Danny Brown – Atrocity Exhibition

Voto: 4/4,5

dannybrownatrocityexhibitionNel 2013 uscì “Old” e, non giriamoci troppo attorno, fu un clamoroso buco nell’acqua. Di quelli con tanto di spanciata, per intenderci, che fanno male anche a chi si allontana con disinvoltura dalla piscina, sorridendo e fingendo che vada tutto bene mentre in realtà soffoca le urla di dolore nel petto. Danny Brown ci provò. Tentò d’infilare contemporaneamente il suo piedone in una consumatissima Timberland e in una fiammante Gucci Ace, ottenendo come unico risultato quello di cascare in un limbo situato a metà tra quella fetta di pubblico che già puntava su di lui gli occhi, ma in quel momento lo sentiva tremendamente lontano, e chi invece ancora non l’ascoltava e, nonostante i suoi sforzi, continuava ad osservare dall’altra parte.

Non si può accontentare chiunque. E di certo non lo può fare uno come Danny Brown perché, parliamoci chiaramente, uno con quella voce o ti piace o ti sta sulle palle. Lezione recepita. Tre anni dopo il buon Danny, riposte le mezze misure in qualche polveroso baule in soffitta assieme al contratto firmato con la Fool’s Gold Records e i beat da sabato sera di A-Trak, si ripresenta in un freschissimo completo Warp con “Atrocity Exhibition” e, signori, è tutta un’altra storia.

Niente mezze misure, solo vette e abissi (e non si parla di qualità). E proprio dalle profondità di questi ultimi provengono i primi, graffianti lamenti di “Downward Spiral”. <<Had a threesome last night, ain’t matter what it cost/couldn’t it get hard, tried to stuff it in soft/had to fuck ‘em both raw, keep my fingers crossed>> rappa disorientato Brown, avvolto fra le corde stridule pizzicate dal fedelissimo Paul White, eclettico intessitore dei due terzi delle tele chiamate a raccogliere paranoie e ansie della scheggia impazzita di Detroit. A partire da questo momento l’album assume i toni di un roller coaster emotivo senza sosta. “When It Rain”, costruita su ritmiche acide ad alta velocità in omaggio ai tempi di “XXX”, è il genere di brano che opprime e scaraventa a terra, mentre l’esplosione punkettona di “Goldust”, assemblata attorno al campione dei Joy Division che ha ispirato il canovaccio di “Atrocity Exhibition”, si erge dal torpore alla pari del cazzo che botta! di Mia Wallace nei bagni del Jack Rabbit Slim’s.

Nel pieno del disagio concettuale, il flow di Danny Brown rimane focalizzato e non smarrisce quasi mai il proprio metro. E, tra gli eccessi di dopamina (<<credit cards separating, white lines on a mirror/roll a 100 dollar bill, now my sinus all clearer>>) e le fasi di down, il suo flusso verbale si mantiene costantemente in equilibrio anche quando è il beat stesso a barcollare, come nel caso di “Lost”, un grasso e gustoso impasto di vecchi fiati e strambi vocalizzi sul quale in pochi sarebbero in grado di incollare con successo un paio di strofe. Uno di loro lo ha fatto. L’altro purtroppo non è più fra noi da quel funesto 13 novembre di dodici anni fa (R.I.P.).

La già citata uniformità del tessuto musicale di “Atrocity Exhibition” è un criterio che Danny Brown ha adottato anche nella gestione del microfono, che rispetto a “Old” risulta qui molto meno ospitale nei confronti dei colleghi. Esclusi B-Real e Kelela, le cui apparizioni possono essere considerate quasi alla pari di due cameo, sono solo un paio gli episodi in cui gli ospiti fanno sentire il proprio peso. La prima è quel gioiellino di “Rolling Stone”, una sinossi della cosiddetta vita da rockstar (<<you know I’m living like a rolling stone/but don’t feel for me/you know I’m in my zone/so don’t speak to me>>) orchestrata dal talento sudafricano Petite Noir, che oltre a posare le dita sul campionatore presta pure la propria ugola a uno degli hook più riusciti dell’album. La seconda è invece la iper-massiccia “Really Doe”. Black Milk, in puro stile MacGyver, prende un paio di percussioni, una linea di basso grossa così, qualche scampanellio e con un gioco di prestigio tira fuori una roba che metterebbe in soggezione quella manata di “All In Together” (sì, proprio quella firmata dai Barrel Brothers) e la consegna nelle mani del titolare accompagnato dai compari Ab-Soul, Kendrick Lamar ed Earl Sweatshirt, i quali, dilettandosi fra incastri in apnea e punchline (<<loungin’, ask your girl why her mouth on my nuts/you’ve been the same motherfucker since 2001/well it’s the left-handed shooter, Kyle Lowry the pump/I’m at your house like, why you got your couch on my Chucks?>>), banchettano voracemente senza lasciare nemmeno le briciole.

In soli tre quarti d’ora, complice la scelta vincente di ridurre all’osso la durata dei brani (otto tracce su quindici si esauriscono in meno di tre minuti), la personale esposizione delle atrocità si completa, condensando l’icosaedrica vita di questo folle 35enne del Michigan. L’unico momento, almeno in apparenza, capace di trasmettere un certo senso di quiete è quello conclusivo di “Hell For It”. Resterebbe però da capire se si tratti di un lucido e positivo bagliore di consapevolezza o, più semplicemente, di fatalistica rassegnazione. Personalmente propendo per la prima ipotesi, ma…in fondo: ha davvero importanza?

Tracklist

Danny Brown – Atrocity Exhibition (Warp Records 2016)

  1. Downward Spiral
  2. Tell Me What I Don’t Know
  3. Rolling Stone [Feat. Petite Noir]
  4. Really Doe [Feat. Kendrick Lamar, Ab-Soul and Earl Sweatshirt]
  5. Lost
  6. Ain’t It Funny
  7. Goldust
  8. White Lines
  9. Pneumonia
  10. Dance In The Water
  11. From The Ground [Feat. Kelela]
  12. When It Rain
  13. Today
  14. Get Hi [Feat. B-Real]
  15. Hell For It

Beatz

  • Paul White: 1, 2, 6, 7, 10, 11, 12, 13, 14, 15
  • Petite Noir: 3
  • Black Milk: 4
  • Playa Haze: 5
  • The Alchemist: 8
  • Evian Christ: 9
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