tra – per dire – Sfera Ebbasta e Willie Peyote, che hanno suonato sullo stesso palco lo stesso giorno. Però è chiaro che c’è un po’ di confusione ed è sintomatico dei tempi nei quali viviamo, perché siamo bombardati mediaticamente da tutte le parti.

M: andiamo un po’ più sul leggero. E il plagio di Rovazzi? Cos’è successo?
DG: lì, in realtà, si tratta di una citazione di “Fracchia contro Dracula”, che ho fatto io e che ha fatto anche lui. Onestamente però io l’ho fatta meglio! Non voglio prenderlo come un plagio, al di là del tentativo di creare un po’ di subbuglio mediatico che poi torna utile anche a me…
M: qualcuno del suo ufficio stampa ti ha contattato?
DG: no. Ogni volta che provo a soffiare sulle braci non succede niente. Si vede che non ho abbastanza fiato!

M: tornando di nuovo al passato, “La rivincita di Bruto” secondo me è un pezzo potentissimo, oramai ha dieci anni ma funziona ancora bene. Aiutaci a farlo riscoprire a chi magari al tempo se l’è perso, assieme al vostro album.
DG: penso che il disco dei Carnicats, per l’epoca in cui è uscito, fosse di livello molto alto, nonostante noi fossimo parecchio giovani. Per quel che riguarda il sound e il modo in cui era stato confezionato, l’attenzione nella creazione dei pezzi, era sicuramente un passo avanti. Il percorso che ho fatto con loro è stato formativo, fondamentale per la mia crescita e non lo considero affatto superato, anzi.
M: ci sarà qualcos’altro da parte dei Carnicats?
DG: questo al momento non so dirlo. I miei soci sono impegnati in un altro progetto che è molto distante da quello che faccio io, sono dj residence e vocalist residence del Mamacita, che è una serata di Hip-Hop e Dancehall che gira le discoteche. Se ascolti il mio disco ti rendi conto che sono percorsi diametralmente opposti, abbiamo cominciato assieme ma siamo evoluti in due strade diverse. Loro ottengono grandi riscontri in quello che fanno, io non me la cavo niente male nel mio…

M: “Orizzonti verticali” è appena uscito, ma in uno sguardo al futuro che progetti collaterali hai?
DG: collaterali non ce ne sono. Per il futuro, il progetto è quello di portare in giro il mio disco. Lavorando con una band, la dimensione live è fondamentale, così com’è importante esportare la musica fuori dalla propria regione. Diciamo che ho un set sia elettrico che acustico e il primo mi consente di uscire a costi più contenuti, ma si tratta comunque di una dimensione che non è quella base con un dj, perché quello è un tipo di linguaggio che non mi appartiene più.

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